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La sezione aurea, o costante di Fidia o proporzione divina, indica il rapporto fra due lunghezze disuguali, di cui la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due.[1]
L’uomo, cogliendovi l’ideale di armonia e di proporzione che esiste tra grandezze progressivamente crescenti, o tra contrari dialetticamente connessi, l’ha proposta nel tempo in differenti contesti culturali, creandone un canone di bellezza (aureo appunto, divino): in filosofia, nella musica, in matematica, nelle arti figurative, nel diritto, ma anche in medicina.
Nel Simposio, Platone fa dire al medico Erissimaco che la medicina è proporzione: un pensiero armonico in grado di cogliere la struttura complessivamente ordinata del corpo, analizzandola sia come proporzione delle parti in sé stesse che come equilibrio morfologico e funzionale delle parti tra loro.
Questa idea della proporzione non si fonda sui criteri della scienza galileiana, bensì su quella modalità del pensiero che procede dalla percezione del mondo all’idea del mondo, e viceversa.
In opposizione al principio dell’armonia o della proporzione, ma assieme, costituendone il lato in ombra, un altro principio abita l’animo umano: quello della forza.
La forza reifica l’uomo: lo può uccidere facendone un cadavere, oppure, in un modo ben più prodigioso e tremendo, lasciandolo vivo. In questo caso lo minimizza ai suoi bisogni vitali, ne annulla la vita interiore, gli infligge una morte che si prolunga per tutto il resto della vita.
Il potere della forza di reificare gli uomini colpisce però non solo quelli che la subiscono, ma anche quelli che la usano, poiché questi ultimi ritengono di avere essi sì, essi soli, ogni diritto. Si genera allora una cesura netta tra il forte e il debole che non si riconoscono più come appartenenti alla stessa specie.
In quell’esatto momento, nel momento in cui il forte s’inebria della sua stessa forza, egli valica il limite: crede di possedere la forza. Il λόγος della proporzione ne è ottenebrato.
Ma nessun essere umano, per quanto forte, smette di essere umano e quindi fragile. Così nessuno possiede la forza veramente, e coloro cui è stato dato di usarla periranno a loro volta.
Il corso della vita è tutto rappresentabile in questo moto pendolare: il vincitore dimentica di proporzionarsi al vinto e, reificandolo, è vinto egli stesso. È ridotto egli stesso, dalla forza, a una cosa.
Dalla seconda metà del secolo scorso gli sviluppi conseguiti nei settori della farmacologia e della biotecnologia spingono continuamente la medicina a subordinare la pianificazione delle cure per la singola persona malata al continuo spostamento in avanti dei limiti delle capacità delle scienze biologiche di vincere la malattia e procrastinare la morte.
Di conseguenza, elevare a valori unici di riferimento la riduzione della mortalità da un lato, e il prolungamento della sopravvivenza dall’altro, ha fatto smarrire il senso profondo del concetto di proporzione e il criterio della proporzionalità da esso sotteso – proporzione come misura di sé, proporzione del rapporto, proporzione alla persona – considerati da sempre nella tradizione medica, aspetti essenziali della sua identità epistemologica e etica in quanto criteri costitutivi di una buona medicina.
Di pari passo la forza si è impossessata del pensare e dell’agire medico.
Il curare e il prendersi cura, entrambi espressione di una relazione umana di confine in cui una persona s’impegna intenzionalmente e chiaramente a promuovere il benessere di un’altra, si riducono, in una casistica sempre più ampia, all’esercizio della forza, tramite il quale il termine benessere perde il senso profondo del legame alla misura del possibile, alla sua capacità di essere medio proporzionale tra altre grandezze, per spingersi alla ricerca di un assoluto impossibile.
La rappresentazione e la percezione di questo scenario si sostanziano nell’immagine di corpi reificati, mantenuti in vita meccanicamente nonostante l’evidenza della morte biologica, spesso già avvenuta, di parti paradossalmente essenziali alla vita stessa.
Ma anche chi cura, o chi si prende cura, se non è in grado di cogliere il confine, è reificato e sconfitto dalla forza.
Così, chi cura è anch’esso annichilito dallo spettacolo di quei corpi ai quali si è indissolubilmente legato con il vincolo stesso alla sopravvivenza che gli ha imposto. Egli è obbligato ormai a un crescendo di azioni, sordo a ogni richiamo a rinvenire un senso in quell’agire i corpi dei più deboli.
Come gli eroi superstiti dopo la battaglia, si guarda intorno, e constata che non vi sono né vincitori né vinti, e si interroga.
Si chiede se la sua ύβρις valesse quelle vite amputate o quelle morti.
Anche le domande dell’eroe, tuttavia, appartengono al mondo della forza, perché egli recupera solo a posteriori, nel tono di luce di una coscienza crepuscolare, il criterio della proporzionalità.
C’è infatti un’iterazione nel suo pensiero, ricorrente e circolare; come se la disfatta dell’agito non fosse mai sufficiente a sé stessa per indurre, una volta per tutte, una modificazione dell’impianto morale e quindi della condotta dell’agente. In questi casi l’eroe afferma: “ non ci sono certezze assolute ”.
Simone Weil scrive in un saggio sull’Iliade: “ il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come sé stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. Nulla è più raro di una giusta espressione della sventura.
Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a sé stessi; seppero così toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, purezza, semplicità. Ma nessuno è andato oltre: tanto i Romani che gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana… Anche lo spirito del Vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Il martirio, presentato quasi come una gioia, è frutto d’illusione o fanatismo.
L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima.
La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita.
Il genio epico della Grecia non è risorto nel corso di 20 secoli … Gli uomini lo ritroveranno quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi arriveranno a non ammirare mai la forza … È dubbio che ciò sia prossimo ad accadere ”.[2]
Queste riflessioni indotte da storie estratte da un personale repertorio sperimentato in un reparto di Terapia Intensiva, costituiscono, almeno per me il senso, prosciugato di ogni inutile rivolo, del tema della relazione di cura: riscoprire e assecondare il λόγος della proporzione consentirà di comprendere che senza di esso la cura si riduce a elementare applicazione di una τέχνη terapeutica, cosa appunto s-misurata perché non proporzionata alla persona del malato, ma riferita da un lato alle potenzialità della stessa τέχνη e, dall’altro, alla forza dell’eroe che la usa, inebriata di sé tessa.
Non dunque proporzione per un vero progresso, ma esplosione di forza per un mero sviluppo.
Folfox4
[1]. A. Scimone. La Sezione Aurea. Storia culturale di un Leitmotiv della Matematica. Sigma, Palermo, (1997).
[2]. S. Weil. La Rivelazione Greca. Ed. Biblioteca Adelphi, Milano (2a ed., 2014)