Me, non mi devono svegliare nel cuore della notte, che poi resto sfasato un bel tot di ore. Il meglio lo do fino alle tre del mattino, saltabecco qui e là con la freschezza di un cameriere a inizio turno, viaggio veloce per le scale come avessi una pila duracell e mi destreggio tra barelle e culle con la lucidità di un campione di scacchi che gioca una simultanea contro quindici avversari.
Ma dopo quell’ora è nebbia in val padana.
I miei colleghi ormai lo sanno e rinunciano ad un aiuto che sarebbe solo sulla carta. Se la cavano da soli, maledicendomi in silenzio e io nel sonno m’impegno a registrare una lieve irrequietezza, un doveroso sprazzo d’incubo partecipe dell’affanno altrui.
Ma ogni tanto c’è qualcuno nuovo che non sa come gira il nostro mondo e chiama. E allora son dolori. Non che io faccia sfracelli con l’incauto, è che faccio pasticci con chi non c’entra.
Come due ore fa, quando mi hanno scaraventato giù dal letto che erano le quattro del mattino.
Corro a sciacquarmi la faccia e a mettermi le lenti e mi precipito in sala parto. Mi precipito per modo di dire perché ho difficoltà a mantenere il pavimento in piano, mi sembra disassato, come anche tutto il resto: è come se vedessi da una parte le cose troppo vicine e dall’altra assai lontane. Penso ad una dispercezione legata al sonno e mi arrabatto a camminare storto con la testa tutta sbilenca per compensare in qualche modo la visione asimmetrica.
Quando, rasentando il muro a palmi aperti, entro in sala parto, tutti mi guardano stupefatti. Peggio del solito, mi redarguisce la vecchia ostetrica, che mi conosce bene. Perfino la donna che sta per partorire e che fino a un momento prima avevo sentito urlare, alza la testa e ammutolisce; certo si sta chiedendo se sono ubriaco e subito riprende a urlare con una disperazione in più. Faccio un cenno con la mano per dire che tutto è sotto controllo, ma non ci credo nemmeno io, figuriamoci loro. Per pura formalità, mi ragguagliano sul caso, la signora è completamente dilatata, dovrebbe partorire da un momento all’altro, ma qualcosa impedisce al feto di procedere. Nuovo cenno di rassicurazione da parte mia, ma il mio tastare gli oggetti usuali come un cieco, non aiuta nella rassicurazione.
D’altra parte, da quel poco che riesco a vedere anche gli altri protagonisti di questa sceneggiata non sono al meglio: il ginecologo è tutto storto da far invidia ad Andreotti e indossa sotto il camice un giubbotto di piumino, che qui ci sono almeno quaranta gradi. Ho il torcicollo, mi dice, ma secondo me è un eufemismo per non ammettere che è proprio messo male; ogni volta che deve controllare a che punto è arrivato il bimbo, compie tre lenti giri su se stesso come si stesse avvitando prima di riuscire a tuffare la faccia all’altezza giusta tra le cosce della signora. L’inserviente di sala non so che le ha preso, ma sembra un tacchino col singhiozzo, ciondola il capo e rincula il sedere in un sincronismo da ballerina di tango. E poi c’è l’infermiera del nido, la Silvietta, una vera bambolina. Se ne sta in un angolo tutta intabarrata nel camice da sala, pronta a raccogliere il bimbo che chissà quando nascerà. Sta lì silenziosa e un poco assente, ma a un certo punto la vedo barcollare. Capisco che sta per svenire e le vado incontro per sorreggerle almeno il capo. Purtroppo con quest’occhio destro che vede in un modo e il sinistro che vede in un altro, manco la presa di circa mezzo metro e sto lì come un portiere dell’Inter a brancicare l’aria mentre la palla, no, la testa della poveretta dà una craniata sul pavimento da far tremare i vetri. La signora interrompe la contrazione, si solleva stravolta sui gomiti e mi dice “mi giuri che non lo prende lei il mio bambino”. Gli altri mi riaccompagnano all’isola neonatale, mi fanno toccare i bordi del lettino e mi pregano di non muovermi più di lì.
Insomma è una tragedia annunciata.
E il bambino non nasce.
E intanto il ginecologo continua ad avvitarsi, il tacchino-inserviente gloglotta, Silvietta sviene e rinviene ogni sette minuti e mezzo e la signora che deve partorire non partorisce.
Io ormai ho smaltito la sonnolenza, ma la mia vista non è migliorata.
Scoccano le sei, arrivano le forze fresche del cambio turno.
Alle sei e un minuto la signora sforna un magnifico bambino e dice, non ce la facevo più a trattenerlo, ma l’importante era arrivare al cambio turno.
Io continuo a vedere male.
Vado a svegliare il mio amico dell’oculistica e gli racconto preoccupato l’accaduto. Lui mi guarda con aria comprensiva e senza accennare a visitarmi dice:
-hai invertito le lenti, coglione!-
massimolegnani
Eccezionale! ..sarà che sono mamma da poco..
Grazie Daniela, spero che il tuo parto sia stato meno disastroso
naturalmente ho calcato un po’ la mano nella descrizione dei personaggi, ma d’altra parte se non si ride un po’ di noi stessi e di chi ci sta intorno, come si fa a essere seri? ml
Davvero bello!Grande dote l'(auto)ironia: è il modo migliore per “guardarsi dentro” in modo obbiettivo …
ridere di se stessi ci avvicina allo specchio in cui guardiamo la nostra faccia e così vederci finalmente spogliati della mimica in cui ci nascondiamo quotidianamente.
si certo bella l’autoironia di quel dottore,ma noi continuiamo a partorie a morire e i nostri figli ad aver problemi di asfissia neonatale,ma nonècolpadinessunoabbiamofattodelnostromeglio!!!!!scusate eh,ma fottetevi
ciao tiziana,
avrei voluto risponderti privatamente, ma non mi è stato notificato il tuo commento, perciò lo faccio qui.
non mi offendo per le tue parole, immagino che se una ha vissuto un’esperienza negativa ha poca voglia di scherzare su queste cose.
credo però che per lavorare seriamente, o almeno con intenzioni serie, si debba essere capaci di mettersi in gioco, di dilatare i propri difetti, di riderne, insomma. e non credo che i difetti della sanità siano i brani come questo.
ciao, ml
c_calati@yahoo.it
ci vivo in sala operatoria, e ci è nato anche mio figlio. e ho anche pianto alla fine, e neanche di gioia, ma proprio di emozione, perchè una cosa è stare al tavolo operatorio, ben altra è starci sopra.. e non per mancanza di fiducia in chi era con me quella notte, ma perchè i pericoli sono sempre tanti e tali che non è possibile essere assolutamente esenti dall’imprevisto o dall’errore.
e a giudicare dallo stile dell’autore, credo si sia permesso di sdrammatizzare ed enfatizzare il racconto in quanto ben conscio che si può sorridere solo se si è pronti ad essere ..pronti a tutto, e tuttavia ben coscienti di essere sempre e solo uomini e donne dentro una sala operatoria.
daniela,
anche a te, per lo stesso motivo, devo parlare qui anzichè privatamente.
lo sprito del brano era quello che descrivi tu.
grazie,
ml
Mi ha strappato un sorriso
se non ci fosse l’autoironia a salvarci?
non credo proprio che i difetti della sanità pubblica siano questi!
credo sia difficilissimo, quasi impossibile, vivere sempre accanto a persone che hanno bisogno di te e non riuscire ad ironizzare un po’ su tutto.
l’ironia serve per lavorare decisamente meglio!
l’autore, qui, ha sdrammatizzato il tutto.
sono convinta che, in reale caso di bisogno, sarebbe stato in grado di prodigarsi con tutto…
grazie!
con un sorriso
gb