Quelle notti angosciose

Posted by Nicola on marzo 12, 2015
pensieri / Nessun commento
foto di NC

foto di NC

Quando ho iniziato a lavorare in ospedale, ogni notte sognavo. Sognavo di lavorare in ospedale.

O quasi. Anzi, a ben pensarci quasi mai: quasi mai ero IN ospedale. Sognavo di lavorare nei luoghi più disparati, sulle rive di un lago, in treno, in una palestra… situazioni diverse che però, dal punto di vista emotivo, per me rappresentavano inequivocabilmente l’ospedale.
Nonostante il setting cambiasse ogni volta, il contenuto dei sogni era sempre lo stesso; il mio inconscio mi mandava un unico messaggio: sappi che patisci il peso delle responsabilità che questo lavoro comporta. Io te lo dico. Poi vedi tu.

Me lo diceva in modo chiaro, cristallino, quasi sillabando: una volta, ad esempio, sognai di essere sdraiata supina su un cornicione molto stretto, con un paziente disteso su di me, la sua vita dipendente dalla mia capacità di mantenere l’equilibrio. Non c’è certo bisogno di aver studiato Freud per interpretare sogni di questa portata. “Un linguaggio onirico così facilmente decifrabile non può che esser frutto di una mente altrettanto semplice, Signorina!” avrebbe probabilmente sentenziato Sigmund, con quella sua aria burbera.

Era da tanto che non ripensavo a quelle notti angosciose. Forse con il tempo le paure semplicemente si superano. Senza neanche accorgermene, sono tornata a sguazzare nella confortevole illogicità dei sogni sereni e ora vivo notti tranquille… ad eccezione, certo, di quelle che effettivamente passo in turno.

Purtroppo a lavoro le notti tranquille sono bestie rare, le condizioni necessarie perché se ne verifichi una sono molteplici e tutte indispensabili.

Servono innanzitutto pazienti stabili, che non tentano di estubarsi, che non vogliono scendere dal letto. Servono i colleghi giusti, quelli che parlano ad un volume che non superi i valori limite fissati dalla 626. Ma soprattutto, servono elettromedicali collaborativi e questo è estremamente importante e dannatamente difficile da ottenere, in un reparto dove a tutto ciò che è attaccato a corrente è data la possibilità di farsi udire.  Alle volte si ha l’impressione che le macchine si stiano ribellando all’uomo, attaccandolo con allarmi tanto insistenti quanto privi di fondamento eziologico; tra le più sovversive: il materasso, che lui solo sa perché stia allarmando da due giorni, e l’umidificatore, che lui solo sa perché mai l’abbiano dotato di un allarme acustico in primo luogo. E con tutti quei decibel per giunta.

Ma quando gli utenti, i colleghi, le apparecchiature e l’allineamento dei pianeti lo consentono, le notti tranquille sono davvero tranquille. Così tranquille che posso sedermi qui alla scrivania, proprio di fronte ai miei pazienti, e rilassarmi un attimo.

Sono le cinque e quarantacinque. Tra un quarto d’ora inizio con prelievi, esami, consegne da scrivere. Alcuni colleghi hanno già cominciato e vanno avanti e indietro con le provette piene, svuotano urinometri, diluiscono antibiotici… non ho terapia alle sei, posso fare con calma, inizio tra un quarto d’ora, un quarto d’ora soltanto, ecco, mi metto qui tranquilla, poggio un attimo la testa sulle braccia conserte, proprio solo un attimo. Guardo l’orologio. Cinque e quarantacinque. Da qui vedo i monitor, vedo i pazienti. Un quarto d’ora, un quarto d’ora e inizio.

Sussulto.

Guardo l’orologio: quasi le sette. Ma come? Mi sono addormentata! Sollevo la testa, non c’è un rumore nell’aria, le luci sono ancora spente. Guardo i monitor. Uno ha i tracciati piatti. Cos’è successo? Perché non legge niente? Mi alzo e mi avvicino al letto… è vuoto. Come può esser vuoto? Mi muovo più velocemente verso l’unità. Il mio cuore accelera. Dov’è il paziente?? Una spondina è abbassata, vado verso quel lato e lo vedo. A terra. Immobile. Morto.

Oh no! E’ morto. Sento caldo, sono come bloccata. Perché il monitor non ha suonato? Dice “cavi scollegati”, devono essersi staccati prima che cadesse! No, non è accettabile, non è possibile che un paziente monitorizzato muoia in una rianimazione senza che nessuno se ne accorga. Il MIO paziente! E ora cosa faccio?? Devo dirlo a qualcuno. Ma dove sono tutti?? Diego. C’è Diego in turno, devo dirlo a Diego. “Diego!” mi muovo di nuovo velocemente, ma è più per dimostrare a lui che vorrei, davvero, vorrei poter fare qualunque cosa per recuperare alla mancanza di averlo lasciato cadere… Diego si avvicina, lo guarda, “Eh, è morto!” “E’ caduto! Il monitor non ha suonato!” “E cosa vuoi? Rimettilo nel letto. Adesso devo pure darti una mano?” Aspetta. Aspetta, questa non è una risposta normale. Non è normale che il monitor non suoni. C’è qualcosa di sbagliato, tutto questo non è possibile. Mi agito, mi agito sempre di più. Non è possibile. Mi sento stringere. E’ tutto sbagliato.

Guardo l’orologio: cinque e cinquanta. Mi sono addormentata per cinque minuti. Sollevo la testa, le luci centrali sono accese e i miei colleghi si muovono come formichine operose nella penombra concludendo le ultime attività della notte. Guardo i monitor, colorati e silenziosi, indicano parametri perfettamente compatibili con la vita. Era solo un brutto sogno, come quelli che facevo anni fa.

Era da tanto che non ripensavo a quelle notti angosciose. Forse semplicemente alcune paure non si superano del tutto.

Nicola

Tags: , , ,

Poi l’ho dimenticato

Posted by Nicola on ottobre 15, 2014
emozioni / 4 Commenti
Foto di NC

Foto di NC

 

Una volta mi hanno rubato la bicicletta.

Eh, magari! In realtà quattro volte me l’hanno rubata. Quattro biciclette diverse, non sempre la stessa. Ognuna ha avuto la sua breve storia di felici pedalate conclusa con il banale rituale di una catena spezzata. Nulla di cui valga la pena parlare, davvero. Dirò solo che la prima volta è stata incredulità, la seconda rabbia, la terza rassegnazione e la quarta l’ho dimenticata. Ed è proprio di questo che vorrei raccontare: di quando, per la quarta volta, mi hanno rubato la bicicletta e io l’ho dimenticato.

Da casa mia, ho la fortuna di poter raggiungere l’ospedale in cui lavoro in circa tredici minuti di pedalata decisa.

Dico “fortuna” perché tredici minuti in bici sono proprio pochi, me ne rendo conto. Eppure a volte sembran tanti: sembrano tanti dopo le notti, quando anche il teletrasporto sarebbe una soluzione lenta rispetto all’intensità con cui si desidera essere già a letto, già docciati, già addormentati; sembrano tanti le mattine d’inverno, quando si vorrebbe essere ancora a letto, ancora addormentati, uterinamente avvolti dal piumone caldo. Sembrano tanti questa sera, che ho finito il turno del pomeriggio e domani dovrò alzarmi presto per quello del mattino. Pomeriggio, poi. Ma quale pomeriggio!? Tra una cosa e l’altra si esce dall’ospedale quasi alle undici, altro che pomeriggio: è notte fonda! Già notte fonda quando esco e ancora notte fonda quando mi alzerò. Tanto valeva tenersi la divisa addosso. Tanto valeva restare in ospedale. E ora che faccio? Cosa la metto dentro a fare la bici, se tra poche ore sarò di nuovo per strada a pedalare? No, questa notte la lego fuori, davanti a casa, che non ho tempo da perdere a litigare con la serranda del garage. Qui non me l’han mai rubata, non succederà proprio questa notte. Sarebbe la quarta in sei mesi, è statisticamente impossibile. Non succederà.

Il mattino seguente, sono in strada a correre, letteralmente correre, verso la fermata dell’autobus. E’ successo. Me l’hanno rubata.

Non ci credo, mi hanno rubato la bicicletta, di nuovo. Proprio questa notte, proprio a me, proprio la mia bicicletta… rubata. Una tragedia! Ah, ma oggi mi sentono! Chi? Tutti! Tutti mi devono sentire! Se non posso colpevolizzare nessuno, allora tutti dovranno pagare: oggi mi lamenterò tutto il giorno, incessantemente, svergognatamente, oggi mi lamenterò come non ho mai osato fare in vita mia, perché mi hanno rubato la quarta, dico la quarta bicicletta in sei mesi e lamentarmi è un mio sacrosanto diritto!

Quando arrivo in reparto, i colleghi si sono già assegnati i pazienti. “Scusate il ritardo, è che mi han rubato la bici, la quarta…” ecco, iniziamo a lamentarci, che capiscano quale sarà l’andazzo della giornata “…la quarta in sei mesi! Comunque, chi è rimasto da seguire?” Letti sette e otto.

Prendo consegna.

Al letto otto c’è un paziente nuovo, un ricovero della notte; ieri sera, mentre io tornavo a casa in bici, lui rientrava a casa in macchina.

Al letto otto c’è un giovane uomo, sembra un bambino per noi, abituati come siamo ad assistere persone tanto più grandi di lui; ieri sera, mentre rientrava in casa in macchina da solo, ha perso irrimediabilmente il controllo della vettura.
Al letto otto c’è un ragazzo di diciotto anni. E sta andando in morte cerebrale.

I pazienti in rianimazione non vanno proprio da nessuna parte, tendenzialmente se ne stanno a letto. Eppure si dice in continuazione: sta andando in morte cerebrale. Lui è arrivato a 3 di potassio, l’altro è andato in fibrillazione atriale, poi è rientrato… se lo avessi sentito dire da bambina, molto più bambina del paziente del letto otto, mi sarei immaginata un gran via vai di gente. Avrei pensato ad uno stanzone pieno di persone, alcune in divisa, altre no; ogni tanto uno inizia a camminare “Scusi, dove sta andando?” “Io? Sto andando in acidosi” “Non credo proprio, venga da quest’altra parte con me…” gli direbbe quello in divisa.

La reazione di quelli in divisa è sempre diversa: se uno va in ipernatriemia, ad esempio, gli si batte una mano su una spalla, gli si fa no col dito e lo si riporta sulla strada giusta accompagnandolo lentamente. Ma se uno si mette inaspettatamente a correre e qualcuno vedendolo lo addita urlando “Sta andando in arresto!!”, allora gli si salta addosso in tanti e lo si placca con determinazione come giocatori di rugby. Altre volte ancora, qualcuno si alza e va, e nessuno cerca di fermarlo, lo si osserva in silenzio mentre si allontana “Lui sta andando in morte cerebrale” e chi va in morte cerebrale non si può far altro che lasciarlo andare. Anche se ha diciotto anni.

Accanto al paziente del letto otto c’è una donna, sta seduta su una sedia blu, poi si alza, poi si siede. Vederla piangere, per quanto straziante, è un sollievo. Quando smette, diventa quasi palpabile un dolore tanto forte da spegnerle il pianto.

Mi ritrovo a chiedermi se sarebbe più comodo per me se lei non fosse qui. Se non ci fosse questa madre a trasformare il paziente del letto otto, un perfetto sconosciuto, in un figlio amato.

Se fossimo solo io e lui, se guardandolo mi rendessi conto che tutto sommato ieri sera avevamo la stessa probabilità di vivere o morire, non sarei spaventata dal riflesso della mia vulnerabilità.

Ma questa madre testimonia il fatto che per ogni persona che amo e che amerò corro il rischio di ritrovarmi seduta su una sedia blu, senza più lacrime da piangere. Come proteggersi da questa vulnerabilità? E come supportare questa donna, come starle accanto senza essere inadeguati?

Non sarà certo sufficiente rannicchiarsi ipocritamente dietro lo scudo del fare. Eppure ci sono i parametri da registrare, sistolica, diastolica, media, frequenza, diuresi, saturazione… ci sono terapie da somministrare, stappa, aspira, diluisci, inietta, deflussa… ci sono fogli da compilare, telefoni a cui rispondere, ci sono di nuovo parametri da registrare… e c’è lei, sempre lei che piange e quando non piange è forse peggio. Il suo dolore rende insignificante ogni più piccolo gesto, ogni pensiero, ogni cosa che non sia dolore stesso.

Il turno finisce. Do consegna al mio cambio. Esco dal reparto, mi cambio con estrema lentezza e me ne vado guardando la vita che scorre al di là del vetro dell’autobus.

Solo quando arrivo sotto casa mi ricordo della bicicletta. Me l’hanno rubata. Che stupida: poche ore fa era per me un avvenimento tanto tragico da credere che valesse la pena lamentarmene. Poi l’ho dimenticato.

Nicola

Tags: , , ,

Altissimo rischio di aztrugatnat

Posted by Nicola on maggio 24, 2014
testimonianze / 1 Commento
foto di NC

foto di NC

 

Sono finita in un Paese Lontano, dove sto lavorando in vari ospedali come Personal Care Assistant su turni special con un contratto casual, tramite una Nursing Agency.  Una versione in prosa approssimativa ma comunque soddisfacente della traduzione dal paeselontanese all’italiano sarebbe questa: sto lavorando in vari ospedali come oss, tramite un’agenzia che mi chiama per coprire dei turni quando gli ospedali richiedono pesonale extra.

Io comunico la mia disponibilitá sui tre turni all’agenzia settimanalmente. In teoria loro dovrebbero contattarmi sempre settimanalmente per propormi dei turni compatibili con le mie disponibilitá e io potrei accettarli o rifiutarli a seconda di ció che piú mi aggrada, perché essere uno special con contratto casual vuol dire essere liberi. In teoria. In pratica gli ospedali fan richiesta all’ultimo, per cui l’agenzia mi chiama all’ultimissimo e io non c’ho na lira, quindi, schiava del Dio Danaro, mi do sempre disponibile e mi guardo bene dal rifiutare qualsivoglia turno, dato che non so mai quando sará la prossima volta che mi chiameranno.

Nella pratica, la mia vita da Personal Care Assistant nel Paese Lontano funziona grossomodo cosí…

Sto dormendo profondamente. All’improvviso un casino indefinito, extrasistole da “cosa sta succedendo??” poi capisco: é il telefono. Nella confusione mentale del sonno interrotto allungo una mano chiedendomi perché mai il mio cellulare stia suonando per avvisarmi che la batteria é carica al 100% e solo dopo qualche secondo mi rendo conto che si tratta invece di una chiamata.

“Proonntooo?” “ProntoNicolachiamodallagenziaTalDeiTali!” sono rallentata io o é accelerata lei? capisco solo agenzia. Non per altro, ma perché nella costruzione inglese la parola agenzia occupa l’ultimo posto nella frase. Fortunatamente é la parola chiave e capisco di cosa si tratta. “Sí, mi dica!” “Nicola, potresti lavorare oggi per uno special dalle 7 alle 19 al San Vincenzo, reparto 10 Ovest?” “Si, certo!” “7-19 al S.Vincenzo, 10 Ovest” “Certo, certo, va benissimo!” “Grazie Nicola, buona giornata” “Buona giornata!” riaggancio. Bene! Dalle 7 alle 19, reparto… merda! Li richiamo. “Pronto, scusi, sono Nicola… qual era il reparto?” riaggancio. Dunque, 7-19 reparto 10 Ovest del… merda!! Li richiamo. “Pronto… ancora Nicola… e qual era l’ospedale??” Non ce la faccio! Andiamo, oggettivamente, sono pretenziosi loro a pensare che la mia mente, naturalmente settata sull’italiano nel sonno, possa capire e registrare ben tre dati a due secondi da un risveglio brusco… é inumano!

Mi siedo sul letto e guardo l’ora: 6.03. Onnnoo!! Correre! Mi butto addosso dell’acqua e una divisa, maledico la me di ieri che pensando “figurati se mi chiamano domattina!” ha deciso di non stirare la camicia, maledico ogni bottone della camicia e le mie fisiologiche difficoltá di coordinazione delle 6 del mattino.

E intanto devo pensare, cercare di concentrarmi e valutare quale sia la scelta migliore: bici o treno? Bici o treno? L’ospedale dista quasi 8km da casa mia, ci metto circa 40 minuti in bici; la mia bicicletta pesa quanto un Ciao e, poichè qui non ci si cambia a lavoro, se mi impegno rischio di arrivare con la divisa fradicia di sudore; se non mi impegno o se mi cambio in ospedale rischio di arrivare in ritardo; in ogni caso rischio di non arrivare affatto, dato che non ho tempo per fare colazione e l’unica energia a cui posso attingere mi é data dall’ansia di arrivare in ritardo. Bici o treno? Bici! Mi si chiederá perché non il treno… non dimentichiamo che con questo tipo di contratto non ho la certezza di quante ore lavoreró in un mese, non sono che un’immigrata che lavora a giornata come i braccianti del Mississippi, non posso certo permettermi il lusso di pagare il biglietto del treno tutti i giorni! Cosí salto in sella al mio destriero e arrivo trafelata in reparto, dove mi attendono dodici ore quasi ininterrotte di camminata circolare inseguendo un vecchino con demenza armato di deambulatore che mi insulta in macedone e cerca di picchiarmi e mordermi ogni volta che lo trascino fuori dalle stanze degli altri degenti. Dodici ore. Neanche per raggiungere il campo base dell’Everest ho mai camminato tanto in un solo giorno.

E questa è la mia gavetta oltreoceanica nella quotidianitá. Urca, tenete a freno l’ividia!

Devo ammettere che i turni non sono sempre cosí, a dire il vero quello è stato il peggiore. Il piú delle volte il grosso delle mie energie lo spendo cercando di capire il senso del mio esser lí. Ad esempio, quando la consegna é “Ragazzo autistico ricoverato per difficoltá di gestione a domicilio, puó essere aggressivo e violento… non entrare nella stanza” ma come?? “prenditi una sedia e mettiti qui in corridoio davanti alla porta” che, ci tengo a precisare, era chiusa. Non ho passato proprio tutto il turno in corridoio, ma buona parte.

Oppure quando mi chiamano per un signora a cui é stato riconosciuto un discutibilissimo rischio di autolesionismo e il mio compito é quello di stare seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati su di lei e riportare su una scheda di osservazione comportamentale quel che sta facendo ogni quindici minuti. Per dieci ore. Di notte.  “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME DORME…”

Insomma, non si tratta di un lavoro difficile o stancante, alle volte non rischiede piú impegno del semplice esser lí. La difficoltá sta nell’abituarsi al fatto che non si sa quando e se si verrá chiamati e nel trovarsi ogni volta in un ambiente diverso con persone nuove.

Un’altra difficoltá spesso é la consegna: sulla terminologia scientifica e sul vocabolario intraospedaliero il mio inglese ha ancora delle lacune non indifferenti, per cui mi é capitato piú volte di ritrovarmi in situazioni del tipo “La signora é fortemente confusa e allucinata, ha lamentato mal di testa e nausea nell’ultima mezzora, ora sta dormendo. Si mobilizza da sola, ah, occhio: è ad altissimo rischio di aztrugatnat. Ha una dieta per diabetici…” ops, forse non ho solo capito “Alto rischio di cosa?” “Altissimo rischio di aztrugatnat. Che si mobilizza da sola te l’ho detto, poi, ha una dieta per diabetici, mangia da sola…” E’ divertente vedere le ipotesi che formula il mio cervello prima di richiedere spiegazioni. Cosa avrá voluto dire?? Altissimo rischio di cosa? Cosa potrá mai fare la signora a cui devo stare attenta? Sputa? Si nasconde? Si infila le biglie nel naso? Levatele le biglie e non venite a stressare me, diamine!

Nicola