Ci sono giornate in cui ti senti in guerra col mondo intero, e in cui purtroppo il mondo sembra a un passo dalla vittoria finale.
Le nuove linee guida dell’ASL, la governance, la prossima settimana abbiamo la verifica per la qualità, oddio, saranno a posto tutti i documenti. “Dottore, ci sarebbe da adeguare il massimale dell’assicurazione professionale, perché sa, al giorno d’oggi…” “Dottore, sono la Benedetta, sto facendo i turni delle guardie per il prossimo mese e ho un bel po’ di fine settimana scoperti, mi dà una mano?”
Poi, lavorando in un ospedale, ti capita occasione di scoprire che in fondo molte cose di cui ti preoccupi sono futili, e che l’essere perennemente incazzato come il Dottor House non è un obbligo, ma una scelta, probabilmente la più facile e anche la meno coraggiosa.
Ieri l’ altro ci è arrivata in reparto, inviata dal Pronto Soccorso una paziente di quelle che contraddicono l’Harrison. Se si va a leggere l’illustre tomo alla voce “Sindrome di Down” si scopre che difficilmente i portatori di questa condizione raggiungono età avanzate, per il più rapido instaurarsi di patologie cardiovascolari e per l’accresciuta incidenza di malattie tumorali. La nostra paziente però, Down, sessantaseienne, non ha mai letto quel capitolo, e probabilmente nessun altro capitolo in vita sua, e, come il calabrone del famoso aforisma, a cui nessuno ha detto che con quelle alucce e quel corpaccione è impossibile che possa volare, ha svolazzato più o meno bene fino a questa età.
Fino all’incontro con una malaugurata “polmonite acquisita in comunità”, e adesso giace in un letto di ospedale, con un respiro superficiale e rantolante, e l’abbandono di una marionetta a cui qualcuno ha tagliato i fili. La visito scettico, guardo la parsimonia con cui il numero sale sul display del saturimetro e mi viene da pensare che questa paziente probabilmente non la ritroverò al giro di domani pomeriggio. Imposto ossigeno in maschera, antibioticoterapia ad ampio spettro, broncodilatatore, un po’ di cortisone che non fa mai male.
Fuori dalla stanza trovo un paio di signore non più giovani neanche loro. Mi dicono che sono le cugine “della mongolina”, e curiosamente in quell’appellativo non colgo scherno o disprezzo, ma solo affetto. Sono le uniche parenti ancora in vita, le uniche persone che si preoccupano di lei e la vanno a trovare nella RSA dove è ospitata. Spiego loro che la situazione è grave, che le prime ventiquattr’ore dopo il ricovero sono le più critiche, che purtroppo questi sono pazienti fragili, con risorse più deboli. Le solite menate, insomma. Capiscono, mi ringraziano, sono addolorate e preoccupate, ma fiduciose in noi e in qualche modo anche preparate al peggio. Trovarne, di parenti così.
Il giorno dopo quando entro in turno alle 14 noto qualcosa di strano in Reparto. Lì per lì non riesco a capire che cosa sia: sembrerebbe quasi…
No, è impossibile. Sembra proprio buonumore.
La caposala, che è sempre sull’orlo della crisi di nervi, ha un sorriso sulle labbra. Persino l’aiuto anziano, che da quando c’è il nuovo primario ha sempre l’aria di uno che viene a fare il giro con le scarpe di due numeri più piccole, sta canticchiando qualcosa a mezza bocca.
Già comincio a fare ipotesi sul possibile malfunzionamento dell’impianto di condizionamento che probabilmente mette in circolo un qualche anestetico, quando un infermiere mi fa: “Ehi, Doc, vuol farsi due risate? Perchè non va a dare un occhiata alla 320?”
La 320? Ma è la stanza della mia “mongolina”! Entro e non riesco a credere ai miei occhi.
La moribonda di ieri è sveglia e vispa come un grillo, e, abbracciata ad un enorme coniglio rosa di peluche, ride, ride di una risata limpida e contagiosa, puntandomi contro una sguardo pieno di gioia, della felicità di essere qui, di esserci adesso, più forte dell’Harrison, dei dottori presuntuosi e pessimisti, delle nostre idee preconcette.
E, diamine, è più forte di me, ma scoppio a ridere anch’io.
Morris
Che tenerezza!
Vien proprio voglia di conoscerla questa “mongolina”!