vita

Paura di morire – 2

Posted by Herbert Asch on maggio 19, 2014
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il dirupo

Ma non ho mai pensato di farla finita così. Mai pensato che ammazzarsi fosse la risposta.

Non si è liberi di morire, perché non si è nemmeno liberi di vivere. Non veniamo al mondo per essere soli. Siamo fatti di legami, di relazioni, di storie.

Essere padroni della propria vita non significa decidere quando morire. Non ci sono notai o atti di proprietà che certifichino chi siamo e cosa possediamo, anche se da sempre gli uomini si angustiano con nomi, documenti e genealogie.

Fosse solo la paura del dolore a spingermi, basterebbe un passo oltre questo muro. No. Nell’ultimo pezzo della mia esistenza voglio riconoscere ciò da cui dipendo, prima di staccarmene. Voglio essere la parte di storia che ho dimenticato. Voglio essere il ramo che si piega verso il suo tronco. Appartenere è l’unica libertà a cui aspirare.

da “Sangue mio” di Davide Ferrario

Herbert Asch

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Medicina che racconta – 2

Posted by Herbert Asch on marzo 19, 2014
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foto di NC

foto di NC

“In fondo, la medicina non può consolare, ma aiuta a raccontare la storia definitiva di una vita. Sapere come una persona è morta rende più facile ricordare com’è vissuta. E una volta che la medicina ha finito di fare quanto può, sono le storie che vogliamo e, da ultimo, tutto quello che abbiamo.”

Lisa Sanders -“Ogni Paziente Racconta la sua Storia – L’Arte della Diagnosi” Einaudi ed., 2009

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Civitanova – 2

Posted by Herbert Asch on aprile 14, 2013
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illustrazione di US

illustrazione di US

 

Sospiro 8, Servizio Oncologico (Maria)

Anche la morte è diventata virtuale in questo mondo e nessuno l’accetta più nella propria carne. Quando gli uomini e le donne arrivano qui sono stupiti – soprattutto stupiti – spaventati e certi d’incontrare, nel mio volto, quello della loro morte che ha la mia voce, i miei occhiali e la mia firma sulle loro ricette. Non mi sono mai sentita particolarmente bella, e all’inizio quegli sguardi peggioravano la mia insicurezza, ma ora  ho imparato ad accoglierli e non succede più.

Scelsi l’oncologia perché c’era maggiore probabilità di trovare un posto in specializzazione, e così di avere le carte in regola per fare il medico in ospedale. La laurea a quei tempi non valeva già più niente, e proseguendo con l’inflazione dei titoli, sarà sempre peggio.

Ma allora tutto questo stava solo iniziando e non mi rendevo conto delle conseguenze, sapevo solo che senza specializzazione non sarei andata da nessuna parte e mi buttai dov’era più facile entrare. Da giovani si cerca di avere un posto sicuro, uno stipendio e una casa in cui vivere. 

Spinta da questo iniziai a entrare nella carne impazzita degli esseri umani, quella cannibale e suicida del cancro: l’ho odiata, mi ha terrorizzato, appassionato, stupito, e alla fine l’ho accolta nella mia vita di tutti i giorni. Di quando preparo da mangiare, faccio i compiti coi figli,  li porto in piscina e gli dico buonanotte; di quando faccio all’amore col mio uomo e ci addormentiamo abbracciati. Abitiamo in campagna per fortuna, nella vecchia casa dei suoi nonni che abbiamo ristrutturato e sono contenta che i bambini possano crescere tra piante e animali. Avranno più confidenza con  la vita e la morte  per quello che sono sempre state, anche prima che arrivassimo noi umani. Per me che sono cresciuta in città è stato tutto nuovo quando ci siamo trasferiti e difficile all’inizio, ma ora è come se fossi nata qui. A un certo punto ci si accorge che la vita è un puzzle di pensieri, incontri e scelte che prende forma partendo da tentativi e incastri fortuiti.

Adesso nella mia,  vedo un’oncologa che vive in campagna col marito e i figli e non cambierebbe questo per null’altro al mondo. Mi sorprendo spesso a guardare dal finestrino il paesaggio intorno alla strada che va da casa nostra all’ospedale, e qualche volta mi fermo. I rami degli ulivi cambiano colore sotto il vento d’autunno. Il grande mandorlo fiorito dichiara la primavera. I girasoli sulla collina cantano il coro dell’estate. Il grano d’inverno spunta verde dalla terra bruna. E, ogni anno, mi dico di fotografarlo alto prima della mietitura ma non lo faccio, e so che non lo farò mai per dirlo ancora l’anno che verrà. Cammino sola al margine del campo carezzando le spighe ed è un momento solo mio, bello e terribile come il parto.

A ogni giugno bisogna restituire alla morte i suoi diritti, e tra le spighe mature, la prego di lasciarmi fare ancora questo gioco. L’anno scorso me lo ha concesso, il prossimo si vedrà. In ospedale stiamo insieme tutti in giorni, lei fa il suo lavoro ed io il mio: è bello incontrarsi fuori almeno una volta all’anno. Il grano maturo accanto alla strada racconta la grande fame del mondo, la fatica degli uomini, la speranza e la certezza della morte. Sono le stesse cose che ascolto sul lettino bianco del mio studio (proprio le stesse) ma con un nome, una voce, un gesto.

Nel cassetto ho una penna, una biro da due soldi che conservo gelosamente, me l’ha data un uomo i primi tempi che ero qui… non trovavo la mia per scrivergli la ricetta e lui con un sorriso mi porse la sua dicendo che a lui non serviva più. Era un sorriso vero e buono che mi ritorna ogni volta che guardo le spighe mature. Quell’uomo chinò dolcemente il capo alla falce prima che la grande fame del suo cancro mordesse con troppo dolore… La fame, la fame delle cellule impazzite è insaziabile e primitiva. Ė la forza originaria della vita, che senza più regole reclama nutrimento solo per se stessa. Per lei non esistono l’organismo e gli equilibri necessari alla vita ma solo l’istinto di moltiplicarsi e mangiare. Il flagello delle locuste o le fauci degli squali sono solo  le altre facce  della stessa fame che conoscono tutti. Ma quando è all’interno del corpo, sono soltanto io a vederla e il risultato non cambia: finito il cibo, finisce anche la vita e il cancro muore con il suo ospite. A volte si riesce a vincere (molti usano il verbo vincere al posto di guarire; a me non piace). Altre volte, si costruiscono delicati compromessi tra  morte e vita, che anch’io chiamo tempi di sopravvivenza. Sono le lunghe trincee dove ho imparato a conoscere  donne e uomini, senza cessare di sorprendermi della loro infinita diversità. A volte abbiamo combattuto insieme, altre abbiamo solo aspettato, altre sono rimasta sola nella terra di nessuno perché anche  non volere alleati è un diritto. Quello che non riesco a spiegarmi è come mi vengano lesinate le munizioni con la fondata ragione che costano troppo ( i farmaci anti tumorali sono costosi!).

Mi chiedo come sia possibile che non possiamo più pagarli, e penso che qualche altro cancro sta divorando le nostre risorse. Certi umani sono affamati come le cellule di un tumore, ma più intelligenti. Dopo aver divorato l’organismo di una società migrano altrove su un aereo privato senza suicidarsi nel cadavere che lasciano. Sono metastasi che diventano più immortali ad ogni fuga. Nonostante squali e cavallette umani, continuo a carezzare il grano per il dovere della vita che lo semina e il diritto della morte che lo falcia. Perché alla fine, con o senza munizioni, quando ogni arma è inutile e anche la trincea scompare, l’uomo è in un luogo senza nome che non somiglia ad altro; è solo e possono raggiungerlo soltanto le parole care, i volti amati. Restituire alla morte i suoi diritti è l’abbraccio che lo accompagna fin dove può sentire.

 

Quando siamo venuti al mondo, mani delicate ci hanno stretto al cuore nell’abbraccio di benvenuto: dev’esserci lo stesso abbraccio anche quando ce ne andiamo, se vogliamo che la morte riconosca ancora donne e uomini.

 

 

 

tratto dal libro “Buongiorno Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti – gli utili di vendita andranno all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno

 http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

 

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Ciglia finte

Posted by massimolegnani on gennaio 12, 2013
emozioni / 8 Commenti

Foto di MV

Foto di MV

E poi non mi ricordo che cosa avrei voluto dire, che cosa sentivo spingere appena sotto pelle come la terra smossa da una talpa, affiorano tra l’erba montagnole esatte, segno di un lavoro sotterraneo che non vedi, che cosa mi pulsava come l’infiammazione di un livido recente che ti duole e non ricordi dove hai battuto.

È che oggi non è più ieri e noi viviamo di farfalle, le ali silenziose che ti passano davanti e se ne vanno. A volte te le ritrovi nello stomaco o si mantengono a colori vaghi impressi sulla retina, se sai chiudere le palpebre un momento prima che sia tardi. E ti resta come un gusto sulla lingua, insegui quel sapore che non riesci a definire e nel frattempo sfuma. No, non saprei tradurre ora i pensieri che si affacciavano e sparivano, bolle d’ossigeno che dal buio dei fondali svaniscono appena salgono fino in superficie.

So che pompavo aria in due polmoni ignari che non sapevano che farsene dell’ossigeno e comprimevo un cuore che si manteneva immobile e testardo. Avevo voci intorno, quella febbrile attesa del primo pianto che irrompe con la vita nella sala a trasformare l’ansia in risa. Ma ancora non si ride. Passano i minuti, non avviene la magia di tante volte, e presto arriva il punto in cui la vita diventa più rischiosa della morte. Il primo battito interviene in quel momento, un istante prima della resa. Allora sei costretto ad andare avanti a testa bassa, riprendi questa vita con le unghie e la consegni al bilico del caso.

Questi i fatti, nudi come quel bambino che non voleva vivere. Ma non saprei dire che cosa mi passasse per la testa in quei momenti, ho il ricordo d’impressioni, sensazioni contrastanti, pensieri nobili e ignobili, farfalle e pipistrelli che svolazzavano e svanivano.

E forse è un bene questo silenzio della memoria breve, perché troppi hanno parlato in questi giorni fingendo di sapere esattamente il bene e il male e facendo credere che davvero gli importasse della vita di qualcuno.

A me resta la sensazione di un errore a non essermi fermato un momento prima della vita, che adesso quella vita sarà un calvario lungo che impiegherà degli anni a ritornare morte.  E poi, al polo opposto, ho in mente il senso d’euforia balorda che mi prende dopo e che prescinde dal bene e il male. Non è solo sollievo di cose andate per un certo verso bene, è un assurdo desiderio di compensazione al consumo d’emozione, il diritto ad un rimborso, qualunque sia, le labbra di un’infermiera senza nome che incontravo quando alzavo lo sguardo dal lettino, il sorriso rubato ad occhi sconosciuti, lo sguardo indecoroso su un dettaglio di qualcuna che lascia che io guardi.

Così per qualche ora mi muovo sballottato tra due estremi, poi tutto svapora in un metabolismo accelerato. Oggi mi rimane l’impressione che davanti agli occhi mi siano passate le farfalle ma non ne ricordo più il colore.

 

massimolegnani

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il miracolo della vita

Posted by sognatore on agosto 10, 2009
testimonianze / 2 Commenti

Per me, studente infermiere al terzo anno e ormai prossimo alla laurea, era il primo giorno in un reparto di ostreticia. Un mondo nuovo, carico della gioia di teneri pianti felici, di genitori emozionati e cuccioli d’uomo che vedevano la luce per la prima volta. Era strano. Per me abituato al dolore e alla morte dei miei pazienti, ritrovarmi in quel posto.
“Andiamo” mi disse l’infermiera di quel giorno “c’è un parto”. E così la seguii come un cucciolo impaurito.
Era la prima volta che assistevo al miracolo della vita, che vedevo nascere una bellissima e sanissima bambina, che sentivo i suoi pianti e vedevo le lacrime di gioia dei neogenitori.
“Sognatore” disse l’infermiera mentre mi porgeva la bimba “tocca a te farle il bagnetto”. E così feci, con quel prezioso fagotto che mi sembrava più prezioso del tesoro dei setti mari, delicato come un calice di cristallo.
Lavo la piccola, le medico il cordone e faccio la profilassi con vitamina K e collirio, faccio gli auguri ai genitori ed esco dalla sala parto. Tremo, non riesco a smettere, sono emozionato. Eppure ormai avevo sviluppato un bel sangue freddo… avevo visto persone aperte come polli nelle sale operatorie, politraumatizzati, ustionati e morti nel pronto soccorso, ma era la prima volta che assistevo di persona a quel miracolo.
Mi metto nella mia stanza, parlo con l’infermiera per un pò. Lei esce un attimo e torna con la piccola nata poco prima
“Sognatore, la mamma è a fare la visita dal ginecologo, guarda la piccola per un’pò io vado dalla capo sala”
Un attimo di panico, io e lei da soli. La guardo nella sua culla, si sveglia e comincia a piangere.
La prendo in braccio, comincio a canticchiare un paio di vecchie canzoni d’amore. La piccola si calma mi sembra quasi di vedere un sorriso abbozzato sulle sue piccole labbra. Sento gli occhi lucidi, a stento riesco a trattenere una lacrima di commozione.
La mamma entra mi vede, mi immagino la scena: un ragazzone di un metro e ottantacinque, taglia 56 di spalle con quell’esserino di due chili e mezzo in braccio. Lei ride
“Sognatore, sei stupendo” mi dice.
Io non rispondo, abbasso lo sguardo e sorrido imbarazzato mentre rimetto la piccola nella culla e la riaffido alla cure della madre.
Sono le otto e mezzo, il mio turno è finito.
La strada è deserta ed il cielo terso e pieno di stelle, mi fermo un attimo a guardarle e le prego di sorridere sempre alla mia piccola assistita.
“Ciao principessa” sussuro “benvenuta in questo mondo”
Mi sento felice, bene come non mi sentivo da tempo ormai. Salgo in macchina e vado a casa, con la consapevolezza che, dentro di me, qualcosa era cambiato e quel perenne senso di solitudine mi aveva, per adesso, abbandonato.

sognatore

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