come dire

Scritta da Herbert Asch su gennaio 22, 2009
cronache

Sarà stato un anno fa più o meno, iniziavo il turno, niente in consegna, un giorno d’inverno qualunque.
Poi il triage del Pronto telefona che arriverà un intubato con l’eli, hanno avvertito.
Scendo a vedere.
Il Pronto, al solito, sembra traboccare, ma qualche buco c’è ancora, liberiamo una postazione, preparo il respiratore, mi accordo con l’infermiere per i farmaci da preparare, solite cose che fai per colmare l’attesa, tenendo a bada il sottile filo d’ansia che ti mette il preallarme: in fondo non sai mai cosa arriva, può essere un paziente normale, anche se grave, ma puoi trovarti anche improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile.
Tutto quel che hanno detto dal 118 è che arriva un trauma da un grosso incidente.
Ci mettono forse un pochino più di quel che ci aspettiamo, ma alla fine distingui le divise rosse con l’imbrago giallo. Sono loro.
Il mar rosso dei pazienti in attesa si apre, arriva l’infermiere che comprime l’ambu, il collega con in mano la scheda che sta finendo di scrivere.
È una donna giovane tutta confezionata a puntino, sulla tavola spinale con la metallina dorata e le cinghie che la fasciano, monitorizzata, intubata, sedata, ventilata.
Il collega che l’accompagna mi riconosce e mi saluta, anch’io facevo parte del circo qualche anno fa.
Mi lascia le consegne: grosso incidente, scontro tra auto e furgone, più altri veicoli coinvolti.
Sul furgone viaggiavano due donne e un bambino dietro.
Gli autisti, feriti, smistati negli ospedali vicini, lei da noi che avevamo dato un posto di Ria. Degli altri non sapeva, erano intervenute anche altre ambulanze
La paziente al loro arrivo era sbalzata nel prato a qualche metro dal furgone, non rispondeva, ma non sembrava avere grossi traumi evidenti. Vista la dinamica e per sicurezza nel trasporto l’ha confezionata come da protocollo e via andare.
Mi dice anche che vicino a lei, nel prato, c’era un bambino 4-6 anni, morto, che viaggiava con lei.
Mi dà i documenti che aveva addosso: nome arabo, nazionalità marocchina, una foto presa col velo.
Veloce programma per la paziente, che tutto subito non mi sembra così critica, i parametri sono buoni, non ci sono evidenze di grossi traumi. Facciamo partire gli esami, un gruppo e prove crociate per ogni evenienza. La porteremo a fare la tac, poi in Ria, su ho posto.
La tac mi tranquillizza abbastanza, per fortuna non ha grosse lesioni, ma decidiamo di svegliarla lentamente e la teniamo lo stesso in Ria monitorizzando l’evoluzione.
Mezz’oretta dopo arrivano i risultati degli esami, e mi telefona il collega del Centro Trasfusionale: c’è qualcosa che non quadra, il gruppo sanguigno dei prelievi fatti su di lei non coincide con quello che risulta per quel nome e data di nascita all’AVIS, tempo fa aveva fatto un piccolo intervento, avevano però fatto il gruppo e la tipizzazione era diversa.
Guardiamo meglio la foto, comparandola al viso ma come riconoscere un volto, per di più con la foto presa col velo…?
Intanto segnalo al poliziotto di guardia che forse il nome non quadra, anche loro mi confermano il sospetto che i documenti appartenessero ad un’altra persona, anche lei coinvolta.

Due ore dopo suonano alla porta, un magrebino piccino, dimesso, la camicia abbottonata senza cravatta, una giacca modesta.
Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già sospetto.
-Mia moglie è qui? Mi hanno detto che l’anno portata qui, ha avuto un incidente-
L’italiano è incerto, parlo lentamente cercando di capire se riesce a comprendere.
Gli spiego che c’è una signora, ma non siamo proprio sicuri di chi sia, non dovrebbe avere grosse cose, abbiamo fatto degli esami, però è meglio per sorvegliarla, aspettiamo che si svegli. Lui dice se può vederla che può riconoscerla.

Lo faccio passare, poi si volta e mi fa la domanda che non volevo sentire:
-e mio figlio? …Anche lui è qui?-

Nicchio che non so, che hanno portato solo lei, ma lui è ancora più inquieto
– allora dov’è, dove l’hanno portato?!-
Dico che mi sarei informato, che intanto se voleva vedere la signora…
Lui va avanti, io passo al bancone, telefono in centrale 118 per sapere il bambino dove l’han portato.
Mi dicono che è nelle camere mortuarie dell’ospedale vicino al luogo dell’incidente, a una cinquantina di chilometri da noi.

Intanto il nostro ha riconosciuto la moglie, e ci spiega i documenti erano dell’altra donna coinvolta nell’incidente.
Lo rassicuriamo che tra poco pensiamo di svegliarla, la teniamo lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio.
-e mio figlio?-
-mi hanno detto che lo hanno portato all’ospedale vicino al posto dove hanno avuto l’incidente-
Intanto telefono al centro Trasfusionale, adesso che ho i dati giusti e al poliziotto.
Lui si avvia verso la porta, dove lo aspetta un altro parente o un amico.

Poi mi richiamano.
Vado alla porta
-ma mio figlio come sta?-
-non so, non mi hanno detto, forse è meglio che chieda laggiù-
Non me la sento di essere io a dare la notizia, non voglio essere io accidenti!
Parlano ancora tra loro.
– L’ospedale è distante e adesso non abbiamo la macchina: ci sono autobus per arrivare là?-
-Non saprei, credo sia lunga… – non so cosa dire e capisco il dramma che sta vivendo questo poveretto. Non voglio neanche che, nell’incertezza delle condizioni si precipiti magari su un taxi, nella nebbia, per una situazione che, ormai non ha più nessuna urgenza. -Vuole che proviamo di nuovo a telefonare?-
-lei può?-
-venga dentro. Proviamo- Tiro in lungo, ma non so cosa fare.
Telefono al Pronto Soccorso dell’altro ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia effettivamente anche un bambino di sei anni morto.
Mi confermano..
L’omino è di fronte a me, e scruta il mio volto in attesa di notizie.
Ovviamente della telefonata non ha capito un accidente, sono stato volutamente scarno di parole.
Metto giù.
Gli sguardi si incrociano.
Lui parte per primo, ma ha cominciato a capire:
-Ma… è morto?-
Stringo la bocca con una smorfia e accenno appena con la testa.
Adesso ha capito anche lui, senza errore.
Ed io preferirei essere, di gran lunga, improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc.

Herbert Asch

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