La cura dell’agonia – terza parte

Scritta da Herbert Asch su gennaio 18, 2014
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Foto di HA

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In poco d’ ora però i sintomi leggermente migliorati riapparivano l’uno dopo l’altro minaccievoli, era stata una breve sosta, ma le cose volgevano fatalmente a male. Il cuore, sollevato per un momento non si era rialzato, nessun miglioramento si era ottenuto sull’innervazione generale e sovratutto sulla vasomotoria.

Pensai se non era il caso di ricorrere a cardiocinetici più energici di quelli adoperati fino allora, e mi si presentò prima alla mente la caffeina.

Dovevo praticare delle iniezioni di caffeina?

Lo strofanto era stato adoperato invano per tutto il corso della malattia, la digitale sarebbe stata troppo lenta per uso interno, e purtroppo, dalla mia esperienza d’altri casi, poco efficace. Per uso ipodermico sottoforma di digitalina, infida e pericolosa.

Adoperando un cardiocinetico come la caffeina potevo ottenere un aumento della forza sistolica d’ambo le metà del cuore, una riduzione dello sfiancamento e della dilatazione acuta dei ventricoli, che aggiungendosi alla stanchezza ed all’intossicamento della fibra muscolare metteva in così cattive condizioni funzionali l’organo centrale della circolazione. Con questo farmaco potevo forse ottenere una eccitazione del sistema nervoso centrale, prostrato, e con questo anche ottenere una maggiore regolazione vasomotoria, aiuto potente alla circolazione. Avrei ottenuto insomma condizioni circolatorie migliori, combattendo il pericolo immediato della vita, e potevo sperare che di momento in momento diminuisse la causa di tutto il disastro che minacciava.

Praticai una, poi un’altra e poi una terza iniezione di caffeina. Avevo a mano delle ampolline chiuse alla lampada di 25 centigrammi di citrato di caffeina e benzoato di soda per centimetro cubo, molto utili e comode nei casi pressanti

L’effetto fu nullo. Quantunque le iniezioni fossero poco sentite, in quello stato di angoscia crescente, nessun segno dimostrò che esse avessero avuta un’azione qualsiasi, che anzi la forza del cuore andava perdendosi. La cianosi aumentava, al punta del naso e le orecchie si facevano fredde ed affilate, e nell’occhio, ampiamente aperto, si spegneva la vita. La dispnea aumentava, un fremito bronchiale diffuso indicava i rapidi progressi dell’edema polmonare, ripreso rapidamente dopo la breve sosta seguita al salasso. La pressione misurata con l’angioparatlibometro segnava stabilmente 85 millimetri di mercurio.

Poteva migliorare la respirazione con l’ossigeno? Fornendo un’aria più ossigenata potevo- ad onta delle negazioni teoriche, far assumere al sangue una maggiore quantità di ossigeno, e renderlo quindi capace di uno stimolo maggiore su tutti i centri della vita che piegavano. Avrei forse dato loro l’utlima resistenza e la vittoria.

Purtroppo oggidì l’ossigeno non possiamo procurarcelo che a stento e non dappertutto, ed io stesso, in quel frangente non ne avevo che un sacco di una ventina di litri, senza altri apparecchi che un bocchino di vetro per farlo inalare. Cosa poteva valere una goccia d’acqua su quell’incendio?

In trenta o quaranta inspirazioni, volendo fornire realmente ossigeno e non soltanto farne mostra, la provvisione era consumata. Anche calcolando su qualche intervallo in tre o quattro minuti la provvista era finita

L’effetto fu nullo ancora.

Il rantolo tracheale, il polso piccolo, vuoto, molle, l’occhio velato, appannato, mi avvertirono dell’inutilità dei miei sforzi.

(3 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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