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Civitanova – 2

Posted by Herbert Asch on Aprile 14, 2013
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illustrazione di US

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Sospiro 8, Servizio Oncologico (Maria)

Anche la morte è diventata virtuale in questo mondo e nessuno l’accetta più nella propria carne. Quando gli uomini e le donne arrivano qui sono stupiti – soprattutto stupiti – spaventati e certi d’incontrare, nel mio volto, quello della loro morte che ha la mia voce, i miei occhiali e la mia firma sulle loro ricette. Non mi sono mai sentita particolarmente bella, e all’inizio quegli sguardi peggioravano la mia insicurezza, ma ora  ho imparato ad accoglierli e non succede più.

Scelsi l’oncologia perché c’era maggiore probabilità di trovare un posto in specializzazione, e così di avere le carte in regola per fare il medico in ospedale. La laurea a quei tempi non valeva già più niente, e proseguendo con l’inflazione dei titoli, sarà sempre peggio.

Ma allora tutto questo stava solo iniziando e non mi rendevo conto delle conseguenze, sapevo solo che senza specializzazione non sarei andata da nessuna parte e mi buttai dov’era più facile entrare. Da giovani si cerca di avere un posto sicuro, uno stipendio e una casa in cui vivere. 

Spinta da questo iniziai a entrare nella carne impazzita degli esseri umani, quella cannibale e suicida del cancro: l’ho odiata, mi ha terrorizzato, appassionato, stupito, e alla fine l’ho accolta nella mia vita di tutti i giorni. Di quando preparo da mangiare, faccio i compiti coi figli,  li porto in piscina e gli dico buonanotte; di quando faccio all’amore col mio uomo e ci addormentiamo abbracciati. Abitiamo in campagna per fortuna, nella vecchia casa dei suoi nonni che abbiamo ristrutturato e sono contenta che i bambini possano crescere tra piante e animali. Avranno più confidenza con  la vita e la morte  per quello che sono sempre state, anche prima che arrivassimo noi umani. Per me che sono cresciuta in città è stato tutto nuovo quando ci siamo trasferiti e difficile all’inizio, ma ora è come se fossi nata qui. A un certo punto ci si accorge che la vita è un puzzle di pensieri, incontri e scelte che prende forma partendo da tentativi e incastri fortuiti.

Adesso nella mia,  vedo un’oncologa che vive in campagna col marito e i figli e non cambierebbe questo per null’altro al mondo. Mi sorprendo spesso a guardare dal finestrino il paesaggio intorno alla strada che va da casa nostra all’ospedale, e qualche volta mi fermo. I rami degli ulivi cambiano colore sotto il vento d’autunno. Il grande mandorlo fiorito dichiara la primavera. I girasoli sulla collina cantano il coro dell’estate. Il grano d’inverno spunta verde dalla terra bruna. E, ogni anno, mi dico di fotografarlo alto prima della mietitura ma non lo faccio, e so che non lo farò mai per dirlo ancora l’anno che verrà. Cammino sola al margine del campo carezzando le spighe ed è un momento solo mio, bello e terribile come il parto.

A ogni giugno bisogna restituire alla morte i suoi diritti, e tra le spighe mature, la prego di lasciarmi fare ancora questo gioco. L’anno scorso me lo ha concesso, il prossimo si vedrà. In ospedale stiamo insieme tutti in giorni, lei fa il suo lavoro ed io il mio: è bello incontrarsi fuori almeno una volta all’anno. Il grano maturo accanto alla strada racconta la grande fame del mondo, la fatica degli uomini, la speranza e la certezza della morte. Sono le stesse cose che ascolto sul lettino bianco del mio studio (proprio le stesse) ma con un nome, una voce, un gesto.

Nel cassetto ho una penna, una biro da due soldi che conservo gelosamente, me l’ha data un uomo i primi tempi che ero qui… non trovavo la mia per scrivergli la ricetta e lui con un sorriso mi porse la sua dicendo che a lui non serviva più. Era un sorriso vero e buono che mi ritorna ogni volta che guardo le spighe mature. Quell’uomo chinò dolcemente il capo alla falce prima che la grande fame del suo cancro mordesse con troppo dolore… La fame, la fame delle cellule impazzite è insaziabile e primitiva. Ė la forza originaria della vita, che senza più regole reclama nutrimento solo per se stessa. Per lei non esistono l’organismo e gli equilibri necessari alla vita ma solo l’istinto di moltiplicarsi e mangiare. Il flagello delle locuste o le fauci degli squali sono solo  le altre facce  della stessa fame che conoscono tutti. Ma quando è all’interno del corpo, sono soltanto io a vederla e il risultato non cambia: finito il cibo, finisce anche la vita e il cancro muore con il suo ospite. A volte si riesce a vincere (molti usano il verbo vincere al posto di guarire; a me non piace). Altre volte, si costruiscono delicati compromessi tra  morte e vita, che anch’io chiamo tempi di sopravvivenza. Sono le lunghe trincee dove ho imparato a conoscere  donne e uomini, senza cessare di sorprendermi della loro infinita diversità. A volte abbiamo combattuto insieme, altre abbiamo solo aspettato, altre sono rimasta sola nella terra di nessuno perché anche  non volere alleati è un diritto. Quello che non riesco a spiegarmi è come mi vengano lesinate le munizioni con la fondata ragione che costano troppo ( i farmaci anti tumorali sono costosi!).

Mi chiedo come sia possibile che non possiamo più pagarli, e penso che qualche altro cancro sta divorando le nostre risorse. Certi umani sono affamati come le cellule di un tumore, ma più intelligenti. Dopo aver divorato l’organismo di una società migrano altrove su un aereo privato senza suicidarsi nel cadavere che lasciano. Sono metastasi che diventano più immortali ad ogni fuga. Nonostante squali e cavallette umani, continuo a carezzare il grano per il dovere della vita che lo semina e il diritto della morte che lo falcia. Perché alla fine, con o senza munizioni, quando ogni arma è inutile e anche la trincea scompare, l’uomo è in un luogo senza nome che non somiglia ad altro; è solo e possono raggiungerlo soltanto le parole care, i volti amati. Restituire alla morte i suoi diritti è l’abbraccio che lo accompagna fin dove può sentire.

 

Quando siamo venuti al mondo, mani delicate ci hanno stretto al cuore nell’abbraccio di benvenuto: dev’esserci lo stesso abbraccio anche quando ce ne andiamo, se vogliamo che la morte riconosca ancora donne e uomini.

 

 

 

tratto dal libro “Buongiorno Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti – gli utili di vendita andranno all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno

 http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

 

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Posted by il guardiano on Ottobre 31, 2008
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“Ivàn Il’ìc ogni tanto faceva venire Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po’ stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri; semplicemente, con una soavità che inteneriva Ivàn Il’ìc. In tutti gli altri la gagliardia, la forza vitale, la salute offendevano Ivàn Il’ìc; soltanto la forza vitale e la salute di Gerasim non amareggiavano Ivàn Il’ìc, anzi lo calmavano.

Il maggior tormento di Ivàn Il’ìc era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento… Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe, stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola… era un orribile tormento per Ivàn Il’ìc. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo. L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso «decoro», che Ivàn Il’ìc aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno, voleva capire la sua situazione. Soltanto Gerasim capiva la sua situazione e aveva pietà di lui. Perciò Ivàn Il’ìc stava bene soltanto con Gerasim. Stava bene, quando Gerasim, a volte per delle notti intere, rimaneva con lui, tenendogli le gambe sollevate, e non voleva saperne di andare a dormire: «Lei non si preoccupi, Ivàn Il’ìc» diceva, «ho ancora tempo per fare una bella dormita,» o quando, aggiungeva all’improvviso, passando al «tu»: «tu sei malato, e hai bisogno di me, no?» Soltanto Gerasim non mentiva, era sicuramente l’unico che capiva di che cosa si trattava e che non riteneva necessario nasconderlo, e si limitava ad avere pietà di lui, del suo padrone debole e sfinito. Una volta venne fuori a dire a Ivàn Il’ìc, che cercava di mandarlo via:
«Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei farlo?» e, dicendo questo, voleva significare che quella fatica non gli pesava, proprio perché lo faceva per un uomo che stava morendo, nella speranza che anche per lui, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso”.
Da “La morte di Ivan Il’ìc” di L. N. Tolstoj.

il guardiano

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