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Viaggio nell’inferno di Ebola

Posted by Rachele on ottobre 28, 2015
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foto di EG

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Dicembre 2014-Gennaio 2015 Sierra Leone

Nel mese di dicembre i casi sono ancora 80 al giorno e Lakka è sempre pieno di pazienti, le ultime piogge sono finite e lasciano il tempo alla stagione secca, talvolta dei tramonti superbi ci sorprendono mentre siamo sulla strada di casa che corre parallela all’oceano.

Il lavoro è sempre frenetico, non facciamo in tempo a dimettere malati che altri sono già in attesa e purtroppo la malattia colpisce anche i nostri collaboratori.

Obay lavorava con noi nell’ospedale chirurgico di Goderich e ora come igienista nel Centro di Lakka. Viene ricoverato nel Centro come caso sospetto e purtroppo gli esami del sangue mostrano una compromissione d’organo molto grave fin dall’inizio, si conferma positivo per l’Ebola. Ha una diarrea talmente profusa che lo sfinisce, lo reidratiamo con le infusioni endovenose e lui risponde bene alle cure e ci lascia sperare che andrà bene ma dopo 7 giorni ha un aggravamento con febbre alta e difficoltà respiratorie. La sua ultima notte Obay chiede da mangiare e uno dei suoi colleghi entra in tenda per portargli del cibo. Lo chiama ma Obay non risponde, il collega lo scuote e tenta anche di fargli un massaggio sul torace mentre io e Marco l’infermiere di turno, assistiamo impotenti fuori dalla tenda. Quello che segue è un dei miei ricordi più commoventi: entrano altri 2 igienisti per preparare il corpo e quando la salma è pronta, tutto il personale comincia a cantare davanti alla tenda, canzoni religiose cristiane anche se Obay è musulmano, le donne in segno di grande dolore si tolgono le parrucche e i loro acuti lamenti lacerano la notte calda, i ragazzi si percuotono il petto e pestano la terra coi piedi, lacrime di dolore e rabbia perché questa malattia tremenda non ha risparmiato il loro amico e collega. Lentamente la salma viene portata verso l’obitorio sempre accompagnata da tutti noi che da fuori continuiamo a pregare e cantare. Riposa in pace Obay e che Dio accolga la tua anima.

Il tempo corre e il nuovo centro da 100 posti letto è quasi pronto, i sierraleonesi lo hanno già chiamato White House, vengono fatti i preparativi per allestire i 24 letti di terapia intensiva con tutto il necessario per monitorare, ossigenare, ventilare e incannulare i pazienti, arriveranno presto anche ventilatori e due macchine per la dialisi. I logisti fanno colloqui ogni giorno per trovare il personale che serve, per insegnare loro le procedure di vestizione e per formare gli igienisti che si occuperanno dei malati. Alla fine abbiamo assunto 700 persone tra infermieri, igienisti e addetti alle pulizie e alla sorveglianza.

Noi intanto riceviamo il primo gruppo di medici e infermieri inglesi che avrebbero dovuto darci una mano nella gestione del nuovo centro di trattamento da 100 posti letto. Una serie di incomprensioni e di divergenze sulla gestione di questi malati portano tutto il gruppo inglese a lasciare la missione una settimana prima dell’apertura del nuovo centro. Una campagna mediatica molto negativa su di noi ci lascia amareggiati e delusi, forse abbiamo peccato di ingenuità nel pensare di poter dialogare scientificamente con ministri e responsabili della sanità di questo paese senza tener conto che dietro ogni cosa anche qui ci sono interessi di multinazionali più portate a sperimentare il farmaco miracoloso sull’africano, in modo da averlo pronto per quando un europeo o un americano si ammalerà. Farmaci dai costi impossibili che non saranno mai disponibili in Africa.

Siamo di nuovo soli ma dobbiamo serrare i ranghi perché il Centro si deve aprire comunque e il 15 dicembre trasferiamo tutti i pazienti positivi al nuovo ETC, Ebola Treatment Centre. Lakka rimane un Holding Centre dove vengono ricoverati i malati sospetti in attesa dell’esame che conferma o meno la malattia. Siamo l’unica organizzazione del paese ad avere contemporaneamente un Holding e un Treatment Centre per Ebola.

Nel frattempo, un prete cattolico che vive nella baraccopoli di Waterloo ci segnala la presenza di numerosi casi di malati che spesso non riescono a raggiungere i centri di trattamento. A Waterloo, che dista un ora e mezza da Goderich, vivono 20000 persone tra sierraleonesi e profughi liberiani che dopo le guerre civili hanno perso tutto. In realtà passando tra le capanne dai tetti di lamiera e le strade di terra battuta abbiamo una impressione di ordine e pulizia che non c’è negli slum di Goderich o Freetown. Waterloo è stata una delle zone più colpite dal virus, la cintura sanitaria ha spesso solo impedito che arrivassero approvvigionamenti di cibo piuttosto che la fuoriuscita di malati. I nostri logisti aprono un centro sanitario all’interno di una scuola, per l’isolamento e poi il trasporto dei malati a Lakka con la nostra ambulanza. Vengono anche formati 90 volontari che facendo parte della la comunità, sono in grado di rintracciare il maggior numero possibile di casi sospetti e trasferirli nel centro di holding.

I primi giorni il nuovo ETC ci sembra un mostro bianco gigante in cui perdersi, siamo passati dalle tende a una struttura in muratura in cui la temperatura all’interno consente di stare anche più di due ore e di avere tutto il necessario per una terapia intensiva e sub intensiva. La sensazione di vuoto scompare subito perché in pochissimi giorni tutti i 24 letti di terapia intensiva sono pieni e a Natale sono ricoverati 36 pazienti. Arrivano a darci una mano un gruppo di infermieri e medici coreani che con qualche difficoltà linguistica sono però molto utili nel seguire i malati meno critici mentre noi ci concentriamo sugli altri.

Tutto sembra procedere per il meglio e sono in arrivo nuovi infermieri di terapia intensiva dall’Italia ma poco prima di Natale una triste notizia ci getta nuovamente nello sconforto, un nostro infermiere internazionale si ammala di Ebola e decide di rimanere in Sierra Leone e di farsi curare all’ETC, la pressione psicologica è enorme e non passa giorno che non mi ritornino in mente le facce dei tanti che non ce l’hanno fatta. Lui nei primi giorni cerca il conforto nelle nostre parole pure sapendo bene quale può essere il decorso della malattia ma mai si scoraggia o si lascia prendere dalla disperazione, passano sette giorni in cui la prognosi è incerta finché lentamente ma inesorabilmente comincia a migliorare e dopo 20 giorni viene dimesso guarito. Il giorno della sua uscita dal centro è uno dei ricordi più belli, di nuovo tutto lo staff che canta e balla ma questa volta canti di gioia e di ringraziamento.

Da quando abbiamo aperto il nuovo ETC sono passati tanti pazienti e queste sono le storie di alcuni di loro.

Arrivano da Waterloo entrambe portate dalla nostra ambulanza al Centro Holding di Lakka, lei si chiama MARIATU è una giovane madre che porta in braccio una bimba di 2 anni ALIMA, sono sospette di contagio in quanto sono state in contatto con la nonna che è morta di Ebola. La bimba ha la pelle che brucia tanto è alta la febbre che la sta consumando, non con poche di difficoltà si riesce a farle il prelievo per vedere se è malata e cominciare le infusioni endovenose per idratarla. Il mattino successivo arriva il risultato del laboratorio, sono entrambe positive con una carica virale molto alta e vengono trasferite al centro di trattamento. Mariatu sta molto male e dal suo letto segue la sua bambina che viene trattata in maniera intensiva fin dall’inizio. Sappiamo che l’Ebola non lascia quasi mai scampo a bambini così piccoli, però Alima è forte, risponde alle cure, si mette persino a mangiare latte e biscotti, siamo ottimisti e lo diciamo anche alla mamma che intanto lentamente migliora al punto che la trasferiamo nel reparto sub intensivo. Dopo 9 giorni però Alima continua ad avere la stessa carica virale dell’inizio della malattia, il suo fisico non riesce a sconfiggere il virus, ci guarda stanca, mani e piedi sempre gonfi e gelati, il respiro è un soffio ormai, dopo 11 giorni di battaglia anche la sua anima vola via. Lo diciamo alla mamma che voleva vederla un ultima volta ma non può, piange la sua figlia più piccola che non c’è più, portata via da questa peste moderna e mentre la guardo mi vengono in mente le parole del Manzoni che descrive la madre di Cecilia: “Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

MUSU è una bella ragazzina di 15 anni che ha avuto contatti con due sorelle ammalate di Ebola ed entrambe sopravvissute e lei ha tutti i sintomi della malattia ma tutto sommato le sue condizioni generali sono buone. Infatti dopo pochi giorni nel reparto intensivo viene trasferita in quello dei malati meno gravi finché una notte ci chiamano gli infermieri perché Musu è agitata, il respiro affannoso e superficiale, il cuore che batte veloce, ci guarda senza capire perché improvvisamente sta così male ci chiede di aiutarla e di non farla morire. La trasportiamo di corsa nel reparto intensivo, sotto ossigeno, antibiotici e monitoraggio dei parametri vitali ma l’insufficienza respiratoria è grave e temiamo il peggio. Dopo 36 ore di cure intensive la situazione si sblocca, Musu riprende a respirare normalmente, torna ad avere il suo bel viso disteso e ci chiede che cosa le è successo perché ora vuole tornare a casa dalle sue sorelle e la sua mamma che la stanno aspettando. Dopo 15 giorni Musu esce dal nostro ospedale e riabbraccia le altre sorelle sopravissute.

Sono i primi di gennaio quando ci viene trasferita dall’ospedale cinese di trattamento per Ebola un intera famiglia di positivi: SARAH il nonno di 80 anni, SAIDU un ragazzino di 10 anni, BOI la sorella di 14 anni e un altro nipote EMANNUEL di 17 anni. Il nonno è quello che sta apparentemente meglio ma dopo due giorni improvvisamente si accascia nel letto portandosi le mani al torace e muore così senza che possiamo fare nulla. Il nipotino più piccolo è molto grave ha i polmoni intasati di liquido e secrezioni, lo intubiamo, ventiliamo, trasfondiamo, sosteniamo la pressione del sangue con farmaci ma nulla lo strappa alla morte. Nel letto davanti a lui, la sorella Boi è anche lei in condizioni critiche, semicosciente, il rene è compromesso ma ancora in grado di sostenere una diuresi adeguata, ci sembra che stia rispondendo alle cure, ha avuto delle piccole emorragie, è stata trasfusa con plasma e sangue e sembra stabile, finché improvvisamente un pomeriggio mentre la mobilizziamo per lavarla ha alcuni colpi di tosse seguiti da una emorragia inarrestabile dalle vie aeree, in pochi minuti muore in un lago di sangue. Siamo sconvolti dalla rapidità del quadro e anche perché pochi nostri pazienti sono morti di shock emorragico acuto. Tristemente un altro cadavere è lavato e preparato per il team delle sepolture che come moderni monatti vengono a ritirare i corpi per le inumazioni secondo le regole che l’epidemia impone.

MOHAMED ha 50 anni e vive a Waterloo con suo figlio e la moglie madre di 4 bimbi, quest’ultima da giorni sta molto male, ha febbre diarrea e vomito, potrebbe essere Ebola per cui chiamano la ambulanza per portarla nei centri di raccolta, l’ambulanza però non arriva cosi Mohamed e suo figlio la portano con l’auto di un loro amico all’ospedale cinese che tratta malati di Ebola, il più vicino a Waterloo. La donna muore dopo pochi giorni, la casa di Mohamed dove vivono altre 15 persone viene posta in quarantena e dopo una settimana, lui stesso e il figlio vengono ricoverati da noi, il contatto con la donna ammalata ha trasmesso loro la malattia. Anche la moglie di Mohamed, nonna Margaret e i suoi 4 nipoti dai 4 ai 10 anni vengono segnalati come casi sospetti e portati a Lakka in attesa del risultato degli esami. I bimbi sono spaventati, hanno tutti la febbre alta e sono tutti positivi per la malaria, noi cominciamo a sperare, nonna Margaret fa loro coraggio mentre gli infermieri mettono loro le cannule venose e iniziano la terapia per la malaria e la reidratazione endovenosa. Mentre sono in tenda con loro Margaret mi chiede di suo marito e io non posso che dirle che sta molto male e che molto probabilmente non ce la farà, lei si gira per non farsi vedere dai nipoti e comincia a piangere silenziosa, mentre i bambini che hanno già perso la mamma la guardano perduti. Vengono tutti dimessi, risparmiati dall’Ebola. Nonno Mohamed invece viene intubato e dializzato ma muore dopo pochi giorni. Il figlio ricoverato nel letto a fianco al padre lo vede trasferire in un’altra camera e capisce che le sue condizioni sono molto gravi. Una notte parliamo di suo padre che non c’è più, lui si rifiuta di mangiare e bere e noi dall’interno dei nostri scafandri cerchiamo di consolarlo dicendogli di farsi forza perché deve pensare ora ai suoi bambini che hanno solo più lui e nonna Margaret. E’ lenta la sua guarigione ma alla fine anche lui ce l’ha fa e può tornare a casa.

Ebola per mesi ha seminato la morte tra le famiglie, uccidendo un padre o una madre, lasciando talvolta indenni i più deboli o i più vecchi, altre volte invece non risparmiando nessuno. Ha stappato piccoli figli alle madri che sono sopravissute, altre volte i genitori sono morti lasciando orfani sulle spalle della comunità e tanti sono questi bambini a cui qualcuno dovrà pensare. L’epidemia ha messo vicini musulmani e cristiani sia come pazienti che come infermieri, ricchi e poveri hanno condiviso le stesse paure e angosce e pianto i rispettivi morti. Sono state mobilizzate migliaia di persone per lavorare nei centri di raccolta e di trattamento: operai, spaccapietre, ingegneri, studenti di medicina e non solo, infermieri, cuochi, igienisti, cleaners. Canzoni e ballate sono state scritte per sensibilizzare la popolazione sull’Ebola, per esorcizzare la paura della morte e per dare speranza ai malati. Le città sono state tappezzate di cartelloni sull’Ebola e le radio non facevano che parlarne ogni giorno, dando le cifre ufficiali dei nuovi casi e dei morti provincia per provincia. Come nella immaginaria peste di Orano qui tutto si è verificato nella realtà e noi ne siamo stati testimoni.

Le grandi organizzazioni si sono date più da fare a giustificare di avere sul campo i massimi esperti dai grandi stipendi piuttosto che capire scientificamente qualcosa di questa malattia. Non posso dimenticare i vari visitatori del CDC di Atlanta per esempio che sono passati tante volte nei nostri centri dicendoci che ai loro internazionali era vietato l’ingresso in zona rossa. La cooperazione inglese invece ha fatto molto per questo paese costruendo i centri di trattamento da 100 posti letto ma con quale ritardo sono stati preparati? Se tutto fosse stato pronto almeno 3 mesi prima quando la gente moriva come mosche, quante persone si sarebbero potute salvare? Ad agosto qui è stato un inferno, 28 cadaveri in un giorno solo nel nostro centro di Lakka dove i pazienti entravano e morivano di emorragia o all’improvviso per arresto respiratorio o cardiaco. A dicembre ormai eravamo scesi a 80 casi al giorno e nessuno dei centri da 100 posti letto (ne sono stati costruiti cinque) ha mai raggiunto la piena capacità. L’ETC (Ebola Treatment Centre) da 100 posti letto è l’unico in Africa ad avere una terapia intensiva per malati di Ebola e tutto questo grazie all’impegno e al lavoro di squadra di tutti noi e dei tanti che in Italia e all’estero ci hanno finanziato, sostenuto e aiutato rendendo possibile quello che molti non avrebbero mai neppure immaginato e in un tempo così breve. Emergency ha impiegato sul campo quasi un centinaio di espatriati tra medici, infermieri, logisti, contabili e abbiamo curato piu’ di 200 pazienti positivi per Ebola con una mortalità nel nostro centro del 40%, un grande risultato se pensiamo che era per noi la prima volta che affrontavamo una sfida del genere. Sfida che non ci siamo cercati ma che ci siamo trovati in casa dovendo tenere aperto quello che è stato per tutti questi mesi uno dei pochissimi ospedali del paese a fornire un servizio chirurgico di elezione e di urgenza. Abbiamo organizzato un filtro per i pazienti all’ingresso che ha impedito ai casi sospetti di entrare nell’ospedale chirurgico, salvaguardando il personale sanitario che lì lavora e garantendo un servizio chirurgico di qualità 24 ore al giorno durante una delle epidemie più terribili che si sia mai vista.

Ora finalmente stiamo vedendo la fine di questo incubo, le previsioni dei grandi esperti sul numero dei contagiati si sono dimostrare errate, l’epidemia sta finendo e forse non c’è ne sarà più un’altra cosi devastante. Ma la Sierra Leone rimane uno dei paesi più poveri del mondo, con un tasso di alfabetizzazione molto basso e una mortalità materno infantile molto alta, nelle campagne si continuano a lavare i cadaveri e anche un solo malato può fare ripiombare il paese nell’incubo di 8 mesi fa quando si contavano più di 150 nuovi casi al giorno. La vigilanza deve rimanere alta perché l’Ebola è un mostro dormiente sotto le ceneri di un paese prostrato che ancora piange i suoi 3000 morti.

Rachele

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I sommersi e i salvati

Posted by Rachele on ottobre 20, 2015
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foto di EG

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Ottobre – Novembre 2014 Sierra Leone

Scendendo in una strada sterrata che porta al mare si arriva al centro di Emergency di Lakka dove dal 18 settembre è stato aperto il nostro presidio per il trattamento dei pazienti affetti da Ebola. Al momento abbiamo la disponibilità di 20 posti letto suddivisi in 3 tende una di isolamento per i casi sospetti, una di trattamento per i casi accertati e una tenda per i convalescenti. L’attività nel centro di Lakka è frenetica, quasi ogni giorno abbiamo pazienti all’ingresso che aspettano di entrare nel centro, sono portati da parenti o vicini di casa e spesso sono in condizioni molto gravi per lo stato di debolezza generale dovuto alla febbre e alla disidratazione. Altri pazienti ci vengono trasferiti direttamente in ambulanza dal centro di coordinamento nazionale che sceglie i più gravi nei quartieri già sottoposti a cintura sanitaria e li trasferisce dove ci sono posti letto per il trattamento. Capita che alcuni pazienti ci arrivino già morti o in agonia e per loro non ci rimane che l’umana pietà, la comunicazione ai parenti e la custodia del corpo finché le squadre addette non si portino via i cadaveri per la tumulazione secondo le regole sanitarie che devono essere rispettate durante l’epidemia.

La protezione che tutti noi indossiamo per entrare nelle tende, oltre a rendere estremamente difficile la permanenza per il caldo, ci rende impossibile la visita e il contatto fisico con i malati. Dopo i primi giorni in cui il pensiero di ognuno di noi è più focalizzato sulla protezione personale e sulla paura di essere contagiati, ci si comincia a fare l’abitudine, le tute non sembrano più così soffocanti e il malato e la sua cura tornano ad essere il vero motivo per cui siamo qui. La certezza di essere protetti e di rispettare tutte le regole di sicurezza dentro le tende ci rende più tranquilli e la soddisfazione di poter aiutare a bere e mangiare un malato di Ebola diventa una grande emozione. Cominciamo a capire che la cura intensiva per questi malati è la chiave per poter aiutare a sopravvivere il maggior numero di pazienti. L’idratazione endovenosa e il monitoraggio dei parametri vitali sono essenziali per capire cosa succede aldilà di quella rete che ci separa dai malati. Ogni ora in tenda c’è qualcuno: dal personale dedicato all’igiene del malato e alla pulizia della tenda, agli infermieri che prendono i parametri vitali e somministrano la terapia, ai medici che controllano i malati critici. I nostri pazienti non sono lasciati soli in un letto a sperare di sopravvivere ma sono curati e aiutati a vincere la battaglia per la vita. Perché quella contro l’Ebola è una guerra, si combatte contro una malattia che ha varcato già i confini di tre paesi, si è diffusa nelle città con un numero impressionante di 100 nuovi casi al giorno. Dall’inizio della epidemia sono più di 5000 i casi confermati e nella sola Freetown e dintorni le cifre ufficiali parlano di 1500 casi confermati con una mortalità senza trattamento almeno del 70%.

Noi lavoriamo insieme allo staff locale che è la risorsa umana più preziosa e la nostra prima battaglia è stata vincere la loro paura del contatto anche se protetto con il malato. Abbiamo visto crescere in loro l’entusiasmo e la speranza, ora tutti entrano ad orari nelle tende ed è finalmente passato il messaggio che qui si dà ai malati la stessa qualità di cura che daremmo nei paesi occidentali.

Lionel e Christian sono due fratellini di 8 e 10 anni, la madre è morta di Ebola e loro sono stati ricoverati da noi con il padre. Li vediamo migliorare giorno dopo giorno, riacquistare l’appetito, il sorriso e persino la voglia di disegnare. Dopo due settimane prima la sorellina e poi il fratellino escono guariti dal centro e ci chiedono del loro papà che purtroppo non ce l’ha fatta.

Momoh è un bambino di 10 anni, viene portato dall’ambulanza del centro di coordinamento, è accompagnato dalla madre che versa in gravissime condizioni, non facciamo neppure in tempo a metterla in un letto che muore nell’area di triage. Momoh è disidratato, ha la diarrea, il vomito e la febbre alta, piange e chiama la madre di continuo, è uno strazio sentirlo da fuori e non poter fare entrare nessuno della sua famiglia per stargli vicino. Dopo una settimana di flebo, antibiotici, antipiretici il suo fisico comincia a reagire e da allora è una lotta per farlo mangiare, rifiuta qualsiasi cosa e piange, finché con un panino dolce, qualche banana, e i succhi ricomincia con fatica a rialimentarsi. Dopo 10 giorni lo trasferiamo nella tenda dei convalescenti dove lo viziamo anche noi imboccandolo quando potrebbe mangiare da solo. Non chiama più la mamma, è ancora molto debole e si regge a malapena in piedi ma ce l’ha fatta, ha sconfitto la malattia e esce tra gli applausi di tutti ad abbracciare lo zio e la sua nuova famiglia.

Edna è una bellissima bimba di 6 anni che viene portata da noi da una zona già in quarantena, non sembra così grave all’inizio ma gli esami del suo sangue smorzano le nostre speranze, ha una alta carica virale e le sue condizioni precipitano nel giro di 2 giorni, dobbiamo sedarla per poterla reidratare e somministrare la terapia di supporto ma non c’è nulla da fare la malattia ha vinto.

Abdul ha 10 anni ha perso la madre uccisa dall’Ebola e vive con il nonno in un area rurale, il padre non è con lui perché è stato messo in quarantena in un altro centro. Abdul giace disteso e debolissimo davanti al cancello del nostro centro. Viene trattato in maniera intensiva, con idratazione e antipiretici, sembra rispondere bene ma la mattina dopo il suo letto è già vuoto. La rapidità con cui il virus uccide i pazienti ci lascia sgomenti e anche scoraggiati. Ci sono altri bambini che non ce l’hanno fatta nonostante giorni di trattamenti intensivi e li abbiamo visti spegnersi più lentamente come se la malattia consumasse tutte le loro risorse e lasciasse un bozzolo vuoto al posto del corpo.

Aminata è una donna in condizioni critiche, portata da qualcuno davanti al nostro cancello. I parenti e i vicini di casa hanno infatti molto paura di essere messi anche loro in quarantena, per cui appena depositati i malati se ne vanno, verranno poi avvisati in caso si confermi il sospetto di Ebola, anche se spesso il contagio fra loro è già avvenuto. La paziente è molto agitata, si strappa più volte le cannule che le mettiamo in vena per idratarla e cerca più volte di alzarsi dal letto finendo per cadere a terra e riempirsi di sangue, con pazienza gli infermieri la lavano, la rimettono a letto e le somministriamo dei sedativi ma anche lei non ce la fa.

Un giorno ricoveriamo 3 persone che vivono nella stessa casa, la sorella di un paziente morto nel nostro centro e la sua amica con la quale vende il pesce al mercato. Questa ultima viene accompagnata dalla figlia, Fatmata una ragazza di 18 anni che ci dice di avere anche lei i sintomi della malattia. Sono tutte e tre positive per l’Ebola. Dopo i primi giorni di incertezza prendono tutte e le tre la via della guarigione, si fa fatica a tenere la giovane Fatmata nel letto perché appena sta bene, ben cosciente della sua bellezza posa come una modella al di là della grata!

Johnny è un ragazzone di 28 anni alto almeno un metro e ottanta, fa il pescatore, ha tutti i sintomi della malattia e uno stato di severa astenia e disidratazione. Nonostante le cure le sue condizioni rimangono molto gravi, non è in grado né di bere né di mangiare, è debolissimo, non riesce neppure a cambiare di posizione nel letto. Vediamo qualche piccolo miglioramento seguito da segni preoccupanti di sanguinamento gastrointestinale, lo trasfondiamo e lo seguiamo molto preoccupati. Anche per lui però c’è un punto di svolta e finalmente migliora lentamente ma costantemente, comincia a sedersi sul letto e mangiare da solo, l’Ebola è stata vinta.

Iye Kagbo è la nostra eroina, una donna di 74 anni, santona e guaritrice del suo villaggio, dopo aver partecipato a un funerale accusa i sintomi della malattia e viene ricoverata da noi. Le mettiamo le cannule venose e il catetere vescicale e lei si toglie tutto non tanto perché è agitata ma perché non le sopporta. Per ben due volte la troviamo ai piedi del letto, ci dice che è troppo alto per lei e che fa fatica a salirci sopra e poi vuole andare in bagno e che non la secchiamo troppo con le nostre attenzioni, piuttosto, ci ha già detto di avere la congiuntivite se gentilmente le diamo delle goccine per gli occhi tante grazie… Insomma se ce la deve fare ce la farà da sola! E Iye ha ragione, migliora la febbre e la diarrea, la dieta semiliquida che le diamo le piace molto e non le serve che qualcuno la imbocchi: se la mangia da sola la pappa! Dopo 15 giorni esce dal centro guarita con rispetto e onore da parte di tutti noi, non sarà l’Ebola a portarsela via!

Abu Bangura è un giovane ragazzo di 21 anni, di professione giocatore di pallone, viene da noi da solo, dice che non si sente tanto bene e vuole sapere se ha l’Ebola. Ce l’ha e fin da subito ci appare molto grave per i sintomi neurologici e lo stato di agitazione che ci obbligano a sedarlo per poterlo curare. Dopo alcuni giorni sembra migliorare, lo troviamo la mattina seduto sul letto con la bocca piena di dentifricio, ci chiede se possiamo aiutarlo a lavarsi i denti. Va bene, sta migliorando siamo contenti, ha ricominciato anche a bere fin troppo, 10 litri al giorno… e fare le flessioni e le corsette la mattina presto, gli diciamo che non è proprio il caso perché è malato e deve stare a letto soprattutto non deve continuare a rimuoversi tutte le cannule per fare le flessioni. Il suo umore è alle stelle ci batte il cinque quando entriamo in tenda e ci chiama in continuazione per attirare la nostra attenzione. Poi un nuovo peggioramento con deterioramento della funzione renale e insufficienza respiratoria, somministriamo diuretici in alta dose e l’ossigeno, sembra riprendersi ma poi di nuovo febbre altissima, la respirazione sempre più affannosa e nessun miglioramento con l’ossigeno, Abu è in coma, siamo convinti che non passerà la notte. La mattina successiva l’infermiera di guardia ci dice sorridente: Abu ha chiesto la colazione e respira molto meglio! Non ci sembra vero, ma ogni giorno è un passo in più verso la guarigione definitiva e il nostro Abu non è solo un survivor ma un highlander!

In poco più di due mesi nel centro di Emergency a Lakka abbiamo trattato più di 100 pazienti malati di Ebola, queste sono alcune delle loro storie che raccontiamo perché ognuno di loro non sia solo un numero sul libro delle ammissioni ma un volto e una persona che ha il diritto di essere curato con la dignità e la professionalità che ogni paziente merita.

Rachele

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“… shock consigliato”

Posted by Il Barelliere on ottobre 12, 2015
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foto di RdR

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E’ da circa due ore che Maria ha dolore al petto: un dolore strano però, come mai provato prima, che le arriva fin dietro la schiena e le causa un malessere diffuso a tutto al corpo. Ma lei ha solo quarant’anni, è sempre stata in salute e non ci fa troppo caso, non sarà nulla, passerà da solo.
Quel dolore però diventa via via sempre più forte, quasi insopportabile, come una morsa, forse è il caso di andare in ospedale…
All’improvviso però, la situazione precipita. La donna spalanca gli occhi e si accascia sul pavimento priva di sensi. Smette di respirare.

Non so cosa sia successo dopo, in quegli interminabili minuti che sono trascorsi dalla chiamata al 118 fino al nostro arrivo. Quando entriamo in casa però il marito è su di lei, l’ha distesa sul pavimento e seguendo le istruzioni dell’operatore di centrale ha iniziato il massaggio cardiaco.
La donna è in gasping. Un rantolo si libera dalla sua gola e sebbene possa sembrare che stia respirando, in realtà i polmoni non si espandono minimamente.

Il Capo-equipaggio si lancia sul torace e prosegue il massaggio cardiaco, iniziato dal marito. Ha un fisico esile Maria, per le compressioni basta un braccio solo, se non si vuole spaccare tutto.
Taglio la t-shirt e scopro completamente il torace, accendo il DAE, posiziono e connetto  le piastre.
Alla prima analisi rileva movimento, probabilmente il respiro agonico, che si sta facendo via via sempre più inesistente, sta creando degli artefatti.
Pochi istanti dopo ripete nuovamente l’analisi << shock consigliato >> . Erogo la scarica. Il corpo di Maria si contrae e si rilascia nel giro di un paio di secondi, ma purtroppo nessun segno di ripresa.
Andiamo avanti con le manovre di rianimazione: le compressioni si alternano alle ventilazioni con l’ambu, siamo quasi arrivati ormai alla seconda analisi, quando all’improvviso Maria riprende a respirare.

Cazzo non ci credo! Ce l’abbiamo fatta , il torace si espande!
Certo il respiro non è dei migliori è superficiale e forse troppo frequente, la donna continua ad essere incosciente,  ma cazzo sta respirando da sola!
E’ la prima volta che mi capita di riprendere una persona in arresto e ora non bisogna perdere la concentrazione.

Qualche secondo dopo i primi respiri di Maria, entra provvidenzialmente in casa l’equipaggio dell’automedica.
Faccio subito spazio alla dottoressa, che prende il mio posto alla testa della donna, mentre in men che non si dica l’infermiere ha già reperito un accesso venoso e si destreggia tra flebo  e cavi del monitor. Equipaggio tosto stasera per fortuna, con la dottoressa mi è già capitato di lavorare qualche volta, ed è una rianimatrice coi controcazzi : decisa, preparata e determinata, è il medico che ogni studente, almeno per quel che mi riguarda, vorrebbe e dovrebbe diventare.
Le manovre vanno avanti per diversi minuti, viene intubata e le si  continuano ad infondere farmaci.  La situazione è ovviamente molto tesa, aspiriamo più volte le vie aeree dalle quali continua a fuoriuscire sangue; è un continuo passare garze, boccette e sondini, mentre il capo-equipaggio ventila con l’ambu.
Ci si sta giocando il tutto per tutto, ma in tutto questo il suo cuore, dopo la prima scarica, ha continuato a battere senza fermarsi.

Lasciamo Maria in sala emergenze del pronto soccorso accerchiata da un numero indefinito tra medici ed infermieri, che come formiche, si adoperano veloci e precisi su lei.
Sinceramente non credevo sarebbe sopravvissuta e la sensazione che mi ronzava per la testa era solo quella di aver rinviato l’invitabile.

Qualche giorno fa però, alla festa della nostra associazione è arrivato un uomo. Si è avvicinato a Gianluca, il capo-equipaggio che era di turno con me l’altra notte,  e non trovava le parole per ringraziarci. Maria ce l’ha fatta ! Dopo un giorno in terapia intensiva, ha ripreso conoscenza e non sembra abbia riportato danni da ipossia cerebrale. La situazione è talmente buona che entro una settimana prevedono di rimandarla a casa.
Penso che questa sia una delle gioie e delle soddisfazioni più grandi che una persona possa mai provare, indescrivibile e forse incomprensibile per chi non ci è passato, anche se la nostra, è stata solo una piccola parte di tutto il lavoro svolto dai medici e dal personale sanitario, ma soprattutto dal marito, che se non avesse avuto la forza e la lucidità di iniziare tempestivamente il massaggio cardiaco, molto probabilmente io non sarei  qui a raccontare questa storia.

Il Barelliere

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