Alto, elegante, profumato, curato; il ciuffo bianco sempre ben lisciato all’indietro, fino all’ultimo; gli occhi chiari e buoni sempre vividi, nonostante la miosi dei giorni vicini alla fine; l’eloquio elegante, gentile, rispettoso come può averlo solo chi è abituato al rispetto della gerarchia, non solo formale ma anche sostanziale. L’ultima settimana l’ha trascorsa quasi muto, senza riuscire ad articolare altro che qualche sillaba afona, qualche smorfia sofferente, qualche lieve lamento: “non fa niente che non riesce a parlare: ci intenderemo a gesti! Le fa male qui? E qui? Mi fa vedere la lingua?”.
Ridotto allo scheletro di sé stesso, mangiato dall’interno da quella stessa belva cui aveva tenuto testa, guadagnando dieci anni di incredibile sopravvivenza (dato per morto un’infinità di volte, si era difeso così strenuamente da sopportare resezioni epatiche, chemioembolizzazioni, termoablazioni ed infine, quando si era ormai constatata la progressione allo stadio multifocale, la chemioterapia e gli scompensi sempre più frequenti, che ne avevano deformato i tratti e l’addome), superando la rottura delle varici esofagee, l’oliguria e l’ischemia che probabilmente ha spento le sue parole, si è consumato lentamente, proprio come una candela, man mano che le funzioni superiori del suo corpo venivano meno.
Sembra ancora così strano non vederlo al mattino, al giro visite; sembra ancora così inconsueta l’assenza del suo nome nella tabella dei pazienti da dividersi; sembra così dolce, delicata, attesa la sua morte da non essere quasi compatibile con l’idea di sofferenza.
Eppure. Che ne so di cosa si agitava nel suo cuore negli ultimi mesi e più ancora negli ultimi giorni, intuendo a cosa sarebbe andato incontro, perfettamente vigile ed orientato, quando alla mia domanda sorridente “come andiamo oggi, Maresciallo?” rispondeva a gesti “e come vuole che vada? Sto morendo”; non potrò mai comprendere quali immagini si dipingevano dietro le sue palpebre quando tentava di gridare di staccare tutto, di non fare più niente, di lasciarlo morire; non sarò mai abbastanza sapiente da discernere se per un uomo sia meglio avere una fibra forte e sopportare settimane di agonia per separarsi dolcemente e poco a poco dalla vita oppure avere un cuore debole, che al primo accenno di edema polmonare, si dispone al riposo.
So per certo però che ho il dovere di non sprecare gli ultimi giorni di vita di un uomo, di non lasciarlo assopito nel suo letto come se fosse già morto, visitarlo come se fosse già morto, toccarlo come se fosse già morto, parlarne come se fosse già morto; mi rendo conto sempre di più che non posso entrare in ospedale pensando di non sorridere: il sorriso è troppo prezioso; loro sentono terribilmente il sorriso, perché dice che non stanno sopravvivendo solo per morire più tardi, solo perché il loro corpo si rifiuta di lasciare la presa ma perché possono ancora ricevere e possono ancora dare. Ci ha ringraziati “per tutto”, con le lacrime agli occhi: a me non hanno fatto paura quelle lacrime, le avevo anche io; mi ha fatto paura la sua paura davanti all’ultimo istante, quella paura che è così ben conficcata nel nostro cuore da avere pudore a vederla negli altri.
E allora l’ho accarezzato, come al solito, come ogni mattina, sulle guance e sulla fronte, gli ho stretto forte la mano e ho sostenuto il suo sguardo perché sapesse che c’eravamo, che lo accompagnavamo e che non aveva sbagliato a riporre la sua fiducia in noi, volendo trascorrere in ospedale gli ultimi momenti, piuttosto che rimanere a morire nel suo letto. Si è congedato da noi con la gentilezza con cui ci si era proposto, dai suoi nipotini con la dolcezza di non rifiutare la loro visita, dai suoi figli con la serenità di sostenere il suo rifiuto all’accanimento terapeutico, dalla moglie con la consapevolezza di aver camminato con lei fin dove poteva.
Ed è morto con qualcuno di noi, perché morire durante un turno di guardia in cui tutti i medici non sono del reparto è troppo brutto. Ed è svanita tutta la sofferenza, tutto l’orrore, tutta la greve atmosfera che pesava su quelle ultime due stanze del reparto: l’altro higlander se n’era andato il giorno prima, nel suo letto. Rimane solo il sollievo, perché tutto è compiuto e i commenti degli infermieri e dei colleghi, “perché era una brava persona”.
Il Maresciallo se n’è andato. Davanti alla morte siamo tutti uguali, non contano titoli, onori, ricchezze ma certi ruoli, ai più fortunati, rimangono addosso per sempre. E se i pazienti sono tutti “Signori”, qualcuno è anche “Dottore”, “Professore”, “Maresciallo”. Da parte nostra, forse, riconoscere questa fusione tra la persona e il ruolo che aveva nella società, persino in un letto di ospedale, è un modo per vedere l’Uomo oltre la malattia, oltre il numero di registro; è restituire all’ammalato la dignità che merita per il solo fatto di stare lì, nudo, davanti a noi, vestiti. Che non sia mai un bieco strumento di potere asservito ad altrettanto immondi favoritismi verso “il Dottore” piuttosto che verso “lo straniero, il tossicodipendente, la casalinga,…”, perché davanti alla sofferenza siamo tutti uguali e ciò che ci distingue è solo quanto riusciamo a non diventare cattivi.
Mentepreziosa
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