Archive for agosto, 2014

Didattica, cura e sogni

Posted by Pills on agosto 28, 2014
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foto di NC

foto di NC

 

Non ci sono sogni più strani di quelli fatti nelle notti delle settimane di tirocinio.
Sono popolati di camici spiegazzati, emergenze improbabili e scambi di ruolo tra studente e paziente.
Ci si sveglia sudati, frementi e con i muscoli strizzati dal “girarrosto” notturno.
– Saprò abbastanza? Mi chiederanno tanto? Mi cazzieranno? Qualcuno abbia pietà di me! –
Le domande si affollano mentre un camice inamidato si appoggia sul corpo come una palandrana da apprendista stregone.
-Ecco…Mi faranno portare secchi d’acqua come le scope magiche della Disney? –
Fonendo, fazzoletti per esplosioni allergiche, liquirizia per cali pressori e afrori (in)umani, telefono silenzioso e cartellino segnaletico.
– E se mi perdessi e non trovassi il reparto? Se al primo errore mi cacciassero? Potrò sedermi e andare in bagno? –

La porta e davanti al mio naso mezzo ignorante di studente. Busso ed entro.
Nessuno tranne i miei sconosciuti compagni di tirocinio che non salutano e osservano con occhi prematuramente giudici.
Per fortuna poco dopo di me entra la mia CompagnaAmica. Una ventata di aria fresca.
– E’ troppo presto o troppo tardi?   –
Mentre te lo domandi compaiono figuri in camice.
Presentazioni d’obbligo, controllo della presenza e scartabellamento di cartelle.
– Sei già stata in una chirurgia? –
Sì.
– Oh bene, allora oggi c’è sala. Vai di sotto ed entra e cerca il primario. Magari ti fa anche lavare se ha bisogno di una mano in più –
Orpo!
Corro con la mente ma cammino spedita coi piedi.
Arrivata prendo la divisa, mi spoglio del mio essere individuo riconoscibile ed entro nell’anonimato che tanto mi piace. Solo gli occhiali tradiscono un lato di me.
Mi infagotto con cuffietta e mascherina e divento temporaneamente una delle tante anime che vivono di neon, aria condizionata e zoccoli autoclavabili.
CompagnaAmica è con me e gode anche lei dell’essere diventata fantasma.
Segnaliamo la nostra presenza senza scoprire il volto. Si dovranno fidare delle nostre mani e del nostro sguardo.
Trovata la sala entriamo come si entra in qualità di ospiti in un salotto di una casa sconosciuta.
– Permesso? –
Formichine viaggiano attorno all’Ospite d’Onore (per comodità Doppia O). Toccano, pungono, agganciano a flebo, girano, si intrufolano, palpano, accarezzano, montano aggeggi vagamente inquietanti.
Doppia O si addormenta dopo aver detto : “Fate i bravi”.
I Chirurghi arrivano, si vestono come da rituale. Per la vestizione devi farti allacciare il dietro del camice da qualcun altro, come la mamma che ti tira su la zip del vestito elegante.
La sala trasuda intimità e distacco contemporaneamente.
Un po’ di musica e si incide.
A metà del primo taglio vengo invitata a lavarmi (l’ho già fatto in precedenza).
Tachicardia. – Posso toccare. Posso imparare! –
Chiedo aiuto ad InfermieraSorriso. Mi fa un refresh sul lavaggio. Insultiamo il lavandino poco pratico.
Mani a preghiera e mi vestono.
Porto un 6 e mezzo. Me l’ero dimenticata.
Mi accomodo e vengo investita dal fumo dell’elettrobisturi… e nel giro di un attimo gli operatori conoscono il mio nome e vengo risucchiata nel vortice del campo operatorio.
Siamo sincronizzati e anche se devo solo tenere delle spatole e altri aggeggi ne approfitto per aiutare la strumentista a tenere ordinato il campo.
Scopro consistenze strane d’organi e di vasi. Me le imprimo a fuoco nella testa per quando ri-studierò quegli apparati.
Tengo, taglio, osservo e mi ipnotizzo.

No. Non farò il chirurgo. Non ho la resistenza di fisico ed animo necessaria.
Adoro parlare con le persone. Mi mancherebbe troppo quella parte.
Magari finirò dietro la vela, diventerò quella che sta seduta e fissa il monitor e conta i complessi dell’ECG.
Così assaporerò l’intimità della sala e la sete di curiosità dell’osservatore.
In più con calma e decisione tornerò a parlare con le persone dopo un sonno popolato da chissà quali sogni e demoni.

Chissà poi quali saranno i miei sogni tormentati.
Magari saranno li stessi dei miei pazienti e lì nelle nostre paure ci terremo per mano.
Io che rassicurerò loro sulla procedura e loro che rassicureranno me con il loro essere svegli.
– Che qualcuno abbia cura di noi tutti… –

Pills

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Skyfall

Posted by Ultiva on agosto 18, 2014
emozioni / 2 Commenti

 

foto di FR

foto di FR

Serata in hamburgeria con i soccorritori del 118, ed io sono sempre piuttosto monotono. Parlo sempre di lavoro.

Sono quelle serate con gente che conosci poco, con cui ti capita di condividere un turno, qualche birra ogni tanto. Giusto per non fare la figura dell’orso, il mio animale specchio.

Esco a fumare una sigaretta con C. che mi chiede come è andata l’ultima settimana…. Male, rispondo.

Nell’ultima settimana – di merda – ho avuto la sfiga cosmica di occuparmi di tre ventenni, che sono finiti uno peggio dell’altro.

Racconto brevemente il caso del 21enne morto di meningite, non mi vergogno di dire che ho pure pregato perchè rimanesse nell’aldiquà. E la soccorritrice, con un sorrisetto, mi dice: “Beh, non ti ci sei ancora abituato?”.

No cazzo, non mi ci sono abituato. Neanche un pò.

A. aveva 21anni. Al rientro dalle vacanze dapprima un vago malessere, una perdita di coscienza in stazione con intervento del mezzo avanzato ed immediato trasporto nella rianimazione di D., dove le condizioni sono apparse subito critiche. GCS 15 in rapido scadimento con una TC encefalo fortunatamente libera da sanguinamenti, scambi osceni. Sedazione, IOT, rachicentesi. Risultato: meningite da neisseria.

La banale copertura antibiotica parte subito, ma non serve ad arrestare la bestia. Una bestia che si mangia A. ogni ora che passa. A 24 ore dal tubo ci chiamano, il Paziente satura 37. Non sapevo che un saturimetro potesse essere affidabile fino a valori così bassi, ma l’EGA conferma. Come sempre il mio compito è fare l’idraulico, ovvero mettere in ECMO ARDS, shock cardiogeni, ecc. ecc..

Al mio arrivo in quella che definirò rianimazione periferica A. è già evidentemente oltre ogni ragionevole speranza di sopravvivenza. La porpora forma delle macchie liquide dal ginocchio e dai gomiti in giù, impedendo al sangue di raggiungere i tessuti. Non trattengo un “Minchia!” quando vedo le gambe. Le urine sono a lavatura di carne (quei pochi ml), Crea 13, CPK 75000, Lac 20, pH 6.8, CO2 30, PaO2 40, HCO3- 24, BE – 20.

Mi avvicino al letto: i colleghi hanno fatto moltissimo, e A. sembra Cristo in croce.

E’ poco più che un cucciolo. Ce la mettiamo davvero tutta: incannuliamo, contropulsiamo, Ceprotin ed accarezziamo l’idea di un plasma exchange.

Di ammalati così ne ho già visti un tot, e ricordo un solo sopravvissuto.

Mentre aspettiamo l’elicottero faccio entrare papà, nonna e mamma. Come sempre dettaglio la situazione clinica, spiego a cosa servono le varie macchine. La nonna, con cui A. vive, mi chiede almeno una speranza. Non ce la faccio a rispondere di si. Farfuglio qualcosa tipo: “La situazione è più che drammatica, stiamo a vedere, rimanetegli vicino”.

Ovviamente i Parenti, come sempre, vedono in noi una sorta di “Delta Force”, in grado di risolvere tutti i problemi, e rimangono delusi dalle nostre risposte.

Argomentiamo con dovizia di dettagli, poi esco a fumare la meritata sigaretta post-procedura.

Me lo dicono tutti che fumare fa male, specialmente se vieni intercettato dai Parenti. A cui non posso nascondere l’imminenza del dramma.

Sono piegati, mi raccontano che A. è un appassionato di motocross, e che la settimana successiva avrebbe compiuto 22 anni. In pochi minuti so tante cose di lui che non avrei dovuto e voluto sapere.

Arriva il momento del trasferimento, che avviene senza variazioni cliniche di rilievo.

Consegnato il Paziente ai colleghi, torno a casa. Sono le otto di sera.

Mi ritrovo a pregare, a sperare nel miracolo. Io, che a Dio non credo.

Il giorno dopo le notizie sono confortanti: la porpora in regressione, le amine in riduzione. La funzionalità renale che migliora.

Forse Dio esiste?

No, non esiste. Il giorno dopo A. ha un sanguinamento intracranico che, più nello specifico, è una emorragia con inondamento tetraventricolare. Iniziano le procedure per  l’osservazione. Morirà il giorno dopo.

Mi chiamano a casa per dirmelo, siamo un bel gruppo e le vittorie e le tragedie si condividono.

Sono annichilito, frustrato: inizio con i forse…

Mi chiedo: perchè? Perchè proprio un ventunenne? Non è come per i traumi, questa è proprio sfiga.

Penso a suo papà e a sua mamma, alla nonna, alla fidanzata. Mi si chiude lo stomaco.

Cerco di spiegarlo a C., che sul 118 non vedi tutto questo, non vedi i morti che vedo io in rianimazione. Non stabilisci lo stesso lungo contatto con i famigliari, non fai in tempo ad affezionarti. Lei non mi capisce, fa il soccorritore, non è mai stata in rianimazione.

Le ho chiesto di venirci, di passare un giorno con me, di capire cosa vuol dire passare più di 20 minuti con un Paziente. Dovrebbe essere obbligatorio per un soccorritore.

Pensate soccorritori, pensate che se anche su un mezzo di base avete in mano una vita e quelle che intorno ad essa gravitano.

Ricordatevi di occuparvi dei Parenti quando il Paziente se ne sta andando, e del conforto che le vostre parole e le vostre mani, quando stringono quelle del Paziente, possono dare. Non dimenticatevi, colleghi, dell’importanza di appoggiare un braccio sulle spalle dei Parenti e della necessità di essere umani.

Intanto il mio pensiero va a lui, alla sua famiglia. E sono sicuro che l’unica cosa fatta davvero bene è stata ottimizzare l’analgosedazione, togliergli almeno il dolore e la consapevolezza dell’agonia.

L’ultima cosa che faccio prima di chiudere il pensiero su A. è di affidarlo a Matteo, il mio amico alpino, che “è andato avanti”.

Molto poco scientifico, ma sicuramente una consolazione per la mia anima.

Ultiva

Pezhman, suonatore di Tar

Posted by Labile on agosto 06, 2014
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tar azerbaijan“ Se mi avessero calpestato come attraversando un campo di rose avrei parlato  con le parole profumate della poesia.

Se avessero accarezzato il mio corpo con una piuma avrei raccontato delle carezze dell’amore in una notte d’estate.

Se  avessero chiesto il conto del mio sguardo lo avrei risolto semplicemente con l’attesa, quella parola con cui gli altri mi chiamano libero e che io chiamo unicamente vivere.

Vivere,vivere, vivere senza l’infelicità di un  domani che significa morire .”

….. Appena apre gli occhi, mi vede nella penombra di una sala rossa illuminata dalla sola luce  del monitor.

Il verde smeraldo della traccia cardiaca, il tenue azzurro della traccia capnografica, il giallo siena della frequenza respiratoria.

Il bianco, il bianco, un bianco onirico che gli restituisce la mia faccia sovrapponendola a quella di un suo passato aguzzino.

“Hanno torturato il mio corpo come quello di un santo, trafitto, bastonato, saccheggiato di umori e di lamenti alla ricerca di una parola delatoria che non saprà mai raccontare l’ angoscia della mia gente.”

Stringe al petto una strana custodia nera, rigida , di pelle come quella di un violino smagrito e allungato nelle forme.

La stringe con dita lunghe e sottili, deformate leggermente a martelletto sulle punte come un suonatore a lungo invecchiato sulle corde.

Il viso ancora giovanile sprofondato in uno sguardo precocemente invecchiato, barba cresciuta nella notte e capelli arruffati in un biancore spaventato.

Fuggito da un paese infiammato  dalla guerra, attraversato da  confini mai ben  compresi per approdare in una terra amata già da lontano.

“Il verde smeraldo delle mie colline, l’azzurro tenue del cielo e il richiamo giallo dei fiori a primavera ….”

Vivere, vivere e ancora vivere della propria musica, mai soddisfatto del dolore e di un  corpo che restituisce la memoria.

Memoria  del corpo torturato, del  corpo martirizzato, del  corpo violato.

È così che stringe la custodia del suo Tar al petto, per ricordare che è lì che il suo cuore approda e trova rifugio, calcando la nostalgia come l’unica malattia che non potrà mai ammazzare.

“Non legare il cuore a nessuna dimora, perché soffrirai quando te la strapperanno via.” 

Rumi  (Jalāl ad-Dīn Muhammad Balkhī  1207-1273  poeta mistico persiano)

Labile

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