dottore, che Apgar mettiamo?

Posted by Rabuccia on aprile 03, 2010
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L’ ostetricia extraospedaliera, chiamamola così, è sempre stata oggetto di grande timore per gli operatori del 118… ad un certo punto in una piovosa notte d’estate i timori stessi erano diventati cosa concreta…Sono passati tanti anni ma, con un piccolo sforzo, facendo riemergere i ricordi ed il loro sapore come faceva Proust con la sua madeleine nel the… ecco riaffiorare pienamente questo indimenticabile episodio…

Era ancora, per il sottoscritto, il periodo della specializzazione in Anestesia e a completamento ore svolgevo dei turni di 118 in montagna presso il servizio di P. L’attività non era particolarmente affaticante… i codici rossi erano pochi, l’ambiente giovane, e l’esperienza che si accumulava in sala operatoria dava garanzie di sempre crescente manualità… insomma lavoravo sereno con quel candido entusiasmo, quella santa voglia di fare e strafare che tutti noi conosciamo bene…

L’operatrice della centrale fa squillare il telefono in stanza alle tre e mezza di una notte d’agosto da tregenda in cui, proprio in quel momento, un temporale si abbatteva gagliardo su tutta la valle con un repertorio completo di lampi e tuoni…

Quello che nell’obnubilamento del sonno interrotto sentivo al telefono mi faceva subito accapponare la pelle: “C’è una ragazza che sostiene di essere sul punto di partorire nel bagno di casa a B. Alla fine del paese c’è una casa bassa sulla destra… Non sa più cosa fare… Non è venuta subito in ospedale perchè dice di aver nascosto la gravidanza ai genitori… Dottore, sembra quasi uno scherzo a dir la verità, ma bisogna andare a verificare. Tra l’altro ha chiuso il telefono.”

L’operatrice mi dà l’indirizzo completo. Il paese di B. è piccolo e dista dieci chilometri… Il posto è piuttosto semplice da raggiungere. Partiamo con l’ambulanza veloci ma senza troppa convinzione. C’erano stati diversi procurati allarmi provenienti da B. nelle settimane precedenti quindi… onestamente dentro di noi si sperava, soprattutto stavolta, nell’ennesimo scherzo…

Il pensiero di quello che ci poteva aspettare sul posto però aveva spento gli sbadigli molto rapidamente… nessuno apriva bocca… Si, beh dai l’assistenza al parto… più o meno sappiamo cosa fare…
“Hai preso la borsa da rianimazione pediatrica?”
“Si dottore”

Il tergicristallo dell’ ambulanza col suo scrin-scran seguiva in perfetta sincronia la rotazione della luce blu… le case dei paesi lungo la valle del B. sfilavano attraverso dai finestrini… e le facciate e sembravano arcigni spettatori intenti a guardare con dileggio dei concorrenti dilettanti intenti ad una gara troppo grande… Pensieri…

“Abbiamo il kit ostetrico in ambulanza?”
Il mio infermiere stavolta rispondeva con solo un grugnito di affermazione…

L’autista ad un certo punto rallenta, si ferma: “Dottore siamo arrivati. Deve essere questa la casa”
Mentre cercavamo il civico in mezzo allo scrosciar del diluvio, una figura si avvicinava spuntando dal buio dalla nostra destra. Un fantasma. Un lampo illumina la strada… Una ragazza bionda ed alta si avvicinava a noi con in mano un fagotto… In quel momento abbiamo capito che non si trattava affatto di uno scherzo. Scendiamo tutti dall’ ambulanza sotto la pioggia… “Sali, sali… presto…”

Dal fagotto spuntava quella che senza alcun dubbio era una placenta sanguinante…

“Ma cosa hai fatto…!” Non sapevamo cosa dire… La neo mamma era frastornata… e noi anche… “Partite subito che i miei genitori si svegliano…”

Non avevo dubbi: partiamo subito… Distendiamo la ragazza sulla barella. Prendo in mano il fagotto inzuppato di pioggia e e due occhioni azzurri mi fissavano accompagnati da uno di quei meravigliosi sbadigli che solo i neonati possono fare! Il mio infermiere mi fa: “Dottore che Apgar metto sulla scheda…?”

“Apgar?… si,si… ah… si… beh metti 9…!!!”

Apriamo il pacchetto ostetrico e senza pensarci troppo zac! due clamp sul cordone, taglio… controllo che la paziente non sanguini… il bambino non era neanche da aspirare in bocca. Un virgulto di vitalità… Comunicavo alla radio: “Rientro con parto espletato. Avvisate il pediatra reperibile. Neonato vivo con Apgar 9. Codice 2 per la madre”

Il bambino era splendido… Un maschietto biondino… Si guardava attorno con due occhi da aquilotto… Lo tenevo in braccio io… Lo asciugavamo per bene…

“Ma come è successo… perchè? Perchè così?”
“Ho nascosto per nove mesi la gravidanza. I miei me le avrebbero date… ed ora è nato in bagno… nel water… Ho chiamato col cellulare… non mi credeva quella del 118… Ma il bambino non voglio riconoscerlo… non so neanche chi sia suo padre…”

A quelle parole… beh non sapevo davvero cosa dire. Ho stretto il neonato più forte e ho pensato:
“Ce la farai… lo hai già dimostrato!”

In ospedale compilavo il modulo di assistenza al parto obbligatorio sotto lo sguardo incuriosito della ostetrica di turno… Il mattino dopo, smontando dalla guardia, mi recavo io personalmente a registrare la nascita nel comune di B. visto che nessuno si era fatto vedere. Il funzionario del comune che non aveva ben realizzato chi fossi… mi ha chiedeva con curiosità e stupore se ero il padre. “No, no lei scherza! Non sono io il padre ma un pò forse si…! E’ come se lo fossi”

Una notte-di-guardia un pò diversa… dolce ed un pò amara, come la vita.

Rabuccia

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il riflesso di Lazzaro

Posted by Rabuccia on dicembre 20, 2009
racconti / 5 Commenti

Vi sono delle cose di questo mondo che sfuggono nella loro completezza alla umana comprensione. Questo “incipit” tra il solenne ed il banale farà da introduzione per descrivere quelli che lo scrittore H.P. Lovecraft avrebbe probabilmente definito: “I terribili fatti che si svolsero la notte tra il 12 e 13 Agosto 2001 presso i locali della radiologia dell’ ospedale della tranquilla cittadina di ***”.
E non sia casuale il fatto di voler scomodare l’inquietante scrittore. Anche se il mio ospedale è piuttosto lontano dalle nere acque del Miskatonic River il paragone non è né irriverente né esagerato, per quello che, amici lettori, andrò testé a raccontare. 
Il turno di guardia in rianimazione quella notte era apparso fin dal mio arrivo uno di quelli tranquilli. Le consegne delle otto non avevano posto in essere situazioni potenzialmente evolutive e/o difficili da gestire. Il colpo d’occhio sull’emiciclo del reparto era rassicurante. I pazienti erano quattro su nove posti. Tutti e quattro intubati e ventilati. Il leggendario senso pratico del rianimatore, spruzzato di larvato cinismo, gli fa sempre pensare, nel profondo dell’anima che “quando i pazienti sono intubati e sedati si lavora meno”. Questo solo perché la loro condizione è di “stabilizzazione”; in realtà questo è un eufemismo per non dover dire che non c’è bisogno di sedazioni raffinate, e poi quando sono già intubati si può stare tranquilli. Gli infermieri ai monitor conversavano del più e del meno programmandosi il resto della serata e si apprestavano con serenità al cambio turno delle dieci.
I rumors ospedalieri, ovvero quella serie di informazioni non ufficiali che fornivano prove non documentali della esistenza di urgenze in fieri, indicavano una intensa attività del Pronto Soccorso.
Telefono! “Dottore c’è da andare in TAC ad assistere un paziente mal messo appena arrivato”. L’assistenza in TAC è una delle grandi incognite di ogni rianimatore ed è una attività particolarmente temuta. Esiste in effetti un grading pressoché infinito delle situazioni cliniche che ci potrà trovare a gestire. Si va dal trauma cranico lieve in stato di agitazione psicomotoria in cui la abilità rianimatoria è limitata alla capacità di mantenere farmacologicamente legate le membra irrequiete, fino ad arrivare alle grandi catastrofi politraumatologiche in cui si entra rapidamente in un girone dantesco fatto di tubi, monitor, farmaci, comandi imperiosi ecc… La TAC, come è noto agli addetti ai lavori, è luogo di grande pericolosità per il paziente e per chi lo assiste. La destabilizzazione è fortemente condizionata dagli spostamenti fisici, inoltre i compromessi richiesti dai radiologi e le difficoltà ambientali fanno si che molti peggioramenti si verifichino proprio qui, dove si lavora in piena golden hour.
Quella sera avevo trovato però una situazione abbastanza rassicurante: un paziente anziano sveglio già posizionato sul lettino. Il mio arrivo era stato, come sempre, motivo di grande sollievo per il collega del Pronto Soccorso che si affrettava a darmi le informazioni del caso: “E’ un paziente di 77 anni arrivato qui con l’ ambulanza dei volontari di ***. Lo hanno trovato in casa i famigliari. Lui vive da solo. Lamenta dolori addominali e ipotensione. Abbiamo fatto liquidi, messo la dopamina. L’ addome è teso. Potrebbe essere un aneurisma in rottura. Ti ho chiamato perché è instabile emodinamicamente”. Guardo il mio paziente. E’ un vecchiettino pallido, sudato ed ansimante che guarda inerte il soffitto con occhi spenti. Gli si legge in faccia solo la consapevolezza della morte imminente. Non guardo il monitor, faccio come gli antichi colleghi: sento con le mani il polso periferico debolissimo e percepisco la vasocostrizione della cute. Settanta di sistolica con la dopa, obnubilamento sensoriale, dispnea crescente. Intubo senza difficoltà il paziente che con 50 mg di ketamina chiude gli occhi stanchi e vitrei.
Eseguiamo la TAC col paziente intubato, sedato e ventilato. Il radiologo lavora sereno e rapido. Il chirurgo appena arrivato attende il responso sullo schermo con la stessa ansia del giocatore di poker che apre le carte. Su quello schermo si disegnerà presto il destino del paziente. 
“Niente di chirurgico”. Una voce sicura alle mie spalle suggella definitivamente la questione. “Sarà probabilmente una ischemia intestinale. Mi pare fosse tabagista han detto i famigliari. Tabagista e vasculopatico”.
Mentre si discute della diagnosi, il paziente dopo un balletto elettrocardiografico di extrasistoli ventricolari comincia a salutare il mondo disegnando sul monitor una larga sinusoide che di fisiologico non ha proprio più nulla: fibrilla! E via con la sequenza rianimatoria tante volte eseguita: 200 joules col defibrillatore, massaggio cardiaco sul piano della TAC. Vado avanti per un quarto d’ora con tutto il possibile, e con la certezza della inutilità di tutto. Mi fermo. Venti minuti senza ripresa di circolo. Il paziente è esanime ancora in TAC. Il prezioso strumento diagnostico di fronte alla grandezza ed assolutezza della morte, più forte di ogni tecnologia, disegna sopra di lui una sorta di spaventoso catafalco.
Inizio la noiosa procedura della compilazione del foglio di consulenza. Il personale della radiologia si aggira attorno alla salma. E a quel punto accade. Il braccio sinistro del paziente si alza a quarantacinque gradi e dalla sua gola da cui ho tolto da qualche minuto l’ormai inutile tubo si leva un suono dell’oltretomba che risuona strozzato nella stanza. Un grido estremo che nulla ha di umano. I tecnici della radiologia mi gridano contro: ma è deceduto o no il paziente? La mia mente per un attimo vacilla. “Non può essere. Non è mai successo. Abbiamo sospeso la RCP da dieci minuti. Guardo il paziente: è immobile. Il braccio è ricaduto lungo il fianco. Ma il grido l’abbiamo sentito tutti. Sono certo, si sono certo. Son scappati via tutti. Sono solo col paziente che dovrebbe esser morto. Non è possibile! Prendo l’Ambu e per dieci secondi ventilo un paziente a cui sto facendo l’accertamento di morte. Io? Ma cosa sto facendo!Lavoro da quindici anni. Ne ho visti di decessi. Sono un rianimatore. Sono il più profondo conoscitore del confine tra la vita e la morte. Cosa sto vivendo? Un incubo? L’ imperscrutabile? Cosa?
Il paziente resta in asistolia ed in midriasi. Mi fermo definitivamente. Compilo la consulenza. Torno in rianimazione con addosso un senso di gelo e di ignoto, di inconcepibile. Racconto tutto al mio collega di guardia anestesiologica. Mi ascolta e sorride. Poi mi dà una pacca sulla spalla e mi spiega: era il “Riflesso di Lazzaro”. Sono clonie e riflessi spinali post mortem. Il grido altro non era che l’ aria intrappolata nei polmoni che è uscita facendo vibrare le corde vocali, quando si son contratti gli intercostali”.
“Ah si, ho capito. Mi sono un po’ spaventato”. Ma sarà così, penso. Anzi è così.
Solo a ripensare a quel suono dell’oltretomba, un brivido freddo mi percorre ancora la schiena però. Ancora adesso.

Rabuccia

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