racconti

la signora del letto 9

Posted by il guardiano on Novembre 10, 2008
racconti / Nessun commento

Sicuramente la signora del letto 9 non aveva scelto di finire in rianimazione. Ci si ritrovò suo malgrado, senza neppure sapere perché. La prima impressione che ebbe quando si percepì cosciente, fu di grande smarrimento. Cercò di capire che cosa fosse successo tra gli ultimi momenti dei quali aveva ancora memoria e quello che gli stava intorno. Per prima cosa capì di essere in un altro ospedale rispetto a quello di partenza. Decisamente diverso da tutti quelli che potevano essere gli ospedali che aveva visto fino ad allora. Pensò di trovarsi all’estero. Ma tutti parlavano italiano. Pensò allora di essere in un ospedale italiano all’estero. Uno di quelli all’avanguardia gestito da équipe internazionali. Da una porta sul fondo che era rimasta aperta, vide uno scorcio di cortile o balcone in cui vi erano vasi di gerani; ad un certo punto arrivò un ragazzo allegro, che portò del cibo, e lo lasciò proprio nella zona dei gerani. Proprio di fronte a lei erano appese due meravigliose, grandi fotografie di paesaggi. Pensò a tutti i quadri che aveva visto in passato, appesi ai muri degli ospedali, e si chiese chi mai potesse aver scelto tante immagini brutte, e insignificanti, e perché mai nessuno era mai andato a toglierle. Ma quelle foto erano un’altra cosa. Quelle foto indicavano che qualcuno ci teneva molto a quel posto.

Quando smise di guardarsi intorno, la signora del letto 9 si accorse di essere in una situazione di grande svantaggio. Non riusciva a muoversi, provava dolore, aveva molto freddo, e soprattutto non poteva parlare, senza sapere perché, non poteva parlare. Nessuna delle cose che aveva visto fino ad allora riuscì a dare conforto al suo smarrimento. Si accorse che quante più risposte trovava tanto maggiori sarebbero state le domande senza risposta. E questo la stancò enormemente. Decise di rinunciare a qualsiasi indagine. Si scelse una posizione comoda – doveva riconoscere che quei letti erano favolosi – sprofondò quanto più possibile nel materasso, inclinò la testa da un lato e, chiusa nella sua tana privata, si mise a piangere. Pianse perché si faceva pena, pianse di sé, per sé. Era lei l’unica referente del suo pianto.

il guardiano

Tags:

la mamma di Deborah

Posted by il guardiano on Novembre 05, 2008
racconti / Nessun commento

La mamma di Deborah (con l’h), entrò traballante, sulle gambe corte e arcuate, e con un movimento rapido ma quasi impercettibile, si sedette sul divano di fronte al giovane dottore. Impercettibile perché non c’era molta differenza tra la mamma di Deborah seduta e la mamma di Deborah in piedi. Entrando, non aveva salutato, ma aveva accompagnato il suo ingresso con una serie di parole e frasi, e gemiti, che sembravano parte di un liturgia. Il giovane dottore aspettò una pausa un po’ più lunga fra una litania e l’altra e poi iniziò a parlare di Deborah. Ma aveva appena pronunciato il suo nome che la mamma riattaccò. Sempre più drammatica, e con crescente intensità. Allora, sperando di calmarla il giovane dottore le prese la mano, e le disse che Deborah andava meglio, che si stava svegliando, e che presto avrebbe respirato da sola. La mamma di Deborah rimase per qualche minuto in silenzio e forse in ascolto, ma subito dopo, come se non avesse mai smesso, ricominciò il suo lamento.Loro, i dottori, magari erano bravi e magari no, ma lei sapeva che Deborah non sarebbe mai più stata quella di prima. Gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. Ed era tutta colpa di suo padre, quel bastardo che le aveva fatto fare quattro figlie, e Deborah faceva cinque, senza che mai lei potesse capire che cosa era l’amore. E quando le altre figlie se ne erano andate – puttane pure loro che volevano rubarci tutti i soldi – lei aveva dovuto occuparsi di questa figlia qui che, per fortuna era brava e non faceva male a nessuno. Ma, prima suo padre – che l’aveva mandata a lavorare diosolosadove e le era tornata a casa mezza morta – e poi quel pazzo con il motorino che le era passato addosso, gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. E cosa se ne faceva mai lei adesso di questa figlia morta, e pure risorta, che però non parlava nemmeno più?

Il giovane dottore provò a spiegarle che per la parola era solo questione di tempo, che per il momento Deborah aveva ancora il tubo in bocca che le impediva comunque di parlare. Ma la mamma era già in piedi, pronta ad andare. Aveva sentito abbastanza. Si diresse verso la porta sempre cantilenando, e prima di uscire sorrise al giovane dottore, con quella sua bocca sdentata e storta, gli diede un buffetto sulla guancia e invocò la benedizione del signoreiddio per tutti quanti: per i dottori che le avevano salvato la figlia, e anche per gli anestesisti, che gliel’avevano salvata pure loro, e a posto così.

il guardiano