Mai avrei pensato che sarebbe stato per uno di loro che avrei scritto: uno di quelli che ci mandano talmente complicati che, per consentirgli di sopravvivere, si dovrebbe iniziare a ricostruirli dalla A e finire alla Z. Però non c’è abbastanza tempo. Uno di quelli che arrivano da sconosciuti, con parenti incapaci di raccontare, disattenti, trascurati, incoscienti o soli, con la propria storia dentro la loro bocca chiusa o dentro la loro mente chiusa: lui, laringectomizzato da epoca imprecisata, cachettico, quasi sordo e quasi cieco, brandiva il suo “microfono” con le manine secche e ossute solo per comunicarci con voce da E.T. che aveva male alla schiena. Ma tanto male. E che “Graziella era andata al bagno”: Graziella, l’amore di una vita, mancato l’anno scorso o la nipote?
Lui, talmente magro e asciutto che, a parte i tofi disseminati ovunque, nulla sporgeva del suo corpo. Lui che da (quanti?) giorni non mangiava e non beveva più, che da (solo?) due giorni non urinava più, che (chissà da quanto) pativa una fimosi serrata e dolori atroci e che (forse) aveva perso sangue con le feci. O forse era caduto nei suoi faticosi cambi di posizione. O forse semplicemente era caduto nelle mani sbagliate, che avrebbero dovuto guardarlo, visitarlo, ricoverarlo una settimana prima, almeno, per reidratarlo, nutrirlo, indagare sul perché di quel dolore. Lui, cui non sono bastati litri di liquidi a sostenergli il circolo; che sopportava un 28 di glicemia e un 33.4 di temperatura meglio di chiunque altro abbia visto finora; lui, con esami di laboratorio che definire schifosi sarebbe stato un eufemismo; lui che alla fine, dopo quattro ore, ha smesso di parlarci, lo sguardo fisso, il respiro impercettibile, il cuore spinto solo dalla noradrenalina. Lui che, con la sua manina aguzza e ritorta, quando già il colorito era cambiato e non rispondeva piu’, tentava forse ancora di tenersi aggrappato o forse di lasciare la nostra presa.
Non credevo che sarebbe stato lui a costringermi a scrivere, finalmente: pensavo sarebbe stato uno dei miei pazienti, uno tra quelli che avevo accarezzato e tentato di rassicurare per giorni, dopo la comparsa dei primi movimenti afinalistici; uno tra quelli che con il loro sorriso sdentato mi avevano riempito di consolazione perché “quando vedevano me, vedevano la loro speranza”; uno tra quelli cui avevo stretto forte la mano per salutarli, sapendo che la prossima volta che li avrei visti sarebbe stata solo per accompagnarli, perché non volevano morire a casa ma in mezzo ai loro dottori; uno tra quelli che avevo visto dimagrire, sanguinare, cadere, lottare, sorridere, piangere, gridare e infine chiudere gli occhi e smettere di respirare.
Invece è stato proprio lui che, con quella sua manina artigliata, mi ha pizzicato il cuore al punto da non poter più dire che avrei scritto la prossima volta, un’altra volta, perché in fondo non ho niente di speciale da dire, niente che non sia stato già visto, già detto o già scritto.
Ma non riesco ad abituarmi. E soprattutto non voglio farlo.
Non posso dimenticare quella manina.
Mentepreziosa
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