All’Asilo dei Vecchi si lavora per difendere la vita. Ma non come in una rianimazione e men che meno come in una neonatologia, perchè è la vita di vecchi, è già vissuta. Si aspetta solo che finisca in qualche modo, non si può fare altro che togliere un po’ di dolore, ma non si riesce mai farli star bene. Facciamo attenzione che non gli vengano le piaghe, che riescano a mantenere i movimenti che hanno ancora, che siano puliti, dignitosi insomma.
Una volta la settimana si proietta un film o qualcuno suona una fisarmonica cercando di mantenere vivo un minimo interesse per la vita, ma solo ed esclusivamente la propria, quella degli altri non esiste più. Il mondo di ogni anziano che abbia ancora un minimo di lucidità e molti acciacchi, inizia e finisce con lui.
Lavorare all’Asilo dei Vecchi significa difendere la dignità della persona al di là del suo stato, per quello che è, se è ancora qualcosa in un involucro sofferente, o per quello che è stato.
All’inizio sembra tutto inutile, perchè sono anziani, perchè non sono più consapevoli, perchè sono aggressivi, perchè hanno un rivolo costante di saliva che gli riga il mento, perchè qualcuno ogni notte fa a pezzi il pannolone e sparge e spalma ovunque il contenuto…
Tuttavia col passare degli anni (per quanto mi riguarda, almeno dieci) scopri e capisci che ciascuno di loro è un personaggio, sia nella lucidità che nella demenza.
Raccontano una storia, la loro certo, ma tutte simili tra di loro. Sembrano brandelli della stessa storia universale, il che mi fa venire il dubbio che possa essere un’anteprima della mia possibile storia, ma anche della tua o di ciascuno di noi.
Allora lo sguardo, il punto di vista cambia e si fa più attento, le orecchie più tese.
Cerco di andare oltre e di immaginarmi quella persona quarant’anni fa, nel pieno delle sue forze quando lavorava in miniera o in fabbrica.
Così mi lascio dare un bacio sulla guancia, per quanto mi faccia un po’ senso. Talvolta afferro una mano che vaga nell’aria anche se è scambiata per quella di una figlia, ma più spesso per quella di una mamma.
Al secondo piano dell’Asilo dei Vecchi c’è Anna, con i suoi 94 anni, una postura perfettamente eretta, lo schema del cammino sciolto e ancora agile senza bastone nè girello. Può salire più volte al giorno quattro piani di scale, ma il suo sguardo è opaco, guarda con sospetto ogni persona che le passa accanto perchè pensa che voglia ucciderla, non parla con nessuno, non partecipa a nessuna attività e, di tanto in tanto, preleva alcuni abiti dall’armadio, li ripone in una borsa di nylon e si siede sulle scale aspettando, a volte anche per intere giornate, un nipote inesistente che la riporti “a la sua casa”.
Al primo piano c’è Giorgio di 68 anni che cinque anni fa ha attraversato la strada ubriaco ed è stato investito da un’auto riportando delle lesioni cerebrali gravissime con gravi conseguenze motorie e cerebro-cognitive. Dopo un lungo ricovero in ospedale, senza figli nè moglie è finito da noi, all’inizio qualche visita sporadica di qualche lontano parente e poi via via sempre più rade. Solo un fratello di tanto in tanto gli fa visita, ma lui sembra non accorgersene, le voci che sente più di frequente sono quelle del personale che si prende cura di lui.
Chissà se pensa, chissa che cosa pensa Giorgio, rannicchiato in posizione fetale, con gli arti raggomitolati e le mani serrate a pugno. Può fare solo delle smorfie quando il dolore, mentre lo mobilizzi o mentre lo lavi, è troppo forte. E’ nutrito con la Peg ed è ovviamente disfagico per cui si dà solo acquagel.
L’altro ieri passando davanti alla stanza di Giorgio, vedo accanto al suo letto Anna.
Mi fermo un po’ stupita e incuriosita mentre Anna cerca di stare sulla punta dei piedi per poter rimboccare le coperte a Giorgio. Ma il letto è di quelli elettrici, alto, con le sponde. Le sue mani artrosiche fanno fatica a passare sotto il materasso e tra le sbarrre.
Intanto gli parla dolcemente, gli racconta di castagne da raccogliere, di mucche all’alpeggio, del dover tornare a casa. E lo accarezza, e Giorgio ha un’espressione beata con gli occhi stranamente aperti. La guarda con una certa espressività che io non gli ho mai visto, addiritttura sembra muovere le labbra e persino gli arti sono un po’ più distesi.
Allora mi avvicino e Anna mi spiega che quello è suo figlio, che lei è lì per curarlo e per riportarselo a casa, ma lui è molto malato.
E’ come se un lampo mi avesse attraversato la mente: ma certo! Quale soluzione migliore per entrambi? e mentre rimprovero tutta la mia razionalità e la mia capacità di pianificare l’assistenza e l’esistenza altrui, capisco che in ciascuno può esserci una soluzione…
A che cosa?
a quello che a noi sembra “IL NULLA”.
Così prendo una poltroncina per Anna, abbasso il letto di Giorgio e tiro un po’ giù le sponde.
Meri
È bellissimo! Grazie. Mi hai fatto ripensare al periodo in cui avevo fatto volontariato in una casa per anziani, ho ritrovato ben scritte e sentite tante sensazioni e tante storie che anche io avevo un poco vissuto…
Grazie per avermi fatto vedere sotto un’altra ottica la vecchiaia, i miei vecchi futuri
I vecchi… se solo ogni tanto scendessimo dal caos della giostra odierna per sederci più spesso su una panchina al parco accanto a loro e ascoltassimo di più….. altro che televisione, internet e compagnia bella…
Ciao Meri, sono un medico e ogni tanto dò un’occhiata a questo sito.
Volevo ringraziarti; come è facile essere presi dalle procedure, dai tempi ristretti, dalle cose da fare! E invece non dobbiamo mai dimenticare il cuore (nostro e degli altri). La cura e l’assistenza devono partire da qui e dallos guardo che abbiamo sugli altri. Grazie ancora per avermelo ricordato e buon lavoro.
é bello sapere che ci sono colleghi che pensano in maniera profonda e riescono con le parole ad esprimere concetti ed emozioni che toccano il cuore. Grazie, abbiamo bisogno di persone come te.
Il dubbio è sempre con me : potendo scegliere, invecchiare e finire dimenticati o quasi, immobili o quasi, o forse sarebbe più auspicabile finire prima del decadimento ? La risposta è così mutevole, giorno per giorno…