Dicembre 2014-Gennaio 2015 Sierra Leone
Nel mese di dicembre i casi sono ancora 80 al giorno e Lakka è sempre pieno di pazienti, le ultime piogge sono finite e lasciano il tempo alla stagione secca, talvolta dei tramonti superbi ci sorprendono mentre siamo sulla strada di casa che corre parallela all’oceano.
Il lavoro è sempre frenetico, non facciamo in tempo a dimettere malati che altri sono già in attesa e purtroppo la malattia colpisce anche i nostri collaboratori.
Obay lavorava con noi nell’ospedale chirurgico di Goderich e ora come igienista nel Centro di Lakka. Viene ricoverato nel Centro come caso sospetto e purtroppo gli esami del sangue mostrano una compromissione d’organo molto grave fin dall’inizio, si conferma positivo per l’Ebola. Ha una diarrea talmente profusa che lo sfinisce, lo reidratiamo con le infusioni endovenose e lui risponde bene alle cure e ci lascia sperare che andrà bene ma dopo 7 giorni ha un aggravamento con febbre alta e difficoltà respiratorie. La sua ultima notte Obay chiede da mangiare e uno dei suoi colleghi entra in tenda per portargli del cibo. Lo chiama ma Obay non risponde, il collega lo scuote e tenta anche di fargli un massaggio sul torace mentre io e Marco l’infermiere di turno, assistiamo impotenti fuori dalla tenda. Quello che segue è un dei miei ricordi più commoventi: entrano altri 2 igienisti per preparare il corpo e quando la salma è pronta, tutto il personale comincia a cantare davanti alla tenda, canzoni religiose cristiane anche se Obay è musulmano, le donne in segno di grande dolore si tolgono le parrucche e i loro acuti lamenti lacerano la notte calda, i ragazzi si percuotono il petto e pestano la terra coi piedi, lacrime di dolore e rabbia perché questa malattia tremenda non ha risparmiato il loro amico e collega. Lentamente la salma viene portata verso l’obitorio sempre accompagnata da tutti noi che da fuori continuiamo a pregare e cantare. Riposa in pace Obay e che Dio accolga la tua anima.
Il tempo corre e il nuovo centro da 100 posti letto è quasi pronto, i sierraleonesi lo hanno già chiamato White House, vengono fatti i preparativi per allestire i 24 letti di terapia intensiva con tutto il necessario per monitorare, ossigenare, ventilare e incannulare i pazienti, arriveranno presto anche ventilatori e due macchine per la dialisi. I logisti fanno colloqui ogni giorno per trovare il personale che serve, per insegnare loro le procedure di vestizione e per formare gli igienisti che si occuperanno dei malati. Alla fine abbiamo assunto 700 persone tra infermieri, igienisti e addetti alle pulizie e alla sorveglianza.
Noi intanto riceviamo il primo gruppo di medici e infermieri inglesi che avrebbero dovuto darci una mano nella gestione del nuovo centro di trattamento da 100 posti letto. Una serie di incomprensioni e di divergenze sulla gestione di questi malati portano tutto il gruppo inglese a lasciare la missione una settimana prima dell’apertura del nuovo centro. Una campagna mediatica molto negativa su di noi ci lascia amareggiati e delusi, forse abbiamo peccato di ingenuità nel pensare di poter dialogare scientificamente con ministri e responsabili della sanità di questo paese senza tener conto che dietro ogni cosa anche qui ci sono interessi di multinazionali più portate a sperimentare il farmaco miracoloso sull’africano, in modo da averlo pronto per quando un europeo o un americano si ammalerà. Farmaci dai costi impossibili che non saranno mai disponibili in Africa.
Siamo di nuovo soli ma dobbiamo serrare i ranghi perché il Centro si deve aprire comunque e il 15 dicembre trasferiamo tutti i pazienti positivi al nuovo ETC, Ebola Treatment Centre. Lakka rimane un Holding Centre dove vengono ricoverati i malati sospetti in attesa dell’esame che conferma o meno la malattia. Siamo l’unica organizzazione del paese ad avere contemporaneamente un Holding e un Treatment Centre per Ebola.
Nel frattempo, un prete cattolico che vive nella baraccopoli di Waterloo ci segnala la presenza di numerosi casi di malati che spesso non riescono a raggiungere i centri di trattamento. A Waterloo, che dista un ora e mezza da Goderich, vivono 20000 persone tra sierraleonesi e profughi liberiani che dopo le guerre civili hanno perso tutto. In realtà passando tra le capanne dai tetti di lamiera e le strade di terra battuta abbiamo una impressione di ordine e pulizia che non c’è negli slum di Goderich o Freetown. Waterloo è stata una delle zone più colpite dal virus, la cintura sanitaria ha spesso solo impedito che arrivassero approvvigionamenti di cibo piuttosto che la fuoriuscita di malati. I nostri logisti aprono un centro sanitario all’interno di una scuola, per l’isolamento e poi il trasporto dei malati a Lakka con la nostra ambulanza. Vengono anche formati 90 volontari che facendo parte della la comunità, sono in grado di rintracciare il maggior numero possibile di casi sospetti e trasferirli nel centro di holding.
I primi giorni il nuovo ETC ci sembra un mostro bianco gigante in cui perdersi, siamo passati dalle tende a una struttura in muratura in cui la temperatura all’interno consente di stare anche più di due ore e di avere tutto il necessario per una terapia intensiva e sub intensiva. La sensazione di vuoto scompare subito perché in pochissimi giorni tutti i 24 letti di terapia intensiva sono pieni e a Natale sono ricoverati 36 pazienti. Arrivano a darci una mano un gruppo di infermieri e medici coreani che con qualche difficoltà linguistica sono però molto utili nel seguire i malati meno critici mentre noi ci concentriamo sugli altri.
Tutto sembra procedere per il meglio e sono in arrivo nuovi infermieri di terapia intensiva dall’Italia ma poco prima di Natale una triste notizia ci getta nuovamente nello sconforto, un nostro infermiere internazionale si ammala di Ebola e decide di rimanere in Sierra Leone e di farsi curare all’ETC, la pressione psicologica è enorme e non passa giorno che non mi ritornino in mente le facce dei tanti che non ce l’hanno fatta. Lui nei primi giorni cerca il conforto nelle nostre parole pure sapendo bene quale può essere il decorso della malattia ma mai si scoraggia o si lascia prendere dalla disperazione, passano sette giorni in cui la prognosi è incerta finché lentamente ma inesorabilmente comincia a migliorare e dopo 20 giorni viene dimesso guarito. Il giorno della sua uscita dal centro è uno dei ricordi più belli, di nuovo tutto lo staff che canta e balla ma questa volta canti di gioia e di ringraziamento.
Da quando abbiamo aperto il nuovo ETC sono passati tanti pazienti e queste sono le storie di alcuni di loro.
Arrivano da Waterloo entrambe portate dalla nostra ambulanza al Centro Holding di Lakka, lei si chiama MARIATU è una giovane madre che porta in braccio una bimba di 2 anni ALIMA, sono sospette di contagio in quanto sono state in contatto con la nonna che è morta di Ebola. La bimba ha la pelle che brucia tanto è alta la febbre che la sta consumando, non con poche di difficoltà si riesce a farle il prelievo per vedere se è malata e cominciare le infusioni endovenose per idratarla. Il mattino successivo arriva il risultato del laboratorio, sono entrambe positive con una carica virale molto alta e vengono trasferite al centro di trattamento. Mariatu sta molto male e dal suo letto segue la sua bambina che viene trattata in maniera intensiva fin dall’inizio. Sappiamo che l’Ebola non lascia quasi mai scampo a bambini così piccoli, però Alima è forte, risponde alle cure, si mette persino a mangiare latte e biscotti, siamo ottimisti e lo diciamo anche alla mamma che intanto lentamente migliora al punto che la trasferiamo nel reparto sub intensivo. Dopo 9 giorni però Alima continua ad avere la stessa carica virale dell’inizio della malattia, il suo fisico non riesce a sconfiggere il virus, ci guarda stanca, mani e piedi sempre gonfi e gelati, il respiro è un soffio ormai, dopo 11 giorni di battaglia anche la sua anima vola via. Lo diciamo alla mamma che voleva vederla un ultima volta ma non può, piange la sua figlia più piccola che non c’è più, portata via da questa peste moderna e mentre la guardo mi vengono in mente le parole del Manzoni che descrive la madre di Cecilia: “Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.
MUSU è una bella ragazzina di 15 anni che ha avuto contatti con due sorelle ammalate di Ebola ed entrambe sopravvissute e lei ha tutti i sintomi della malattia ma tutto sommato le sue condizioni generali sono buone. Infatti dopo pochi giorni nel reparto intensivo viene trasferita in quello dei malati meno gravi finché una notte ci chiamano gli infermieri perché Musu è agitata, il respiro affannoso e superficiale, il cuore che batte veloce, ci guarda senza capire perché improvvisamente sta così male ci chiede di aiutarla e di non farla morire. La trasportiamo di corsa nel reparto intensivo, sotto ossigeno, antibiotici e monitoraggio dei parametri vitali ma l’insufficienza respiratoria è grave e temiamo il peggio. Dopo 36 ore di cure intensive la situazione si sblocca, Musu riprende a respirare normalmente, torna ad avere il suo bel viso disteso e ci chiede che cosa le è successo perché ora vuole tornare a casa dalle sue sorelle e la sua mamma che la stanno aspettando. Dopo 15 giorni Musu esce dal nostro ospedale e riabbraccia le altre sorelle sopravissute.
Sono i primi di gennaio quando ci viene trasferita dall’ospedale cinese di trattamento per Ebola un intera famiglia di positivi: SARAH il nonno di 80 anni, SAIDU un ragazzino di 10 anni, BOI la sorella di 14 anni e un altro nipote EMANNUEL di 17 anni. Il nonno è quello che sta apparentemente meglio ma dopo due giorni improvvisamente si accascia nel letto portandosi le mani al torace e muore così senza che possiamo fare nulla. Il nipotino più piccolo è molto grave ha i polmoni intasati di liquido e secrezioni, lo intubiamo, ventiliamo, trasfondiamo, sosteniamo la pressione del sangue con farmaci ma nulla lo strappa alla morte. Nel letto davanti a lui, la sorella Boi è anche lei in condizioni critiche, semicosciente, il rene è compromesso ma ancora in grado di sostenere una diuresi adeguata, ci sembra che stia rispondendo alle cure, ha avuto delle piccole emorragie, è stata trasfusa con plasma e sangue e sembra stabile, finché improvvisamente un pomeriggio mentre la mobilizziamo per lavarla ha alcuni colpi di tosse seguiti da una emorragia inarrestabile dalle vie aeree, in pochi minuti muore in un lago di sangue. Siamo sconvolti dalla rapidità del quadro e anche perché pochi nostri pazienti sono morti di shock emorragico acuto. Tristemente un altro cadavere è lavato e preparato per il team delle sepolture che come moderni monatti vengono a ritirare i corpi per le inumazioni secondo le regole che l’epidemia impone.
MOHAMED ha 50 anni e vive a Waterloo con suo figlio e la moglie madre di 4 bimbi, quest’ultima da giorni sta molto male, ha febbre diarrea e vomito, potrebbe essere Ebola per cui chiamano la ambulanza per portarla nei centri di raccolta, l’ambulanza però non arriva cosi Mohamed e suo figlio la portano con l’auto di un loro amico all’ospedale cinese che tratta malati di Ebola, il più vicino a Waterloo. La donna muore dopo pochi giorni, la casa di Mohamed dove vivono altre 15 persone viene posta in quarantena e dopo una settimana, lui stesso e il figlio vengono ricoverati da noi, il contatto con la donna ammalata ha trasmesso loro la malattia. Anche la moglie di Mohamed, nonna Margaret e i suoi 4 nipoti dai 4 ai 10 anni vengono segnalati come casi sospetti e portati a Lakka in attesa del risultato degli esami. I bimbi sono spaventati, hanno tutti la febbre alta e sono tutti positivi per la malaria, noi cominciamo a sperare, nonna Margaret fa loro coraggio mentre gli infermieri mettono loro le cannule venose e iniziano la terapia per la malaria e la reidratazione endovenosa. Mentre sono in tenda con loro Margaret mi chiede di suo marito e io non posso che dirle che sta molto male e che molto probabilmente non ce la farà, lei si gira per non farsi vedere dai nipoti e comincia a piangere silenziosa, mentre i bambini che hanno già perso la mamma la guardano perduti. Vengono tutti dimessi, risparmiati dall’Ebola. Nonno Mohamed invece viene intubato e dializzato ma muore dopo pochi giorni. Il figlio ricoverato nel letto a fianco al padre lo vede trasferire in un’altra camera e capisce che le sue condizioni sono molto gravi. Una notte parliamo di suo padre che non c’è più, lui si rifiuta di mangiare e bere e noi dall’interno dei nostri scafandri cerchiamo di consolarlo dicendogli di farsi forza perché deve pensare ora ai suoi bambini che hanno solo più lui e nonna Margaret. E’ lenta la sua guarigione ma alla fine anche lui ce l’ha fa e può tornare a casa.
Ebola per mesi ha seminato la morte tra le famiglie, uccidendo un padre o una madre, lasciando talvolta indenni i più deboli o i più vecchi, altre volte invece non risparmiando nessuno. Ha stappato piccoli figli alle madri che sono sopravissute, altre volte i genitori sono morti lasciando orfani sulle spalle della comunità e tanti sono questi bambini a cui qualcuno dovrà pensare. L’epidemia ha messo vicini musulmani e cristiani sia come pazienti che come infermieri, ricchi e poveri hanno condiviso le stesse paure e angosce e pianto i rispettivi morti. Sono state mobilizzate migliaia di persone per lavorare nei centri di raccolta e di trattamento: operai, spaccapietre, ingegneri, studenti di medicina e non solo, infermieri, cuochi, igienisti, cleaners. Canzoni e ballate sono state scritte per sensibilizzare la popolazione sull’Ebola, per esorcizzare la paura della morte e per dare speranza ai malati. Le città sono state tappezzate di cartelloni sull’Ebola e le radio non facevano che parlarne ogni giorno, dando le cifre ufficiali dei nuovi casi e dei morti provincia per provincia. Come nella immaginaria peste di Orano qui tutto si è verificato nella realtà e noi ne siamo stati testimoni.
Le grandi organizzazioni si sono date più da fare a giustificare di avere sul campo i massimi esperti dai grandi stipendi piuttosto che capire scientificamente qualcosa di questa malattia. Non posso dimenticare i vari visitatori del CDC di Atlanta per esempio che sono passati tante volte nei nostri centri dicendoci che ai loro internazionali era vietato l’ingresso in zona rossa. La cooperazione inglese invece ha fatto molto per questo paese costruendo i centri di trattamento da 100 posti letto ma con quale ritardo sono stati preparati? Se tutto fosse stato pronto almeno 3 mesi prima quando la gente moriva come mosche, quante persone si sarebbero potute salvare? Ad agosto qui è stato un inferno, 28 cadaveri in un giorno solo nel nostro centro di Lakka dove i pazienti entravano e morivano di emorragia o all’improvviso per arresto respiratorio o cardiaco. A dicembre ormai eravamo scesi a 80 casi al giorno e nessuno dei centri da 100 posti letto (ne sono stati costruiti cinque) ha mai raggiunto la piena capacità. L’ETC (Ebola Treatment Centre) da 100 posti letto è l’unico in Africa ad avere una terapia intensiva per malati di Ebola e tutto questo grazie all’impegno e al lavoro di squadra di tutti noi e dei tanti che in Italia e all’estero ci hanno finanziato, sostenuto e aiutato rendendo possibile quello che molti non avrebbero mai neppure immaginato e in un tempo così breve. Emergency ha impiegato sul campo quasi un centinaio di espatriati tra medici, infermieri, logisti, contabili e abbiamo curato piu’ di 200 pazienti positivi per Ebola con una mortalità nel nostro centro del 40%, un grande risultato se pensiamo che era per noi la prima volta che affrontavamo una sfida del genere. Sfida che non ci siamo cercati ma che ci siamo trovati in casa dovendo tenere aperto quello che è stato per tutti questi mesi uno dei pochissimi ospedali del paese a fornire un servizio chirurgico di elezione e di urgenza. Abbiamo organizzato un filtro per i pazienti all’ingresso che ha impedito ai casi sospetti di entrare nell’ospedale chirurgico, salvaguardando il personale sanitario che lì lavora e garantendo un servizio chirurgico di qualità 24 ore al giorno durante una delle epidemie più terribili che si sia mai vista.
Ora finalmente stiamo vedendo la fine di questo incubo, le previsioni dei grandi esperti sul numero dei contagiati si sono dimostrare errate, l’epidemia sta finendo e forse non c’è ne sarà più un’altra cosi devastante. Ma la Sierra Leone rimane uno dei paesi più poveri del mondo, con un tasso di alfabetizzazione molto basso e una mortalità materno infantile molto alta, nelle campagne si continuano a lavare i cadaveri e anche un solo malato può fare ripiombare il paese nell’incubo di 8 mesi fa quando si contavano più di 150 nuovi casi al giorno. La vigilanza deve rimanere alta perché l’Ebola è un mostro dormiente sotto le ceneri di un paese prostrato che ancora piange i suoi 3000 morti.
Rachele