notti di guardia

Posted by Gaddo on gennaio 10, 2011
cronache / 2 Commenti

Ore 19.45. Entro in ospedale in fretta e con una punta di rimorso: avrei voluto arrivare prima per mandare a casa il mio collega della guardia pomeridiana, ma non ce l’ho fatta. Fra i saluti ai bambini, una cena ultrarapida con piatto unico che farà le veci del cenone di capodanno e il caricare tutto in auto, non ce l’ho proprio fatta.
Ore 20. Faccio il mio ingresso trionfale in PS. In sala d’attesa radiologica c’è gente, e io non credo ai miei occhi: fra poco cominciano i festeggiamenti e le danze, non riesco a trovare motivi per una presenza così assidua e affezionata al pronto soccorso. E infatti non la trovo nemmeno quando comincio a refertare esami: dolori alla spalla da settimane, distorsioni di cinque giorni prima, dolori al petto in giovani ventenni ansiosi. Mi chiedo cosa stia succedendo, nel mondo in generale e in questo paese in particolare.
Ore 20.43. Mi chiama l’ortopedico di guardia e mi comunica che alle ventidue e trenta, urgenze permettendo, ci si vede su da loro in reparto per una bicchierata e un taglio di panettone. Io dico che ci sarò, salvo sorprese, e lui cala l’asso: Ho una paziente in reparto che respira male, l’ha vista la geriatra di guardia e dice che può essere un’embolia polmonare. Embolia polmonare, come no. Non so perché, ma dal tono di voce del mio collega inferisco l’estrema improbabilità statistica che si tratti di embolia. Potrei scommetterci un intero mese del 2011.
Ore 21.05. In Tac. La paziente dell’ortopedia non ha l’embolia polmonare, è ufficiale. Il mio mese del 2011 è salvo.
Ore 21.30. Porca miseria, mi sono accorto di aver dimenticato l’Ipod a casa. Bene: notte dell’ultimo dell’anno senza nemmeno un po’ musica. Che culo.
Ore 21.44. Mi telefona una cara amica: Non è che per caso sei di guardia stanotte? Perché mia figlia ha appena ingoiato una batteria. Portala subito qui, le dico.
Ore 22.05. Mi richiama l’ortopedico: c’è una donna che si è buttata giù da un balcone non troppo alto, non è riuscita nel suo intento ma in compenso si è fatta molto male. Serve una Tac del bacino perché secondo lui le radiografie non sono chiare. Io mi chiedo perché mai le persone aspettino le feste comandate per arrecarsi danno: se per una inclinazione irreversibile legata alla malinconia delle feste in solitudine o se per farla pagare a chi invece le feste se le sta godendo alla faccia di chi minaccia il suicidio. Forse entrambe le cose insieme. Nessuna delle quali, a mio modesto parere, giustifica la conclusione di ritrovarsi in un triste letto dell’ortopedia con il bacino fracassato. Se proprio vuoi ammazzarti, insegna il saggio, meglio scegliere un piano abbastanza elevato.
Ore 22.30. Arriva la mia amica con la bimba, in un felice istante lavorativo in cui fuori non c’è nessuno che aspetta. Facciamo la radiografia alla bimba in un istante e la batteria c’è per davvero. La rispedisco in pediatria, mi richiameranno loro per discutere il caso.
Ore 22.55. Incredibile, qui fuori c’è ancora gente che aspetta. Mi ero portato il PC portatile per scrivere qualcosa, ma non riesco a staccarmi dalla consolle del PACS. Quando esco dalla mia sala di refertazione per andare in ecografia le persone in attesa hanno una faccia incredibilmente priva di espressione. Come se fossero altrove: in treno, in coda alle poste per pagare una bolletta, davanti alla tivù mentre guardano il Grande Fratello. Forse è solo la tristezza del luogo, forse è la stanchezza fisica. Forse è il senso di disperazione che ti assale ogni volta che entri in ospedale dalla porta d’ingresso sbagliata, quella del paziente.
Ore 23.35. Viene in studio uno dei due chirurghi di turno. E’ una persona simpatica, con cui vado d’accordo a prescindere: sono contento di vederlo anche se in realtà è venuto a pormi un problema. C’è la paziente a cui ho fatto l’ecografia poco prima: ha mal di pancia ma è molto grassa e non è facile visitarla. Ha un po’ di sangue nelle feci e una leggera anemia. Gli esami del sangue per il resto sembrano a posto, salvo i lattati alti. Insomma, per farla più breve di come la fa lui: Secondo te, mi chiede, è legittimo chiedere una Tac con questo quadro per una sospetta ischemia intestinale? Beh, gli rispondo, non è che bastino i lattati alti per sospettare un infarto intestinale. Ma è la notte di Capodanno, non ho voglia di discutere e neanche di essere sarcastico; e ho intuito che né lui né la collega di PS ci hanno capito nulla. Facciamola pure, questa Tac. A una quasi novantenne, una volta tanto, aver preso raggi per niente non farà grossi danni.
Ore 23.57. Il tecnico mi chiama al telefono perché la paziente è già sul lettino, pronta all’esame. Io entro in Tac, oltre al tecnico ci sono due infermiere dall’aria stanca. Parte l’esame: e la mezzanotte scocca durante il bolus tracking, in un silenzio rotto solo dal ronzare del tubo radiogeno che fa il suo dovere. Ci scambiamo gli auguri, io, il tecnico e le due infermiere, mentre l’esame finisce. Nessuna traccia di ischemia intestinale né di altre patologie. Quale che sia il motivo del mal di pancia, e non c’erano molti dubbi che non di trattasse di infarto, il mio amico chirurgo dovrà cercarselo altrove.
Ore 0.10. Dopo un fitto scambio di SMS sull’inutilità della peretta evacuativa e sulla somministrazione di un purgante più robusto alla bimba, la mia amica dice che viene a farmi gli auguri. Scende dopo pochi minuti: ha la faccia stravolta dal sonno mentre la bimba è vispa come se l’avesse punta un calabrone, e a più riprese cerca di smontare la sala refertazione. Andiamo dai tecnici, in un momento di pace, con un pandoro e una bottiglia di prosecco. La tecnica va a procurarsi un cavatappi, e alla fine si aggiunge anche l’otorino di guardia. Alla vista della bottiglia ghiacciata si rianima, e racconta che in reparto ha appena brindato con un vinaccio che sembrava fatto con la polverina. Brindiamo anche noi a momenti migliori, ognuno concentrato sui propri desideri. La bimba è irrefrenabile, allegra più di noi tutti messi insieme.
Ore 01.30. L’emorragia di esami si arresta, la sala di attesa è vuota come solo una sala di attesa ospedaliera può essere. L’albero di Natale lampeggia a intermittenza, gli occhi mi bruciano. Decido che è ora di ritirarmi nelle mie stanze. Leggo un libro per cinque minuti, poi le palpebre mi si chiudono e prendo sonno.
Ore 02.00. Anziano paziente dispnoico, Rx torace.
Ore 02.30. Anziano paziente dispnoico. Rx torace e addome diretto.
Ore 03.00. Anzianissima signora con un probabile ictus cerebrale. Rx torace di benvenuto.
Ore 03.30. Anziana signora con difficoltà respiratorie. Rx torace.
Ore 04.00. Giovane con sospetta frattura del polso. Che non ha, of course.
Ore 04.30, 05.00, 05.30, 06.00. Altri ultranovantenni, sempre per gli stessi motivi. Faccio davvero fatica a tenere gli occhi aperti, vedo praticamente doppio. Converto il mio privato desiderio di fine anno in quello di non finire in galera per aver sbagliato uno degli esami notturni, refertati praticamente con un occhio solo.
Ore 06.30. Ancora l’ortopedico, implacabile come l’anno della fame. C’è un’altra paziente ricoverata in cui la geriatra sospetta un’embolia polmonare. Gli chiedo, con voce implorante, se il sospetto è proprio così terribile da non poter attendere almeno un’ora, in modo che possa riprendere un minimo di conoscenza. Dalla risposta allegra del collega (ma questo non ha mai sonno?) re-inferisco che all’embolia polmonare non ci crede molto nemmeno questa volta. Per amor del vero, l’ortopedico non mi sveglierà fino alle 8 di mattina, e la tac per embolia la faremo insieme io e il mio collega, al cambio guardia. Negativa, of course.
Ore 07.59. Squilla il cordless, ancora e ancora. E’ il mio collega del cambio, mi chiede dove sono ma lo capisce subito appena rispondo con voce cavernosa. Mi alzo, mi bagno la faccia, lavo i denti. Disfo il letto in cui praticamente non ho dormito, rimetto a posto le coperte.
Ore 08.15. Porto il cordless al collega. Scambiamo due chiacchiere, gli auguro migliore fortuna durante il turno giornaliero e prendo la strada di casa. In strada nessuno, nemmeno un cane. La mia macchina è ricoperta da uno strato di ghiaccio spesso un dito. Ci sono tre gradi sotto zero, l’aria è davvero magnifica. L’alba è rosa.
Ore 09.00. Sono a casa. Tutti dormono, anche la piccola: che in genere alle sette di mattina salta sul letto intonando canzoni natalizie. Mi siedo sul divano, accendo la televisione, guardo un pezzo di film degli anni cinquanta. Il silenzio è perfetto. Dopo mezzora i miei bimbi irrompono nella sala e mi abbracciano: e l’anno comincia per davvero, nel migliore dei modi possibili.

Gaddo

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l’umiltà degli aquiloni

Posted by Gaddo on luglio 30, 2010
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E’ un corridoio sotterraneo, quello che collega il padiglione dove è ubicato il mio reparto a quello della terapia intensiva neurochirurgica. Un corridoio lungo, buio e freddo. A un certo punto la strada si biforca: a destra si va nel padiglione neurochirurgico; a sinistra, paradossale metafora, si imbocca l’ingresso dell’obitorio. Mentre lo percorro mi viene in mente che se fossi un barbone queste svolte ad angolo retto potrebbero fornirmi un riparo per la notte: ma è il pensiero di un attimo. Il pensiero fisso invece è il motivo della chiamata in consulenza: ecografia per potenziale donatore di organi. Traduzione: un paziente è morto, lo teniamo in vita solo perchè doni i suoi organi a un’altra persona.Quando arrivo in terapia intensiva neurochirurgica lo spettacolo è desolante. Ci sono molti letti, e sono tutti pieni. Poveri pazienti ranicchiati su sè stessi, la testa rapata e solcata da cicatrici che sembrano infinite. Hanno tutti gli occhi semichiusi, non so se dormano e se siano in preda a dolori atroci mezzo sedati dagli analgesici.

Il medico rianimatore è gentile, mi accoglie con un sorriso che già di per sè è un mezzo miracolo. Mi chiede: Come va?

E io che devo rispondergli? Va bene per forza. In un luogo del genere tutto va bene, tranne essere l’ospite.

Mentre l’ecografo si accende il collega mi mostra la tac toracica di un altro paziente. Mi chiede cosa penso del suo torace: c’è acqua e c’è aria libera, dunque non va benissimo. Ma il peggio non è quello: il peggio è l’incidente di moto che lo ha condotto lì, e che lo ha già reso irreparabilmente tetraplegico.

Poi l’infermiera, anche lei incredibilmente sorridente, mi informa che l’ecografo è pronto e scopre l’addome della potenziale donatrice di organi. Che, al di là di questa fredda definizione medica, è una donna. Abbastanza giovane e persino bella, nonostante i tubi che le spuntano come rami secchi da tutte le parti del corpo. Sembra che stia solo dormendo. Che stia sognando qualcosa di rasserenante, mentre il macchinario le pompa aria nei polmoni con stantuffi regolari e implacabili. Mentre eseguo l’ecografia non riesco a non guardarle il viso: ho quasi la sensazione che se allungassi una mano, e le carezzassi una guancia, la signora potrenne svegliarsi e sorridermi meravigliata di trovarsi seminuda davanti a uno sconosciuto in camice bianco.

Ma non ne ho il coraggio. Finisco il mio lavoro, scrivo il referto e me ne torno in pronto soccorso. Questa volta non voglio percorrere quel terribile corridoio sotterraneo: farò la strada esterna, lungo il viale alberato. Anche se la primavera tarda ad arrivare, gli alberi sono spogli e l’unico privilegio del cambio incipiente di stagione sono le prime, maledette zanzare.

Una volta Rod Laver, l’indimenticabile tennista australiano che vinse il Grande Slam negli anni ‘60, in un’intervista disse: Mi sento umile, quando batto un uomo.

Io non ho battuto nessuno, anzi. Ma mi sento umile lo stesso, quando faccio l’ecografia a un paziente che già non c’è più, ma che noi medici tratteniamo con tutte le nostre forze al di qua di quella linea nera da cui, dicono, non si fa più ritorno.

Come se stringessimo nella mano il filo di un aquilone, e fuori ci fosse un ventaccio da paura.

Gaddo

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angeli custodi

Posted by Gaddo on marzo 25, 2010
pensieri / 3 Commenti

Cos’è che accade veramente quella volta che ti chiamano in piena notte per il solito incidente stradale, e tu arrivi in pochi minuti, e c’è sul lettino della Tac un ragazzo di diciannove anni privo di conoscenza, tu fai l’esame, ti siedi alla consolle per cercare di capirci qualcosa e sembra tutto a posto, dico sembra perchè scorri le immagini avanti e indietro e tutto sembra a posto ma una vocina dentro ti spinge a continuare a guardare, ti implora di non chiudere la faccenda con un referto negativo mentre tu muori dal sonno e hai voglia di ritornartene a letto, cos’è che accade veramente quando continui a guardare quelle immagini in cui tutto sembra a posto e cominci a sentirti un deficiente perchè anche il tecnico se ne è andato via e dal pronto soccorso aspettano soltanto il tuo via per decidere cosa fare, eppure all’improvviso, proprio quando stai per mollare, ti accorgi che c’è una bollicina di aria accanto al margine del fegato, una bollicina di aria così talmente piccola che se tu avessi eseguito lo stesso esame altre diecimila volte non te ne saresti accorto, e tu sai bene che in quel posto lì non deve esserci nessuna bollicina di aria, cos’è che accade quando afferri il telefono in mano e chiami il chirurgo e gli dici di venire in sezione Tac, poi gli mostri l’esame e gli dici che c’è dell’aria in pancia, e lui ti guarda un pò male perchè neanche lui alle tre di notte ha voglia di andare in sala operatoria e ti chiede, ma sei sicuro, e tu gli dici, si che sono sicuro, lì c’è aria, e allora arrivano gli infermieri con le barelle e il chirurgo ti augura buonanotte e tu gli auguri buon lavoro perchè tu torni a letto ma lui rimane lì a cercare di scrollarsi il sonno da dosso perchè dovrà aprire la pancia di un adolescente alle tre di notte o di mattina, che poi è uguale, cos’è che accade quando imbocchi lemme lemme il corridoio centrale sperando di non aver sparato una cazzata perchè mandare un ragazzo in sala operatoria non è come bere una lattina di aranciata, e dormi male perchè aspetterai le otto di mattina per telefonare al chirurgo, o incontrarlo al bar, e domandargli com’è andata, ma poi è lui che chiama te alle otto e dieci e ti dice, c’era un’ansa intestinale perforata, un buchino millimetrico ma c’era, volevo che tu lo sapessi, e senti nella sua voce qualcosa che da lontano somiglia un pò a sollievo e un pò a gratitudine, e la tensione dentro di te si affloscia come un palloncino bucato?
Insomma, non lo so cosa accade in quei momenti: so soltanto che a volte la diagnosi brillante che ottieni, l’intuizione che risolve un caso difficile, il paragrafo da tre righe che hai studiato mille anni fa e che ti viene in mente senza che tu l’abbia cercato e proprio nel momento giusto, tutte queste cose non dipendono da te ma è come se una mano pietosa te le inculcasse nella testa e ti mettesse a forza sulla retta via.
Quello che voglio dire, in definiva, è che sono davvero convinto che a volte non siano i medici a essere bravi, ma gli angeli custodi ad avere due maroni così.

Gaddo

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le solite cronache di una notte di guardia

Posted by Gaddo on settembre 09, 2009
cronache / 3 Commenti

Il mio webmaster è contento quando faccio le notti di guardia. Dice che la qualità dei post è migliore (e forse ha ragione, perchè quando non si hanno storie da raccontare si finisce nell’invettiva sterile di sempre).

Ma ci sono volte in cui no, non ha ragione. Ieri sera, intorno alle ventuno, è arrivato in pronto soccorso un signore anziano, ma non tanto, con il bacino letteralmente in pezzi.

Abbiamo fatto davvero di tutto, e in tanti. Si è cominciato con le sacche di sangue da trasfondere durante la tac, con gli infermieri tesi e indaffarati; l’anestesista che cercava di tenere in qua il signore con tutti i mezzi a sua disposizione (aveva una faccia così stanca, poverina, che mi è venuto voglia di abbracciarla, farla sedere su una sedia e lasciare che mi raccontasse tutto; anche se non la conosco così bene da permettermi simili confidenze); il mio collega radiologo in reperibilità vascolare, che è arrivato dopo dieci minuti (era uscito dall’ospedale da meno di un’ora) per un tentativo disperato di bloccare l’emorragia interna con un’embolizzazione dei vasi che perdevano sangue; gli ortopedici, che alla fine lo hanno portato in sala operatoria per rimettere a posto il bacino e la spalla fracassati.

Ho riletto il mio referto tac: un festival di fratture. Ricordo di aver pensato che, porca miseria, come fai a tirar fuori dalle pesti un paziente con così tante fratture al bacino: troppe esperienze negative sul groppone, anche se in medicina, come sempre, non si sa mai. Nel bene e nel male.

La serata continua, diventa una nottata che si prolunga ininterrotta fino alle tre e mezzo del mattino: e per fortuna che i colleghi del pronto soccorso sono stati fantastici. Con l’internista abbiamo discusso di casi clinici come sempre si dovrebbe fare, in queste circostanze. La chirurga addirittura ha portato il gelato e ha sorriso tanto, con il suo bel sorriso di sempre. Lusso allo stato puro.

Poi, intorno alle quattro, mentre cerco di guadagnare il letto, incoccio l’ortopedico lungo il corridoio. Ha una faccia distrutta dalla stanchezza mentre mi dice: Non c’è stato niente da fare, il signore non ce l’ha fatta.

Ragioniamo qualche minuto sulla faccenda e non ci sembra di aver sbagliato nulla nelle varie procedure: è solo che rompersi così tanto il bacino è una cattivissima idea, poi si rischia grosso davvero. Lui ha detto, amaramente: Speriamo che lo capiscano anche i familiari.

E a quel punto l’ho guardato, appoggiato con la schiena al muro, gli occhi cerchiati di nero, con ancora in tesa la cuffietta da sala operatoria: sembrava rimpicciolito, raggrinzito, come se le due fatiche associate, quella fisica e quella mentale, lo avessero davvero ridotto ai minimi termini. Poi anche lui mi ha guardato, e ha aggiunto: E’ in momenti come questi che mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare a scegliere questo mestiere.

Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma non c’era molto da aggiungere. Sono talmente tante le volte in cui ci diamo dentro per ore intere, e poi perdiamo i pazienti, che ormai non ci penso neanche più a chi me l’ha fatto fare. Sono rientato nella stanza, alla fine, e mi sono buttato sul letto. Avevo un groppo in gola che non andava giù: forse perchè questa volta ci avevo davvero creduto, al lieto fine della storia. Due o tre ore prima il signore era disteso sul lettino della tac, respirava, rispondeva all’anestesista che cercava di tenerlo sveglio: due o tre ore dopo più nulla, solo un corpo freddo senza più nessun abitante dentro.

Non so come spiegarlo: non è questione di aver fatto bene o male le cose, di essere stati tempestivi ed efficaci, professionali o emotivi. E’ che prima sul quel lettino c’era qualcuno, poi solo un gran vuoto. E il vuoto, a volte, fa male.

Gaddo

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