emergenza

“… shock consigliato”

Posted by Il Barelliere on ottobre 12, 2015
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foto di RdR

foto di RdR

E’ da circa due ore che Maria ha dolore al petto: un dolore strano però, come mai provato prima, che le arriva fin dietro la schiena e le causa un malessere diffuso a tutto al corpo. Ma lei ha solo quarant’anni, è sempre stata in salute e non ci fa troppo caso, non sarà nulla, passerà da solo.
Quel dolore però diventa via via sempre più forte, quasi insopportabile, come una morsa, forse è il caso di andare in ospedale…
All’improvviso però, la situazione precipita. La donna spalanca gli occhi e si accascia sul pavimento priva di sensi. Smette di respirare.

Non so cosa sia successo dopo, in quegli interminabili minuti che sono trascorsi dalla chiamata al 118 fino al nostro arrivo. Quando entriamo in casa però il marito è su di lei, l’ha distesa sul pavimento e seguendo le istruzioni dell’operatore di centrale ha iniziato il massaggio cardiaco.
La donna è in gasping. Un rantolo si libera dalla sua gola e sebbene possa sembrare che stia respirando, in realtà i polmoni non si espandono minimamente.

Il Capo-equipaggio si lancia sul torace e prosegue il massaggio cardiaco, iniziato dal marito. Ha un fisico esile Maria, per le compressioni basta un braccio solo, se non si vuole spaccare tutto.
Taglio la t-shirt e scopro completamente il torace, accendo il DAE, posiziono e connetto  le piastre.
Alla prima analisi rileva movimento, probabilmente il respiro agonico, che si sta facendo via via sempre più inesistente, sta creando degli artefatti.
Pochi istanti dopo ripete nuovamente l’analisi << shock consigliato >> . Erogo la scarica. Il corpo di Maria si contrae e si rilascia nel giro di un paio di secondi, ma purtroppo nessun segno di ripresa.
Andiamo avanti con le manovre di rianimazione: le compressioni si alternano alle ventilazioni con l’ambu, siamo quasi arrivati ormai alla seconda analisi, quando all’improvviso Maria riprende a respirare.

Cazzo non ci credo! Ce l’abbiamo fatta , il torace si espande!
Certo il respiro non è dei migliori è superficiale e forse troppo frequente, la donna continua ad essere incosciente,  ma cazzo sta respirando da sola!
E’ la prima volta che mi capita di riprendere una persona in arresto e ora non bisogna perdere la concentrazione.

Qualche secondo dopo i primi respiri di Maria, entra provvidenzialmente in casa l’equipaggio dell’automedica.
Faccio subito spazio alla dottoressa, che prende il mio posto alla testa della donna, mentre in men che non si dica l’infermiere ha già reperito un accesso venoso e si destreggia tra flebo  e cavi del monitor. Equipaggio tosto stasera per fortuna, con la dottoressa mi è già capitato di lavorare qualche volta, ed è una rianimatrice coi controcazzi : decisa, preparata e determinata, è il medico che ogni studente, almeno per quel che mi riguarda, vorrebbe e dovrebbe diventare.
Le manovre vanno avanti per diversi minuti, viene intubata e le si  continuano ad infondere farmaci.  La situazione è ovviamente molto tesa, aspiriamo più volte le vie aeree dalle quali continua a fuoriuscire sangue; è un continuo passare garze, boccette e sondini, mentre il capo-equipaggio ventila con l’ambu.
Ci si sta giocando il tutto per tutto, ma in tutto questo il suo cuore, dopo la prima scarica, ha continuato a battere senza fermarsi.

Lasciamo Maria in sala emergenze del pronto soccorso accerchiata da un numero indefinito tra medici ed infermieri, che come formiche, si adoperano veloci e precisi su lei.
Sinceramente non credevo sarebbe sopravvissuta e la sensazione che mi ronzava per la testa era solo quella di aver rinviato l’invitabile.

Qualche giorno fa però, alla festa della nostra associazione è arrivato un uomo. Si è avvicinato a Gianluca, il capo-equipaggio che era di turno con me l’altra notte,  e non trovava le parole per ringraziarci. Maria ce l’ha fatta ! Dopo un giorno in terapia intensiva, ha ripreso conoscenza e non sembra abbia riportato danni da ipossia cerebrale. La situazione è talmente buona che entro una settimana prevedono di rimandarla a casa.
Penso che questa sia una delle gioie e delle soddisfazioni più grandi che una persona possa mai provare, indescrivibile e forse incomprensibile per chi non ci è passato, anche se la nostra, è stata solo una piccola parte di tutto il lavoro svolto dai medici e dal personale sanitario, ma soprattutto dal marito, che se non avesse avuto la forza e la lucidità di iniziare tempestivamente il massaggio cardiaco, molto probabilmente io non sarei  qui a raccontare questa storia.

Il Barelliere

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Rebus

Posted by Badev on novembre 29, 2013
emozioni / 3 Commenti
Foto di BDV

Foto di BDV

Contro il panorama della collina stavi fermo fermo, con il tuo segreto zitto tra le labbra.
Io non voglio scrivere di te, che sei solo da proteggere, da avvolgere in una carta velina azzurra, voglio scrivere di me, di noi che restiamo qui al posto tuo. Di noi che chissà che cosa ci aspettiamo da una fiala di adrenalina certe volte. Alle nove, abbiamo infilato il cappotto sopra la lisca che restava di noi stessi e ce ne siamo andati a casa curvi, scuotendo solo la testa, come resti di pesci mangiati e buttati in pattumiera.
Che dirti, bambino, se non che ora hai la chiave del rebus che a noi manca, noi che usiamo l’indicativo presente, ma siamo al buio e ancora in piena battaglia navale, noi fuori dal ventre della balena che non sappiamo esattamente a chi o a che cosa ti abbiamo restituito.
Sono rimasta un po’ con te, sbriciolata da domande, ben aggrappata alla scaletta di quella piscina in cui non saremo mai pronti per scendere, un luogo senza respiri, senza sillabe, senza un movimento della bocca per assaggiare queste buone fragole di aprile.
Ti ho guardato come si guarda una fiammella che si increspa al vento, ti ho osservato mentre approdavi, così bello e immobile, a una silenziosa riva di arrivederci.

Badev

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Se rinasco un’altra volta faccio il rianimatore

Posted by diprivan on ottobre 14, 2013
pensieri / 1 Commento

foto di EP

foto di EP

Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo.

No. Non è vero.

Il lavoro più bello del mondo è quello che ti fa vivere sereno facendo la cosa che più ti piace e facendoti pagare per farla e lasciandoti tanto libero per fare ciò che ti piace in egual modo.

Forse sì. Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo…se non fosse per quel piccolo dettaglio del farti vivere sereno.

Ci lamentiamo sempre di essere sottopagati…di meritare più di quanto spendiamo in energie mentali e fisiche e in responsabilità.

Ormai non faccio più il rianimatore “da strada” e mi manca l’ossigeno. Mi manca non potermi sporcare le mani. Mi manca il suono delle sirene. Mi manca non poter più condividere con chi sale con me in macchina di essere lì sul posto e di sentire che puoi fare la differenza. Quando sei per strada ci sei tu…e solo tu…e se non fai tu devi fare per forza tu.

Ormai faccio il rianimatore “di centrale” e sto risparmiando un sacco di soldi in benzina che investo puntualmente in pantoprazolo. Devi fare la magia e trasformare il tuo orecchio in un occhio e guardare attraverso la cuffia del telefono cercando, per quanto possibile, di non litigare, di fidarti, di organizzare, di far finta di essere lì anche tu e l’unica cosa che pensi è che vorresti con tutto il cuore sporcarti le mani.

Ormai faccio il rianimatore che porta notizie dal “fronte” pronto soccorso e quando sei lì ci sei tu, il collega più esperto (Dio sia lodato sempre sia lodato), il consulente, l’altro consulente, il tecnico, lo specializzando, l’internista, il medico accettante, ….vado avanti?

Ho capito perché lo faccio…non è vero che siamo sottopagati…sono tutte fregnacce…non c’è prezzo per un lavoro così.

L’unico motivo che mi spinge a farlo è perché lo amo alla follia. Non potrebbe essere altrimenti.

diprivan

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Volevo scendere…

Posted by Ultiva on settembre 15, 2013
testimonianze / 2 Commenti
Foto di GN

Foto di GN

Ciao M, ciao L,

in voi rivedo me appena approdato all’emergenza-urgenza.

Prima della laurea, come voi due, facevo il volontario in ambulanza. Come voi.

Vedevo il 118 come il premio dei miei sforzi, come la destinazione finale, la sublimazione di un desiderio. Ai miei tempi, 10 anni fa, c’era Siro che drenava toraci, si destreggiava tra il betabloccante ed il calcioantagonista. C’era Giorgio, che intubava a testa in giù e senza laringoscopio. C’era Johnny (non mi ricordo mai come si scrive), che dietro al sorriso a 42 denti nascondeva l’Harrison. C’erano Maurizio, Carlo, Lorenza…. che trattavano i Pazienti per quello che avevano bisogno: non avevano paura di accedere chirurgicamente alla via aerea, non avevano paura di un alti flussi e quando si usciva in automedica o in elicottero si era sicuri del risultato. Sembrava un’orchestra, magistralmente condotta.

Quando è arrivato il mio momento, la mia possibilità di salire sull’elicottero e di fare territorio non stavo più nella pelle: si avverava un sogno.

Poi, il tempo.

I protocolli, la standardizzazione (sarebbe meglio dire la spianata verso il basso). La rabbia di non poter fare. Lo zaino che si svuota (sempre meno farmaci, sempre meno presidi: quando si vola bisogna stare leggeri), le uscite sempre meno meritevoli di una medicalizzazione. Le manovre che si riducono (il 20 di frequenza è meglio che lo veda il cardiologo, se l’emodinamica è stabile…).

La medicina non può essere ridotta ad un libro di ricette di Nonna Papera. La medicina non è matematica, è variabile, è fiuto, è conoscenza, è interpretazione.

Gli infermieri che prima intubavano, adesso usano per forza la maschera laringea. Non è quello che serve al Paziente ma è quello che passa il sistema (sia chiaro, intubando 20 volte in sala ORL impara chiunque).

E adesso, voi, poco più che girata la boa dei 27, volete andare sul territorio, ancora convinti che sia stimolante, che sia formativo, che serva a qualcosa.

Ed io che vi guardo, non parlo, non voglio tarpare le vostre ali e il vostro desiderio, dovete essere liberi di scegliere…. Ma no, non ce la faccio, non posso stare zitto. Almeno qualcosa, almeno su un blog lo devo dire.

Rimanete dove siete, continuate a fare quello che fate. Siete speciali, siete mitici. Sapete essere duri come l’acciaio e teneri come nessun altro. Siete due ottimi professionisti.

VI ho allevati entrambi da quando vi siete laureati, non standardizzatevi, non appiattitevi. Sul territorio non c’è più spazio, non si impara più, non si può più dare tutto. Non si può tornare a casa la sera con la consapevolezza di avere fatto tutto ciò che si poteva e che era necessario.

Non voglio, non vorrei, che questo tarlo divorasse anche voi. Vorrei proteggervi, ma non so da che parte iniziare.

Quando sono salito sull’elicottero la prima volta mi sembrava un sogno, una cosa meravigliosa, quanto di meglio mi sarei potuto aspettare dalla vita professionale. Ed era così. Ma era dieci anni fa.

Ieri, volevo scendere.

Vi auguro tutta la felicità e di trovare la vostra strada.

Con affetto

Ultiva

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L’uomo in blu

Posted by massimolegnani on febbraio 16, 2013
racconti / 2 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

È il colore a volte che fa la differenza, nel mio caso una differenza abissale.

Avrei voluto essere arancione, mi sono ritrovato blu.

Pensare che una dozzina d’anni fa al corso teorico-pratico organizzato dall’ASL per selezionare chi fra i propri autisti avrebbe guidato le ambulanze del 118, ero stato tra i migliori, alzavo la mano come a scuola e snocciolavo senza errori la successione delle manovre del log-roll, sapevo dire quando e come si doveva usare il cucchiaio e quando la spinale, conoscevo a memoria procedure d’intervento e protocolli di chiamata. Quello era stato un periodo esaltante, di giorno il solito lavoro, alla sera uno studio accanito, di notte il sogno sempre uguale e sempre bello, sfrecciavo per le strade a sirene spiegate, fendevo il traffico come Mosè le acque del MarRosso, portavo l’equipaggio sul luogo del disastro, collaboravo nel soccorso dei feriti, l’arancione fluorescente del giaccone d’ordinanza un lasciapassare tra la folla dei curiosi. Tutto faceva pensare che sarebbe andata proprio così, ma poi all’esame mi ha fregato l’emozione.

L’istruttore mostrandomi il manichino riverso sul pavimento mi disse Guglielmetti fai conto che sia un ragazzino di dodici anni coinvolto in un incidente: apparentemente non è cosciente, forse non respira, datti da fare. A sentire quelle parole non ho più visto davanti a me un bambolotto di plastica ma un volto insanguinato e ho perso la testa, Cristosanto è poco più di un bambino. Mi sono chinato su di lui e anziché iniziare le manovre di soccorso che pure sapevo a menadito l’ho preso tra le braccia, un bambino vero, irrimediabilmente morto, tra le mie braccia, un bambino da lavargli il viso con le lacrime, piangevo sì, e lo cullavo mentre l’istruttore sbraitava Guglielmetti ma che fai? Sbrigati, sta per morire, Guglielmetti dacci dentro con la rianimazione, forza! No, è inutile, non ce la può fare, non ce la posso fare, è morto, povero ragazzino, morto senza nemmeno un nome. L’unica cosa che m’importava era tenerlo stretto, lì inginocchiato su un pavimento che credevo asfalto tra rottami e resti umani, essergli vicino nel passaggio, accompagnarlo dove…non lo so dove vanno a morire i morti. Avevo un dolore mai provato.

Mi dovettero staccare a forza dal manichino e del mio passaggio al 118 non se ne parlò mai più.

Mi assegnarono un furgoncino, che di recente hanno sostituito con uno appena più moderno, ma niente lampeggianti nè sirene, e una divisa orrenda, giubbino blu con stampigliata una croce rossa subito sbiadita e pantaloni della stessa tinta con al fondo una striscia catarifrangente bianca. Ai piedi non gli scarponcini in goretex di cui sono forniti gli “arancioni”, no, per le scarpe arrangiati, così una volta mettevo mocassini marroni o sandali d’estate, ora delle vecchie Superga che ho ritrovato in casa.

Così conciato, che sembro una caricatura del soccorso, batto la provincia in lungo e in largo a portare campioni di piscio e sangue da un laboratorio all’altro ed anziani dalle case di riposo all’ospedale per esami, ma solo se non stanno male, sai Gu non vorremmo che ti emozionassi un’altra volta se li dovessi rianimare, e una risata cattiva a chiudere il discorso.

Dodici anni che faccio ‘sto mestiere, una dozzina d’anni lunga come un giorno solo, talmente è sempre uguale quel che faccio. E quel che è peggio non è il lavoro ma la pausa in mensa dove vorrei mangiar da solo e invece c’è sempre qualcuno degli equipaggi del pronto intervento che si siede e sfotte, e anche se non sfotte mi basta vederlo tutto in ghingheri, lo zaino rosso delle emergenze accanto alla sedia, il cellulare collegato alla centrale, la chiamata a inizio pasto e lui che scatta, bello e sicuro come un guerriero, lascia il vassoio quasi intatto, beato te che puoi mangiare tranquillo dice con aria superiore e subito corre a salvar la gente, mi basta questo per sentirmi la mezza merda che sono diventato.

E poi magari anche a me interrompono il pasto, Guglielmetti vai a prendere il signor Lacchia di Caluso e portalo alla dialisi. Provo a obbiettare che c’è tutto il tempo, senti, finisco di mangiare e vado; No! gracchia il mio severo dio nella ricetrasmittente, ci vai immediatamente che questo già una volta si è lamentato di te, sei arrivato all’ultimo momento e dopo andavi troppo forte in macchina e lo sballottavi di qui e di là. Ok, vado, non discuto, vado.

Lacchia è una serpe d’uomo. D’accordo ha i suoi malanni, la dialisi non è una passeggiata ma lui ce l’ha col mondo intero e con me in particolare perché lo porto dove non vorrebbe andare. Lo carico, lui e la carrozzina (potrebbe camminare, certo, ma il viaggio verso l’ospedale pretende di farlo sulla sedia a rotella) utilizzando l’elevatore elettrico del mio CuboFiat e da quel momento il signor Lacchia troneggia sul pianale posteriore, diventa il mio tiranno grigio, mi rimbrotta per ogni cosa, la guida, il traffico, il riscaldamento eccessivo o troppo basso, mi tiene il fiato sul collo, sbraita e sputacchia saliva, certe volte mi minaccia pure con l’inseparabile bastone, e diventa un calvario il viaggio. Ci vuole tutta la mia pazienza a sopportarlo e quell’ora che passo con lui mi segna la giornata. Dopo non c’è sorriso di altri miei clienti che compensi l’umore rovinato.

Questo mestiere mi regala poche soddisfazioni e allora retrocedo a minime ambizioni, divento consapevole del poco margine possibile di miglioramento, cerco di lavorare in fretta per ritagliarmi piccoli momenti di consolazione tra un servizio e l’altro, una sosta al bar, qualche sguardo rubato in giro, due parole con la Piera mentre le consegno le provette per le analisi e lei mi firma la ricevuta, il seno che straripa nel camice attillato e quel sorriso un po’ sciupato che invita all’ammicco e alla battuta sconcia alla quale non rinuncio (eh Piera, sempre col vento in poppa e le poppe al vento).

E quando mi capita di andare verso sud a consegnare materiale alla Sorim mi fermo tra le risaie a osservare il bianco degli aironi. Li guardo curvi a nettarsi con il becco le piume al sottocoda e immagino le mondine ancora chine sulle erbacce. Ascolto il loro canto e vedo i corpi curvi che dovevano a quel tempo essere belli.

massimolegnani

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Farfalle nella notte

Posted by Pills on gennaio 23, 2012
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“Oggi mi sento in forma, ma c’è un sottofondo che guasta tutto. Diffidenza? Presentimenti? Chissà…”
Io e il mio compagno di nottata ci avviciniamo alla postazione medicalizzata. Tempo di scendere dalla macchina e scambiare due parole con i colleghi smontanti, veniamo investiti da Mike e India per un dolore toracico a 5 minuti dalla postazione. Per fortuna è un falso allarme e ce la caviamo in un tempo ragionevolmente breve.
Le ore passano e la sensazione è ancora lì, addormentata nel mio “di dentro” da qualche parte anatomicamente sconosciuta ma di una pesantezza palpabile.
“Scemenze – mi dico – sarà la cena mangiata in fretta”
Passa un altro servizio, un Rosso finto e il mio autista riceve il cambio.
“Ecco Pizzetto, per fortuna gli piace questa postazione. Siamo in una botte di ferro!”
Aspettiamo ancora un po’ perché le 01.00 di venerdì notte non sono un’ora tarda. Mentre Lucarelli parla di Sant’Anna di Stazzema noi soccorritori ciondoliamo sulle sedie col sonno che sale, mentre il Mike dorme come un bambino, perso nei sogni, le mani agitate da scatti. Sgattaioliamo nella nostra stanza e, data la buonanotte spegniamo le luci in un fruscio di federe e lenzuola monouso. Morfeo è pronto a posare la sua mano sulle nostre teste e farci appesantire gli occhi nel torpore, ma la sua opera viene stroncata dallo squillo impertinente del telefono.
Mentre Pizzetto accende la luce io prendo il servizio. È un vago Giallo generico in luogo pubblico, mi dicono di un cinquantenne a terra in agitazione. Tempo di mettere giù il telefono spunta il Mike assonnato sulla porta con l’aria interrogativa che si confà ad un servizio delle 2 di notte. Gli porgo il servizio leggendogli la mia brutta scrittura peggiorata da una penna fallata. “cos’è qua? 500? Ahhh è 50 anni…certo che si vede che vuoi fare il medico, Dottoressa!”. L’unico Mike che mi chiama Dottoressa e si ricorda il mio nome di battesimo nonostante le collaborazioni distanziate nel tempo.
Arrivati sul posto troviamo, con mio sommo orrore, la mia sensazione. È un signore magrolino che si muove con un’agitazione cieca e ha uno sguardo spalancato in un mare di terrore. Le sue urla sono rotte e noi, intrufolandoci in mezzo ad esse lo carichiamo senza tanti complimenti sul telo, sulla barella e poi in ambulanza.
Ci blindiamo nella nostro mezzo e non c’è più Tavor in frigo. L’India gli fa un’iniezione attraverso i jeans. Le braccia però sono ancora agitate e in tre, tra imprecazioni e suppliche riescono ad incannularlo. Intanto l’ossigeno non basta più. Desatura. Il Mike ha già dichiarato “Miosi e poca reattività alla luce”. Mike e India si osservano, lei burbera ma competente, Lui giovane ma operativo. “è brutto” dicono insieme. Decidono per l’intubazione.
Nel marasma di oggetti fuggiti dal borsone nella confusione iniziale recuperano il kit e procedono a infusione di liquidi e farmaci. “Dottoressa, mi dai una mano? Prendi questo, mettilo sul dorso della mano e lubrifica il tubo quando te lo dico,ok?”
Le mani mi tremano e con loro una fialettona di anestetico, una di fisiologica e una siringa per l’intubazione. Riesco anche a passare una benda e il mio cerotto che porto sempre in tasca all’India. Mike riesce ad intubare subito il paziente e può finalmente ventilarlo.
Un momento di assoluto silenzio piomba nell’abitacolo dell’ambulanza. Mike si gira e anche io. Sono agitata perché di tre farmaci che mi hanno chiesto non ce n’era nemmeno uno nello zaino ma solo altri parimenti utilizzabili ma a me sconosciuti. Sono agitata per lo sguardo del nostro paziente, fisso e spaventato. Sono agitata perché non avevo mai assistito ad un’intubazione, né tantomeno partecipato seppur in minima parte. Mike mi fissa con uno sguardo strano fisso nei miei occhi, come solo le persone coraggiose sanno fare. In un sussurro mi dice: “Il signore muore o rischia grosso. Lo sai?”. La mia sensazione si siede dentro di me ed esplode. Eccola confermata.
Annuisco gravemente. Il paziente arriva vivo in ospedale e anche quando torno indietro a riprendere Mike e Telo portaferiti ha un rassicurante bip-bip attorno a sé.
Sono in un bagno di sudore, ho le ginocchia che mi fanno male come tutte le volte in cui sono tesa. Io e Mike entriamo nella benefica arietta fresca.
Mi sento liberata dall’afa, dal caldo, dalla sensazione accovacciata  in me dall’inizio del servizio. Mike si gira verso di me. Ha qualche anno in più di me ed è lo specchio di come vorrei essere io alla fine della Facoltà: operativa, umana, fresca e sorridente.
“Brava Dottoressa” mi dice.

La sensazione scompare in una moltitudine di farfalle. Una per ogni desiderio, una per ogni sogno, una per ogni speranza.
Sono davvero tante.
Sono proprio belle.

Pills

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la consapevolezza della gravità

Posted by DEA on giugno 11, 2010
cronache / 1 Commento

Finalmente una notte feriale… la sognavo da tempo, per non dover combattere nuovamente con corpi estratti da macerie di automobili trasformate per attimi in shuttle dalla magia dei fumi dell’alcool…
Tranquilla fino alle ore 5.00, quando il magico tic tac del conto alla rovescia delle 12 ore di guardia pulsa ormai forte e deciso nelle orecchie e nel cervello.
Io e il mio compagno di turno decidiamo di dividerci e lo spedisco in branda mossa a pietà dai suoi racconti di notti insonni grazie alle ripetute coliche del suo bimbo di neanche un mese e dall’adrenalina che ancora mi pervade nonostante si intravedano le luci dell’alba.
Rimaniamo io e i miei infermieri, a pensare alla colazione e a sbirciare dalla finestra, sperando che la neve non attacchi e ci permetta di raggiungere in fretta i nostri giacigli.
“C’è un giallo” risuona una voce stanca “dolore toracico”
“Portiamolo dentro… il solito ragazzi” che sta per ECG e prelievi, mentre io guardo la documentazione clinica e mi preparo psicologicamente a ricevere le informazioni del caso
“guarda Doc…” butto un occhio sul tracciato e lo vedo subito, ma sono al contrario e per un attimo mi sembra sottoslivellato, poi realizzo: “chiamami il cardio sul cicalino” e intanto il giovane signore, che visto da vicino è proprio sofferente, mi dice che il dolore gli pare proprio lo stesso del 2006 quando “ha fatto l’infarto e poi la plastica con il palloncino”
Suona il telefono e il mio Collega Cardiologo mi risponde con una voce proveniente diretta dall’oltretomba.
“Abbiamo un IMA” “E io questo dove lo metto?” risponde “Va beh, scendo”
Il Cardio arriva, getta un occhio cerchiato sull’ECG e prende il telefono, sbuffando bofonchia: “Dobbiamo portarlo su”
Mentre attacchiamo il monitor per il trasporto in Reparto ecco il suono: linea diretta con il 118. Squilli dall’Inferno e penso che è mercoledì sera, ne sono certa, e di tamponamento ce n’è già stato uno verso le 2.00, che c’è ora?
“Questo è rosso, un’emiparesi. 5 minuti, arrivano dal centro città”
Pensavo peggio, rifletto un secondo se preallertare la Stroke Unit e poi penso che prima me lo guardo io, che ho tempo.
Arriva. Ha un emilato in una posizione innaturale e mi dice che è perché è caduto dal letto, che sciocco, ma io leggo nei suoi occhi che oltre a mentire a me mente anche a se stesso.
Lo valuto rapida e poi parlo con la moglie, una bella signora sui 50 anni, seguita da un ragazzo alto alto, che cammina un poco curvo, una zazzera di capelli spettinati sopra gli occhiali dalla montatura spessa.
Lei mi dice che non è riuscita a sollevarlo da terra, che non è mai stato in ospedale prima, che non sa come funziona. Mi chiede fra quanto lo manderemo a casa.
Io le spiego che i sintomi del marito mi preoccupano, che probabilmente è successo qualcosa a livello cerebrale, che sicuramente questa sera non andrà a casa, lo devo ricoverare, ma prima facciamo degli accertamenti, voglio vederci chiaro. Non pronuncio la parola “ictus”, non ancora, tento di farle capire la gravità piano piano, poi le chiedo di accomodarsi in sala d’attesa perché arriva il Collega Neurologo ed inizia a valutare a voce alta se è il caso di trombolisare oppure no. Magari ci sanguina, bisogna avere più informazioni, preferisco che lei non senta. Non subito quantomeno.
Mando il paziente a fare la TC, accompagnato dal Neurologo, mentre io accolgo un nuovo dolore toracico e, di nuovo, chiamo lo “sbuffatore professionista” che, questa volta ormai ben sveglio, quasi non ci crede quando gli dico che ho un altro IMA ST-sopra a distanza di soli 20 minuti dal precedente. Però non brontola più e mi raggiunge anche più rapidamente.
Di nuovo il telefono, questa volta il mio, è il Neurologo dalla TC che mi dice di chiamare il Collega Neurochirurgo perché il paziente è emorragico e che la linea cerebrale mediana quasi non si vede più, tanto è schiacciata da un lato.
Lo aspetto e torniamo dalla moglie, questa volta in una stanza separata. Io più che provata, il Collega preoccupato, il figlio-zazzera e la signora. Le spieghiamo cosa abbiamo visto con la TC, che tutto quel sangue sarà difficilmente raggiungibile chirurgicamente e che preme proprio sopra i centri del respiro, che può peggiorare da un momento all’altro.
Il figlio si siede. Il colorito bianco-verdastro. Improvvisamente lo vedo invecchiare di almeno 10 anni. Lo sbircio cautamente per controllare che dalla sedia non crolli a terra, non sarebbe la prima volta.
Lei no, la consapevolezza della gravità non la raggiunge subito. Inizia a parlare a raffica, del marito, di come sia sempre stato bene, del fatto che non abbia ancora voluto andare in pensione, di sua madre morta a 97 anni (“sono geneticamente forti, mai visto un medico”) all’inizio usa il presente, poi inizia a parlare del marito al passato. Capisco che non siamo più davanti ai suoi occhi, che il dialogo è per se stessa, per poter accettare quella terribile verità che le abbiamo detto che ancora non riesce a farsi completamente strada nella sua mente.
E mi chiedo chi sono io per distruggere le sue illusioni? Che diritto ho di portarla bruscamente con i piedi per terra? Di farle ingoiare questa terribile e fredda realtà?
Ma poi penso che non ho nemmeno il diritto di lasciarle credere che andrà tutto bene, perchè quando la consapevolezza arriverà sarà uno schiaffo forte e secco e le farà troppo male.
Riprendo piano piano le redini del discorso, ripeto cose già dette, più lentamente, la guardo dritta negli occhi e finalmente la vedo, vedo spegnersi una luce nei suoi occhi verdi, le labbra tirarsi e scomparire. Sono pronta a sorreggerla, invece: “Grazie, dottoressa. Ora ho capito” sono le parole che sento. Le stringo la mano e il Neurologo le dice che se ha qualcuno da pregare quello è il momento per farlo. Sono belle parole, io non ne sarei stata in grado.
Ci allontaniamo da loro e continuiamo il nostro lavoro. Guardo l’ora: le 6.45. Mi metto mascherina e guanti puliti – non posso permettermi il lusso di fermarmi – saluto il signor Riccardo, che con la rima buccale deviata, riesce comunque a farmi un sorriso. Ancora stabile nonostante il caos regni sovrano nel suo cranio e per un attimo è lui a fare coraggio a me.

DEA

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l’emergenza e il territorio

Posted by Sun-Tzu on marzo 11, 2009
cronache / 5 Commenti

Ci sono posti che sono delle sacche di resistenza organizzata alla divulgazione della cultura medica.
Sono roccaforti inespugnabili di obbiettori di coscienza nei confronti del pensiero scientifico e della pratica clinica più elementare. Qui si nascondono anche pochi, isolati entusiasti cultori della emergenza extraospedaliera ortodossa. Sono una minoranza, probabilmente destinata all’estinzione. Travolti da uno tzunami di inoperosi affacendamenti più prossimi allo sciamanesimo che alla medicina moderna.
Capisco che sia necessaria una frequentazione, almeno occasionale, di un corso di medicina per sapere che Glasgow non è solo una ridente località della Scozia ma, che, quando associata a Coma Scale indica diversi livelli di stato di coscienza.
Mi rendo conto che vien difficile ricordarsela come la maestra ci ricordava i vari tratti delle Alpi. Mica c’è una filastrocca in rima per il coma.
Vien da se che ogni regione o paese ne elabora una con leggere modifiche. Così che ci possa essere l’Omegna Coma Scale e con pari dignità anche la variante di Cuggiono.
Per i linguisti più puri, poco inclini all’uso dei numeri, sono disponibili scale locali più descrittive in cui il coma può essere duro o grave, ma anche barzotto, utilizzando una terminologia con licenza da classificazioni più prosaiche.
Non volendo inopinatamente insistere su argomentazioni di carattere nozionistico affronterei con slancio la prima pruriginosa questione: L’intubazione oro-tracheale al di fuori dell’Ospedale per i pazienti in coma (indipendentemente dalla scala utilizzata) può comportare il malocchio persistente per l’operatore? Apparentemente si. Solo pochi sventurati hanno ricevuto questo privilegio. Da dati recenti sembra che gli operatori avessero Urano nel Leone. Una condizione estremamente favorevole.
Inoltre se allo stato di coma si associa quello di shoch emorragico è noto dal cofanetto deluxe della prima serie di E.R. che la questione si complica.
Era inoltre propedeutico alla formazione in emergenza ed urgenza sul territorio la visione di almeno uno (meglio due) epici film con John Wayne. Qui a fronte di un copioso sanguinamento da una ferita da taglio il posizionamento di una cintura stretta a monte della ferita stessa risultava di notevole aiuto. Il sorso di whyskey pare a tutt’oggi opzionale.
Sfortunatamente il nostro soccorittore aveva privilegiato Tom e Jerry per la sua formazione. Secondo questa diversa corrente di pensiero anche gli approcci più fatalisti spesso si risolvono con voluminosi ma benigni bernoccoli, uccellini che cinguettano e qualche stellina che ruota sul cranio.
Uno dei problemi della medicina moderna è, inoltre, la superspecializzazione. Una competenza universale per un particolare. Nel nostro caso il soccorritore era da generazioni un profondo conoscitore della storia e dello sviluppo del futon. Lo sventurato, è vero, non aveva una protezione delle vie aree, respirava a stento, sanguinava come un vitello sgozzato ed aveva una pressione arteriosa non pervenuta come la temperatura di Vladivostock. Ma era posizionato sulla sua tavola spinale che lo potevi fotografare. Un capolavoro di simmetria assiale. Ogni singola cinghia del ragno era tesa alla perfezione. Accordate come le corde di un pianoforte; se le sfioravi nella sequenza giusta ottenevi la sigla del Dottor Kildare.
Insistere sul razionale di tale scelta si è rivelato dirompente. Una critica all’estro del singolo. Una inopportuna limitazione della libertà del soccorritore cui venivano tarpate le ali della fantasia creativa costringendolo ad ammettere che no, lo sventurato non aveva subito traumi da precipitazione; no non era lecito chiedersi se l’asse spinale avesse una funzione. Era come chiedere a Dechamp se la ruota sullo sgabello avesse un fine pratico. Una domanda inopportuna e fastidiosa. Posta da chi certe raffinatezze non le può mica capire. Lo sventurato era lì, ora ed adesso, per volere dell’artista. E se proprio vuoi una ragione qesta è che lo sventurato sanguina. E se uno sanguina si mette sulla spinale. Pragmatismo dogmatico. Non si discute.
Andava capito subito che il tempo delle domande era finito. I frequentatori delle roccaforti del negazionismo scientifico sono persone di poche parole. Spesso anche scoordinate. Ma soprattutto poche.
Devono fuggire. All’interno degli Ospedali hanno pochi minuti di vita. Si teme che nano particelle di pensieroscientifico disciolto nell’aria associate alla pratica clinica elementare possano irrimediabilmente contagiarli. Sarebbe sufficiente ascoltare qualche stralcio di discorso tra operatori sanitari a vaporizzarli. Solo alcuni di loro, praticanti la mesmerizzazione trisettimanale, possono prolungare la permanenza. Sfortunatamente non era il caso del nostro. La sfrontatezza con cui si soleva proprio capire quale meccanimo avesse prodotto una tale lesione era insopportabile. Dopo che lui aveva con solerzia e precisione consentito che il male presente nelle vene e nelle arterie dello sventurato fluisse libero sul pavimento liberandolo e purificandolo, che altro ancora si poteva volere da lui. Piccinerie di noi menti semplici. Condannati a sapere se dover redigere una comunicazione alla Procura della Repubblica oppure no.
E’ noto, infine, che gli appartenenti a queste congregazioni di negazionisti della medicina tradizionale sottoposti a stressanti interrogatori inerenti il loro operato divengono violenti. Unendo così la peculiare caratteristica di un eloquio colorito, seppur difficilmente comprensibile, ad atteggiamenti aggressivi.
Si profila così un quadro completo composto da una popolazione piuttosto omogenea e diffusa sul territorio nazionale di individui legittimati a scegliere per la salute di alcuni sventurati in accordo a leggi non governate dal pensiero scientifico ma dall’estro o dal caso, accompagnate dalla presunzione e dalla supponenza di chi sa. Data la precisa localizzazioni geografica di tali congregazioni taluni auspicano, come per i dinosauri, l’avvento prodigioso degli asteroidi.

Sun-Tzu

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