Loro

Scritto da Pills il 02 Novembre, 2011
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Mi hanno chiamato per te.

Qualcuno ha avuto la premura di chiamare il 118 per te. Se per dovere, per genuina preoccupazione perché è un amico, un parente, il tuo partner da poco o da una vita…beh, questo non importa. Hanno chiamato e noi siamo arrivati.

Appariamo come facchini della salute con lo zainone, il monitor, la bombola e il porta-aghi. Carichi come muli.

Hanno chiamato per te. Ti abbiamo trovata nel tuo letto matrimoniale. Eri senza tono muscolare, la bocca cadente da un lato, occhi chiusi, colorito grigiastro. Un odore acre e penetrante ci ha segnalato un rilascio degli sfinteri. Il tuo ECG segnava un battito ogni troppi minuti. Siamo arrivati ma tu non ci hai aspettato.

Tuo marito ci ha detto che alle quattro lo hai svegliato perché non ti sentivi bene e che lui ti ha fatto una camomilla e ti ha portata in bagno.

Io e l’infermiera ti abbiamo lisciato la camicia da notte a fiorellini, ti abbiamo messa dritta e ti abbiamo coperta con la trapunta leggera che avevi, con tutta probabilità, appena tirato fuori dall’armadio. I primi freddi avanzano.

Tu invece hai avuto un infarto. Il terzo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non reagivi ai nostri farmaci. Ti abbiamo dovuto legare le braccia per portarti di peso attraverso i tuoi stretti corridoi fino al tuo letto. Tua moglie era inconsolabile. Non ha voluto le goccine.

Tu, eri un poverino. Sei morto solo su una panchina. L’ultima dose ti è stata fatale. Ti avevano dato il Narcan, ma non l’avevi dietro. Eri rannicchiato, con gli occhiali storti. Te li ho tolti e ti ho schiaffeggiato urlandoti: ”Signore? Signore!!! Mi sente?”. È arrivata la polizia, ti abbiamo coperto con una metallina. Eri in un postaccio. Gli unici che hanno avuto pietà di te rannicchiato sulla panchina sono stati due ragazzi gay che hanno chiamato e hanno vegliato su di te fino a che non abbiamo dichiarato il tuo decesso.

Tu invece, primo di tutti, sei stato il più sfortunato. Eri innocente. Niente droga, né alcool. Eri a casa, magari stavi bagnando le piante dopo mangiato. Ti sei sentito soffocare e hai vomitato. Ma non avevi più aria. Eri solo. Ci ha chiamato la tua “fidanzata”. Ti abbiamo rianimato con RCP, 30:2 e tutto l’iter della MSB. Sei stato il mio primo. Ti ho tenuto la mano anche se era palese che non ci fossi più.

Tutti voi, belle o brutte anime non importa, voi siete i pazienti più temuti dal novellino. Ma il “pivello” sbaglia. Voi siete i più tranquilli, i più bravi. Eppure vi temiamo, vi portiamo molto rispetto, vi “coccoliamo” di più.

Fino a che non lascio casa o il luogo del servizio io so che mi hanno chiamata per voi, voi siete una realtà fisica anche se non più psichica. Siete reali, siete i pazienti e io so che il paziente deve essere il mio unico pensiero e deve ricevere la massima cura anche se puzza, anche se non è proprio “pulito”, anche se è da film dell’orrore.

Vi parlerò chiaro, dato che vi ho pensati tutti in una botta: io vi ho curati come se foste ancora vivi. Non ho risparmiato a nessuno una carezza, una sistematina agli abiti, un’occhiata, una ripulita.

Vi ho curati. Siete stati i miei pazienti.

Mi è molto dispiaciuto per voi.

I morti (perché non sono “mancati”, “volati via”, “chiamati”, “scomparsi”) sono i più grandi insegnanti. Ti plasmano in termini di paure antiche dell’essere umano, ti obbligano ad avere tatto ed empatia.

Nessuno può rimanere indifferente davanti alla morte. Puoi metabolizzare meglio, puoi arrovellarti nel pensiero per più tempo, ma prima o poi la tua mente si ricorderà di quel viso, di quel corpo, di quegli odori.

I tuoi morti sono un monito, un moderno “memento mori”.

Trattali come pazienti, perché è quello che sono, e loro ti daranno sempre qualcosa di arricchente in cambio.

Imparerai a conoscere meglio quel tuo compagno di equipaggio con cui non hai parlato mai tanto, esorcizzerai il terrore dei morti che avevi, imparerai come comportarti, raccoglierai frammenti delle loro vite. Tutto ti si sedimenterà nell’animo e nella mente.

E tornerà a galla in momenti inaspettati. E sarà estremamente utile.

Grazie, miei Morti. Vi ricorderò ogni tanto. Ve lo meritate.

Pills

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Tutto all’aria !

Scritto da Magamagò il 24 Ottobre, 2011
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Nell’atrio del mio Ospedale c’è un cartello che dice :
SE IL CANCRO BUTTA ALL’ARIA LA TUA VITA …
Lo leggo ogni volta e non lo finisco mai, perchè per me è stato proprio così, ha buttato all’aria la vita di mio marito, chirurgo, in prima persona, ma anche la mia e quella di mia figlia, e quella di chi ci sta e ci è stato intorno.
Però ora, a ripensarci, ora che è passato un pò di tempo e sembra che le cose siano andate bene, forse quel “buttare all’aria” significa in alto nel Cielo, nel vento, che il Padreterno così abbia voluto rimescolare le carte per darci una “mano” migliore, per ridare alla nostra vita una leggerezza nuova, un soffio vitale nuovo, un’occasione per rinfrescare i valori in cui crediamo, il nostro status di medici, di genitori, di figli o compagni, di persone comunque con tanto bene dentro da donare agli altri e tanto cuore per riceverne altrettanto e di più.
Una “mano” migliore per capire il dolore, per essere veramente empatici coi pazienti i quali sapevano bene che il Male, il dolore, aveva colpito anche noi, che le nostre parole non erano finte, che la nostra testimonianza di vittoria, di forza, non era teorica; caspita! lo avevamo provato sulla nostra pelle … e vivere in un posto relativamente piccolo dove ci si conosce tutti, è stato di grande aiuto per noi e per gli altri.
Così, in fondo, è stata un’esperienza positiva, che ci ha rafforzati, che ci ha fatto crescere, una dimostrazione in più, se ce ne fosse bisogno, che c’è chi sa cosa sia meglio per noi, e per questo gliene siamo grati.

Qualche mattina passo per la porta secondaria per non vedere il cartello …

BEH, NESSUNO È PERFETTO !!

Magamagò

Non me lo hai chiesto direttamente… ma io ero lì ugualmente.

Scritto da Icy24 il 06 Ottobre, 2011
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Premessa: da pochi giorni sono stato assegnato ad un reparto che molti motociclisti ben conoscono: Chirurgia Ortopedica…
Tolto lo stess di dover gestire ventotto pazienti con tre Infermieri (tolti noi studenti che siamo due e per ora poco utili) e un Ausiliare… assurdo… mi sto rendendo conto cosa vuol dire stare dall’altra parte e di quanto, un certo tipo di approccio, faccia davvero la differenza.
Sto anche toccando con mano (è proprio il caso di dirlo) come le persone si rialzino piano piano. Persone che fino a poco tempo fa accompagnavo dal luogo dell’incidente fino al pronto soccorso.
Ecco, se il soccorso è la fase “A”, oggi io vedo la fase “B” (degenza e preparazione all’operazione chirurgica), la fase “C” (L’operazione vera e propria), e la fase “D” il post operatorio con la riabilitazione e, …cavolo!, fa un certo effetto
Qualche giorno fa è entrato in reparto un ragazzo più o meno della mia età: incidente in macchina, aquaplaning e albero preso in pieno;  una gran botta che tra le altre cose ha causato la frattura del bacino all’altezza dell’anca e la frattura di tibia e perone.
È un tipo di soccorso che mi è già capitato e ricordo bene la difficoltà nel gestire il paziente, l’attesa della liberazione dalle lamiere dei vigili del fuoco, la “scarcerazione” del paziente, la stabilizzazione e la corsa in Pronto Soccorso.
È un soccorso che di solito lascia un bel segno, ma che, per come siamo fatti, per come DOBBIAMO fare, una volta consegnato il paziente al DEA la cosa finisce più o meno lì.
E invece no, ora è diverso, perchè “Chicco” (nome di fantasia per un cristiano di almeno una novantina di chili) l’ho visto arrivare e l’ho visto avvicinarsi, giorno dopo giorno alla sala operatoria, ci ho parlato, l’ho visto sorridere e l’ho visto piangere,
L’ho visto scherzare sull’incidente e l’ho visto, stamattina, tornare ad essere piccolo piccolo per la paura dell’operazione che avrebbe affrontato da lì a poche ore. Piccolo e vulnerabile. Così mi son ritrovato a sedermi accanto a un letto e tenere la mano di Chicco mentre si sparava i suoi cinque minuti di paura, lacrime e silenzio. Un silenzio che qui posso rispettare, a differenza dell’ambulanza, dove se il paziente sta zitto troppo tempo, partono le domande per valutarne la coscienza e lo stato di orientamento nello spazio e nel tempo… un silenzio che dice molto, specie sulla paura, che accomuna tutti, di essere “abbandonati” lì dove più si è indifesi.
Un silenzio che oggi, dopo la fine del turno della mattina (06:00/14:00), mi ha spinto a citofonare al blocco delle sale operatorie per chiedere se potevo affacciarmi a vedere come andava l’intervento del bacino (di cinque o sei ore) e della gamba (due ore circa)

E così oggi un Icy che si sentiva MOLTO piccolo è entrato per la prima volta in sala operatoria in una posizione differente da quella sdraiata del paziente; si è messo i calzari, la cuffietta e la mascherina e, una volta varcata la porta della sala, e cercando di assomigliare il più possibile a una delle mattonelle del muro (agli studenti del primo anno non sarebbe concesso entrare in sala operatoria), non ha più levato gli occhi da quell’omone anestetizzato sul quale una bella squadra di chirurghi stava chiudendo l’accesso dell’operazione di ricostruzione del bacino.
Mi hanno pure chiesto di dare una mano nel cambio di lettino operatorio per la successiva operazione alla gamba e mi è stato permesso di assistere da una distanza consona a non disturbare il loro lavoro ma ad apprezzare ogni istante della mia prima operazione chirurgica da spettatore.
Cavolo… ok che al sangue sono abituato, ma è davvero strano vedere come si possa operare su un corpo apparentemente inanimato. Ho sempre saputo che le operazioni ortopediche sono abbastanza cruente e, ad un occhio non avvezzo, anche violente… un paio di volte ho quasi sentito io male al posto suo, che invece se la dormiva alla grande.
E pensare che ho subìto, nel 2002, la stessa operazione…
Comunque, dopo due ore esatte il primario abbandona il campo operatorio e lascia al suo specializzando l’onore e l’onere di chiudere e suturare.
Posso avvicinarmi di più. Sembra così strano che ci sia solo una ferita così piccola, eppure hanno lavorato, internamente, dal ginocchio alla caviglia, con mazzette, trapani, punteruoli, lunghissime punte flessibili. Il corpo di Chicco ha sussultato più volte sotto i colpi di coloro i quali stavano rimettendo a posto quello che l’incidente aveva ferito e menomato. Ma a guardarlo dorme sereno, con respiri spontanei e profondi. È strano…
Lo accompagno verso la rianimazione/terapia intensiva dove lo guardo svegliarsi piano piano. Forse mi vede pure attraverso la vetrata ma tanto domani non ricorderà nulla… io però c’ero, come, con quello scambio di silenzi, mi avevi chiesto…

Esco dal blocco operatorio; levandomi mascherina e cuffietta rifletto su come determinati lavori necessitino per forza di una certa disposizione mentale. Mi affaccio in reparto per andare a cambiarmi e vedo le altre due ragazze del mio corso mentre una cerca di dare un senso al farfugliare di un vecchina che ha tanti di quegli anni da non ricordarselo più nemmeno lei; mentre l’altra cambia per la quarta volta di fila in un ora (mi diranno) la stessa persona senza fare un fiato, anzi, cercando di spiegargli che se avvisa per tempo… basta poco…
Sì… serve proprio qualcosa che si deve avere in dote, altrimenti qui non si resiste più di una settimana!
Non so se continuerò in questo corso di studi… Ortottica mi attende e con lei lo studio di famiglia e un futuro più che sicuro… ma… boh… a me piace questo mondo…
Intanto domani si ricomincia… e ho altri ventisette “Chicco/e” a cui badare insieme agli altri… ventisette storie… ventisette persone… ventisette caratteri… ventisette incazzature e ventisette sorrisi… e uno che ha svalicato la fase “C” per cominciare con la “D”…
Chissà se mi ha visto, dietro a quella vetrata…

The show must go on…

Icy24

Scusi, lei con quanti cuscini dorme?

Scritto da zarianto il 25 Settembre, 2011
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Che domanda è, da fare a un paziente da operare d’urgenza?
Semplicemente si cerca di capire se il malato abbia difficoltà respiratorie, derivanti da problemi polmonari e/o cardiaci, nel caso in cui abbia la necessità di riposare il meno possibile sdraiato. Ciò condiziona l’intera gestione clinica, perioperatoria.
Ma il paziente, seduto sul letto, con le gambe a penzoloni e di spalle, rispetto all’intervistatore, e rivolto verso la finestra, inondata dalla luce di un Sole nascente di una limpida e calda mattina di mezza estate, priva di nuvole e piena di cielo tinto di turchese, non risponde!
La domanda viene ripetuta in modo perentorio e stizzito, da chi, dopo l’ennesima notte di guardia, trascorsa a combattere contro il più agguerrito degli avversari, il sonno, nonché il destino dei malcapitati pazienti, che li vorrebbe tutti morti e che pertanto ha in odio coloro che gli si oppongono con ogni mezzo (ed è per questo che spesso nulla funziona al momento del bisogno: è il fato che si vendica!), chi, dicevo, non vede l’ora di immergersi dentro quel mare di luce naturale, stanco del molesto chiarore artificiale che illumina le ore piccole di noi, operose formiche notturne, ancorchè per poco, visto che dopo qualche ora, quando, cioè, inizierà la giornata degli altri, quelli normali, quelli diurni, crollerà privo di forze sul divano, senza neppure spogliarsi, per risvegliarsi al tramonto, essendosi privato di un altro giorno.
Ed è proprio l’ebbrezza, nel rivedere il cielo azzurro, che proviene dal profondo della stanchezza, di chi proprio non ne può più, quasi a scacciarla, che a poco a poco si trasforma in qualcosa di molto simile alla rabbia, troppo debole per esserlo realmente, perché almeno si preferirebbe non vedere ciò che ancora non si può vivere e non si godrà quel giorno!
Già ma che ne può il malato?  Sicuramente preferirebbe ammirare il paesaggio da casa sua, altro che da un letto d’ospedale e, per di più, con l’allettante prospettiva di subire un intervento chirurgico d’urgenza!
Quindi, con pacatezza, moderazione e tutta l’empatia per chi ha ben altro da perdere che una giornata di sole, gentilmente, di nuovo: “Scusi: lei con quanti cuscini dorme?”.
Ma il malato non risponde.
Nel frattempo si avvicina una ragazza, con la borsa a tracolla e stretta a sé, come se temesse il furto –peraltro possibile, in quel cavolo di posto, soprattutto di notte- col giubbino scuro, estivo, perché a volte anche le mattine estive sono fredde, che rivelano la prudenza di chi è quasi avvezzo ad aspettarsi di tutto e che concede unicamente qualcosa ai calzoni bianchi corti, che arrivano sotto il ginocchio (i “pinocchietti”?), ai sandali infradito e allo smalto nero di mani e piedi.
Contrariato a pensare che si tratti della parente del vicino di letto, il quale, peraltro, dorme profondamente, incurante dei rumori del reparto, procurati appositamente per risvegliare di soprassalto i malati, colpevoli di riposare, mentre il personale, in piedi all’alba, deve già smazzarsi tutto il lavoro mattutino, solitamente il più pesante, parente, immagino questuante richieste assolutamente irreali a quest’ora, mi sovviene un’unica idea: “Che vuole questa, adesso?”.
“Questa”, piuttosto seccata, mi dice “Mio padre è sordo” –come dire: “Non sei nemmeno in grado di accorgertene, sciocco?”. Dopo una notte di lavoro intenso, la risposta, sorprendentemente, è no!
Allora chiedo a lei: “Con quanti cuscini dorme suo padre?”.  “E che ne so. Ci ha abbandonati quando eravamo piccoli. Non lo vedo da decenni”.
Ma allora che ci fa qui “Questa”? Mi chiedo.
I miei toni si smorzano subito, per l’intuizione di trovarsi al cospetto di qualcuno “più grande”. Quella ragazza d’aspetto poco più che adolescenziale è una donna sulla quarantina, sposata con prole, che in gioventù provvide al mantenimento di parecchi fratelli più piccoli, nonchè della madre: vissero tutti del suo reddito, prodotto, in parte, addirittura come emigrante, all’estero, da teen-ager, con la rinuncia finanche agli studi di medicina, di cui è fortemente appassionata!
Ma ciò non le ha impedito attualmente di occuparsi dell’ istruzione dei figli altrui.  Chapeau!
Il padre, ad un certo punto, non li volle e li lasciò. Ma ora, malato, li ha cercati e loro se lo riprendono, perché, come dice lei “Il sangue non è acqua!”.
Finalmente torno a casa, incapace di pensare al sole, al cielo azzurro, al prato verde e via discorrendo.
Quella notte insonne, di dura lotta per la sopravvivenza mia e dei poveracci che mi capitano tra le mani, tra le imprecazioni per l’ennesima urgenza o perché mancano i guanti monouso e i rantoli di chi è giunto a fine corsa mi ha comunque arricchito, poiché qualcuno disse, a ragion veduta, che una bella storia non ha prezzo!
E ripensando ad essa storia, quella che ti sorprende, quella che non ti aspetti di certo all’alba, guadagno sereno il meritato riposo.
E con quanti cuscini dorme il paziente? Boh! Non l’ho mai saputo! Nonostante ciò, però, mi risulta in salute.

“Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore” (F. De Andre’).

Zarianto

Il medico ideale

Scritto da manuele il 12 Settembre, 2011
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(…) Mai che un medico dopo una visita ci dica:
“caro signore mi dispiace, non andiamo per niente bene.
se lei continua così, scusi la sincerità, ma le do pochi mesi di vita.
Perciò è mio dovere parlarle chiaro.
Qui si impone un rigoroso regime di vita. Per cominciare, una dieta ricca di ferro: verdure, latte frutta cotta, carni bianche sono tutte veleno per lei! neanche sentirne parlarne. il suo vitto d’ora in poi si baserà su salumi, selvaggina, paprica, mostarde, molto pepe e molto sale..

Tutt’al più qualche insalatina di cipolla e peperoni, ma solo di quando in quando.

In quanto al bere, mi duole darle cattive notizie, ma acqua succhi di frutta vanno subito dimenticati e per sempre banditi dalla sua tavola.
Vino questo sì e soprattutto che sia buono! E soprattutto whiski, si rassegni amico mio: il whiski è per lei il toccasana: ma sì anche due bottiglie al giorno!!
E ora veniamo agli aspetti della sua vita quotidiana. Come prima cosa mi metterei a letto non prima dell’una di notte, meglio se sono le due. Qualche notte in bianco poi sarebbe l’ideale ma so di non poter pretendere tanto in così poco tempo.
Però il sacrificio più grande caro signore, è di altro genere. Qui sta la base vera della guarigione !
E il rimedio è presto detto: donne, donne, donne ! non ce ne devono essere mai abbastanza. giorno e notte, notte e giorno, bisogna che lei se ne faccia proprio una ragione, e ci dia dentro più che può! ” perchè mai un medico simile non è il mio medico? (…)

Da Dino Buzzati: “Siamo spiacenti di…” (1960)

Manuele

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Primo giorno d’ospedale

Scritto da Magamagò il 30 Agosto, 2011
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Primo giorno d’ospedale, ma non dalla parte del malato inerme, combattuto tra la sua dignità di uomo del Duemila e l’atavica paura dell’ignoto; no, stavolta sono dall’altra parte della barricata, non ancora medico ma sulla buona strada per diventarlo. Per ora sono una studentessa di Medicina che inizia a fare pratica in Ospedale: in gergo si dice internato.

Già, bisogna che cominci anche io a parlare come “loro“.

L’Ospedale: è un posto dove si gioca un’interminabile partita a scacchi con la Malattia, finché lei, la Nemica con la falce lucente, obbedendo a disegni più alti non allungherà la mano dichiarando scacco matto, o più spesso, si ritirerà nell’ombra.

In fondo la scienza ha fatto passi da gigante, e la chirurgia robotica è qualcosa di infinitamente lontano dalla scheggia di quarzo del primo medico preistorico.

Però il camice, il rito della vestizione prima di un intervento chirurgico, lo stetoscopio freddo poggiato sul filo della schiena a scoprire ogni magagna … tutto ciò è solo progresso o anche stregoneria ?

Forse sono solo rituali magici, esorcismi millenari che rivelano la congenita paura dell’uomo di fronte a fatti più grandi di lui.

Tutto vero, analisi socio-psicologica perfetta, ma allora perché ho scelto di diventare medico anch’io? Diamine, perché ho una folle paura delle malattie, no ?!

Dunque primo giorno d’ospedale, e quello che i maligni definiscono “ il mio restauro quotidiano “ è durato più del solito; non perché io sia proprio un mostro, ma purtroppo Madre Natura mi ha dotato di un aspetto in generale che si usa definire giovanile.

Questo vorrà dire che a cinquant’anni sarò ancora una bella signora, snella e fresca, ma presentemente a ventidue anni suonati e con tutta la mia buona volontà, non dimostro più di 15 anni, e pur essendo matura e intelligente, si sa, anche l’occhio vuole la sua parte.

Ed io, fossi un malato, non mi fiderei più di tanto di una dottoressa che con quel camice bianco sembra appena uscita dall’asilo, dimenticando in aula il suo bel fiocco blu.

Quindi: cerchiamo di invecchiarci!

Primo giorno d’ospedale: non bastano occhi per vedere tutto, né orecchie per ascoltare l’anamnesi del paziente letta con voce monotona dal collega: sembra non basti neanche il cervello per imparare tutto ciò che serve.

Ce la farò? Gli avvenimenti della giornata, piccoli e grandi, rimangono impressi nella mia mente non già come sono ma sotto forma di racconto.

Racconto che farò a tutti: ai miei genitori, che quando mi vedono pallida, a luglio, studiare fino a notte fonda su libroni più grossi di me pensano che loro gli anni della giovinezza non li hanno goduti per via della guerra, però neanche io mi sto divertendo.

Racconto soprattutto da fare al mio lui, conosciuto sui banchi di Anatomia (romanticissimo), il primo di mille che caratterizzeranno la nostra vita in comune.

La cosa più bella è che io ho le idee chiare sul mio futuro e il mio primo giorno d’ospedale potrebbe essere anche uno dei tanti fra dieci o vent’anni; sarò più vecchia, più esperta, toccherà a me spiegare agli studenti, ma l’entusiasmo, il senso del dovere, l’amore per la gente, saranno come oggi, anzi di più.

Primo giorno d’ospedale …o forse è solo un ricordo, di quelli che vengono a chi ha i capelli bianchi e il viso rugoso? Chi sono io, la studentessa col camice bianco o la dottoressa quasi in pensione? Devo vivere ancora la mia vita o è già quasi tutta trascorsa? Chi sono io?… Non dovrei pensare troppo, la mente mi si confonde, è colpa della preanestesia, e poi stare distesi sul lettino e attraversare così tanti corridoi con tante porte …ma non si arriva mai? Ragioniamo: sto per entrare in Sala Operatoria, una cosa semplice, lo so, andrà tutto bene, e poi me lo sta dicendo anche questa graziosa ragazza in camice che cammina affianco della barella.

Quant’è giovane, ha una faccia sbarazzina; con quel camice e quel visino più che una dottoressa sembra una bambina dell’asilo, le manca solo il fiocco blu ….Curioso! Mi ricorda qualcuno ma non so chi, la mia mente scivola nel buio, questa narcosi, bisogna che le paarli doopo …doopo, le parl…curios…

( ritrovato tra le mie carte 35 anni dopo )

Magamagò

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Il Direttore

Scritto da rem il 15 Agosto, 2011
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Il direttore tu lo conoscevi quando era giovane, simpatico, disponibile; oggi sembra che gli abbiano messo una scopa di saggina nel culo e che questo lo irrigidisca un poco.

Deve averne passate di ogni, per avere quell’espressione altezzosa, quasi inebetita da chi guarda dall’alto al basso e non vede comunque. Chissà quante ne ha passate per aver perso ogni parvenza di emotività, nulla che rilevi in lui una non so che di intelligenza dell’animo. No è tutto numeri, statistiche, computo orario, ore dovute, ore fatte, minuti di assistenza. Quanti assistenti occorrono per coprire una unità operativa 24 ore su 24, 365 ore all’anno ? A conti fatti, secondo il Direttore che usa le stime della direzione generale, che a sua volta si rifà alle indicazioni dell’assessore regionale, che a sua volta si rifà al ministro della sanità…

Beh, a conti fatti basta un assistente in buona salute, che non mandi malattia, non vada in ferie, non recuperi le notti e lavori i festivi.

Ma come è possibile timidamente gli chiedi? Possibilissimo, ne basta uno giovane non sposato e precario, non c’è problema e quando si esaurisce lo sostituisci con uno giovane non sposato e precario e così via. Semplice.

C’è un rimedio per tutto, una soluzione si trova sempre, basta avere buona volontà e spirito d’iniziativa, avere in mente la mission e la vision e tutto fila liscio.

Il direttore sospetti non sia umano, è un replicante stile Blade Runner, un clone, un Avatar; è stato mandato con una missione specifica (mission appunto): distruggere tutto ciò che trova sulla sua strada, abbattere dall’interno la Sanità Pubblica come uno 007 infiltrato.

Lo pagano bene e può anche essere che non si renda conto di niente, è un fine esecutore di disegni altrui, un fumettista, un artista di second’ordine. Lui ci mette la compostezza, lo stile, il savoir-faire imparato in tutti questi anni.

Ci mette anche la faccia da culo e il culo vero e proprio in cambio di un buono stipendio e qualche soldo sotto banco, ma innanzitutto nutre la sua personalità voracemente vanesia, bramosa di riconoscimento, rispetto, venerazione, ammirazione.

Lui è il capo indiscusso. Se gli capitasse di allargare lo sguardo, di vedere tutto il mondo là fuori che se ne fotte, ne trasalirebbe, ma non un barlume di dubbio si affaccia sui campi desolati della sua sconfinata autostima. Si stima, si piace, vorrebbe baciarsi sulla bocca con la lingua se potesse. Ma capisce anche lui che l’anatomia umana ha delle pecche, dei limiti invalicabili e non può.

rem

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highlander

Scritto da zarianto il 03 Agosto, 2011
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Margherita è una signora di…novantanove anni e mezzo! Ripeto: novantanove anni e mezzo. Vedova, vive sola, in campagna, nei dintorni di una grande città. Spesso, la figlia, ultrasettantenne, le fa visita e le reca aiuto…nell’orto, di cui Margherita si prende amorevole cura; non nelle faccende strettamente domestiche, perché, per quelle, la mamma è del tutto autonoma. Assume una pillola per la pressione e l’aspirinetta. E’ una signora minuta, tutta pelle e ossa che ha attraversato indenne l’intero ventesimo secolo, testimone diretta di due sanguinose guerre mondiali, che, insieme, hanno provocato più di una trentina di milioni di morti e la distruzione di intere nazioni e popoli; della diffusione della penicillina e dei vaccini, che continuano a salvare vite umane; dell’evoluzione dei trasporti, dal cavallo all’ aeroplano e ai veicoli spaziali che hanno condotto l’umanità sulla Luna, gli automi su Marte e Titano e che solo recentemente varcano i confini del sistema solare. Ha vissuto tutto questo, in prima persona! Chissà che potrebbe raccontare! La immagino, di sera, parlare ai bisnipoti degli ultimi regnanti d’Italia, della guerra partigiana e dei bombardamenti, di Carnera, Coppi e Pozzo, della mezzadria, dell’eroico medico condotto del paese che fece nascere i suoi figli e di Papa Giovanni XXIIIesimo. Gli stessi racconti dei miei nonni!
Margherita ha un aneurisma dell’aorta addominale, ovvero una bomba a orologeria nella pancia, pronta ad esplodere da un momento all’altro, provocando un’emorragia quasi sempre mortale. Quando integro, sarebbe anche operabile, in un soggetto più giovane, poiché le statistiche provano che i rischi di sottoporre un ultraottantenne a un tale intervento superano, di gran lunga, i benefici. Quindi, l’aneurisma rimane dov’è e quando si romperà -perché sicuramente si romperà, a meno che il portatore non muoia prima, per altre ragioni- si vedrà.

Un di’ Margherita si reca nell’orto… a zappare la terra, insieme con la figlia. Di pomeriggio, d’un tratto, s’accascia, in preda a un violento dolore addominale. La figlia, conoscendo la probabile causa, chiede immediatamente soccorso e Margherita giunge al dipartimento di emergenza e accettazione dell’ospedale di provincia più vicino, dove vengono praticati antidolorifici ed  effettuate le indagini clinico-diagnostiche del caso, che confermano i sospetti di rottura dell’aneurisma. Le viene spiegato che la cura consiste proprio in quell’intervento sconsigliato in precedenza, cioè ancora in condizioni controllate, che ora sarebbe assai più problematico e rischioso, ma in assenza del quale non vi sarebbe sopravvivenza. Margherita chiede che comunque si tenti di salvarla. E così, il piccolo ospedale di periferia, sprovvisto di competenza specifica, contatta il centro cittadino di riferimento, cui trasferire il caso. Ricorderò sempre l’espressione quasi colpevole, nonché dimessa, del chirurgo vascolare che mi si fa incontro alle ore 22.00 circa, nel corridoio della sala operatoria, dopo aver preso accordi telefonici per il trattamento del caso, che, guardando in terra e allargando le braccia, mi dice: “Che ci posso fare? Me la mandano!”. Così operiamo e Margherita, dopo una esanguino-trasfusione, cioè la sostituzione di tutto il suo sangue con emotrasfusioni, alle ore 06.00 del mattino è seduta sulla barella antistante la sala operatoria, quasi pronta per raggiungere il reparto di chirurgia vascolare, dove rimane per circa un mese (giusto il tempo di guarire da una brutta polmonite insorta successivamente!) per poi tornare alla sua casa in campagna, dove, sei mesi dopo, festeggeremo il suo compleanno!

Ma ricordo altri particolari di quella vicenda, direi quasi surreale e incredibile, se non l’avessi vissuta in prima persona, nell’intima, consapevole e inspiegabile solitudine che si prova durante una lunga notte di guardia, soprattutto nella completa clausura di un blocco operatorio e nonostante si sia circondati dal resto dell’equipe chirurgica. Uno è la faccia divertita del nipote medico che, guardandomi un po’ di traverso, da dietro gli occhiali e con un sorriso sarcastico, sembrava voler dire “Fammi un po’ vedere quel pazzo furioso e incosciente che ha avuto il coraggio di portarla in sala operatoria!”, che è poi esattamente ciò che avrei pensato io al suo posto! In realtà era piacevolmente sorpreso nel ritrovarsi vivo il caro estinto, perché pensava che non avremmo operato.
Il secondo è un articolo di quattro colonne all’interno di un quotidiano di rilievo nazionale, uscito alcuni mesi dopo la nostra vicenda, dedicato non a Margherita, bensì a un ottantacinquenne operato per un aneurisma dell’aorta addominale cresciuto di dimensioni, ma non rotto, trattato in un policlinico,
con tanto di fotografia a centro pagina, del vecchino, seduto nel letto della terapia intensiva che, ahimè, morì alcuni giorni dopo. Margherita ebbe unicamente una colonna sul giornalino del paese, grazie alla nipote fotografa.
E pensare che noi volevamo pubblicare il case report sulla rivista medica
“Criminal Surgery”

Zarianto

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cartoline dall’orlo del vulcano

Scritto da Morris il 02 Luglio, 2011
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Tutti nella vita hanno quello che cercano. Io cercavo una missione. E per i miei peccati me ne hanno dato una“.
Cap. Benjamin Willard (Martin Sheen) in “Apocalypse Now”, F.F. Coppola, 1979.

Oddio, forse come inizio è un po’ pomposo, ma è quello che mi è venuto in mente il mio primo giorno da Dirigente Responsabile del Servizio “Medicina Post-acuti” (si, vabbè, la Lungodegenza) entrando in Reparto.
Dopo anni passati a cercare in qualche modo di ritagliarmi uno spazio mio e di smarcarmi in modo da avere il meno gente possibile sopra la testa, finalmente posso mettere il mio nome sulla tabella in testata al corridoio.
E ora che sono qui, che faccio? Come devo comportarmi per destreggiarmi al meglio in questa sequenza di stanze occupate, sostanzialmente, da poveri vecchi con le 3D (disidratazione, denutrizione, demenza)?
Garantirgli un adeguato apporto di liquidi e di calorie, certo. Evitare che si ulcerino. Cercare di mobilizzarli il prima possibile. Prevenire le infezioni opportunistiche (anche se di tanto in tanto ti tocca di raccogliere un bel fiore di campo come un Clostridio, un Acinetobacter, uno Stafilococco resistente anche alle martellate, in genere gentili omaggi inviati alla zitta dagli altri reparti).
E poi? I posti in RSA dove eventualmente girare quelli che non sono in condizioni di tornare a casa sono sempre meno, e i servizi sociali sono un’entità inafferrabile ed incorporea come la Pace nel Mondo (quando telefoni per cercare un’assistente sociale che ha in carico un determinato caso, la risposta standard di solito è : “E’ in ferie/ è a un corso di aggiornamento/ è in malattia.”).
Quando si avvicina la data della dimissione, pardon, del “reinserimento al domicilio”, di solito ti tocca affrontare parenti che di fronte alla prospettiva di doversi prendere di nuovo carico del cambio pannolini/padella diventano più incazzati dell’orsa a cui hanno toccato i cuccioli; e anche durante la degenza ti tocca affrontare surreali colloqui coi congiunti di poveretti ormai con un piede nella fossa che ti chiedono conto del perché non si fa una TAC o una risonanza “per vedere come sta”.
Senza contare che di tanto in tanto ti capitano situazioni kafkiane come quella della signora trasferitaci dalla Geriatria con una etichetta di “demenza di grado severo”, nonostante conosca persone molto più decerebrate di lei in giro a piede libero per il mondo, cosa che fa sì che a norma di legge non possa essere dimessa perché vive da sola. E siccome i parenti, tutti fuori città , non ne vogliono sapere mezza, ci tocca tenercela finchè il tribunale non delibererà il nome di un tutore legale che potrà occuparsi delle pratiche per trasferirla ad una struttura protetta. E nel frattempo lei ciabatta, sempre più sarcastica, per il corridoio: “Ueh, dottore, allora, me la danno l’amnistia, o mi devo mettere in politica per averla?”
E’ che la lungodegenza è una specie di osservatorio privilegiato di quella specie di Fort Apache che sta diventando il nostro Welfare, assediato dalla crescente pressione di una popolazione di anziani via via sempre più numerosa, con età sempre più alte, con problemi di autosufficienza conseguentemente maggiori, e con famiglie sempre più in difficoltà a farsene carico. Una volta era un punto di onore prendersi cura dei propri vecchi, e quando arrivava il momento, non farli morire in ospedale. Ma erano famiglie con più figli, in cui le donne spesso non lavoravano, e in cui la vecchiaia forse era vista come un traguardo, e non come un disonore come accade invece adesso.
Stiamo in piedi sul bordo del cratere di un vulcano, e facciamo foto da mandare agli amici, pensando che, certo, il vulcano fa paura, ma non si metterà mica ad eruttare adesso. Eppure l’eruzione non tarderà molto, e minaccia di spazzare via il nostro sistema sanitario.
Lo diciamo ai ragazzi che iniziano adesso una professione sanitaria, alcuni dei quali si affacciano a questo blog pieni di belle speranze e di buona volontà, che saranno chiamati a fare, prima ancora che i medici, i “gestori di risorse” e i misuratori della cost/efficacy? Che saranno chiamati a scegliere a chi dare le cure più costose e a chi no, e che fra i “chi no” ci saranno sicuramente i vecchi?
Certo, è una sfida grossa quella che ci aspetta, e bisognerebbe che, nei ritagli di tempo fra le loro mene private i nostri dirigenti cominciassero a farlo capire anche all’ opinione pubblica; sempre che l’opinione pubblica sia ancora in grado di recepire.
L’altro giorno arrivando in corsia mi sono fermato a prendere le consegne dal medico che aveva fatto la guardia di notte, la Grigorieva.
La Grigorieva è una collega di origini russe che viene da noi a coprire dei turni di guardia a libera professione. E’ giovane, carina, molto precisa. E, ahimè, piuttosto carente di malizia. Di ritorno da una vacanza ai tropici, ha portato le sue foto ricordo con una chiavetta e le ha salvate sul computer della medicheria; solo che in quelle foto compare con fidanzato palestrato d’ordinanza, e uno strepitoso microbikini rosso. Così le immagini sono diventate di pubblico dominio presso tutti i bipedi maschi dell’ospedale (in prevalenza in ragione del microbikini, per una minoranza in ragione del fidanzato palestrato), e qualche bello spirito ha perfino suggerito di usarle per il calendario di reparto.
Quindi da allora parlare con lei considerandola solo professionalmente ed in maniera asessuata è diventata una specie di esercizio zen. A me viene più facile se la chiamo per cognome: se socchiudo gli occhi mi viene in mente una robusta ed affidabile badante slava, con grosso modo lo stesso girovita di uno scaldabagno.
La Grigorieva, puntigliosamente, mi espone tutti gli interventi che ha fatto sui nostri pazienti, e arriva infine al caso di una paziente che, ipotesa ed anurica da ieri sera, è stata messa sotto Revivan, con un lieve miglioramento del quadro. Pensando di non aver capito bene, apro la cartella in questione e l’occhio mi cade subito sulla data di nascita sul frontespizio: 1909. Paziente con, lei sì, grave demenza vascolare e un avanzato marasma senile. Praticamente uno scheletro ricoperto di pelle diafana ripiegato in triplice flessione.
“Scusami, Grigorieva, fammi capire, vuoi dire che stiamo tenendo a galla per i capelli con la Dopa una donna di 102 anni?”
Lei mi guarda un po’ sulla difensiva , e fa spallucce.
“E che ci devo fare io ? Quando mi hanno chiamata a vederla ieri sera, e mi sono resa conto che la signora ne aveva per poco, l’ho fatto presente alla figlia. Lei mi ha guardata sconvolta e ha gridato: Ma come, così, tutto all’improvviso?”

Morris

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i mostri

Scritto da alti il 01 Giugno, 2011
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Sono le 3,33 della mia terza notte di guardia…
sarà un segno del destino? Il tempo sembra essersi arenato ormai da giorni, ore, mesi, gli occhi faticano a restare aperti, l’encefalo bisticcia con quel poco di lucidità che mi rimane, insomma, non è che quando faccio il turno di giorno la situazione sia poi tanto migliore, l’encefalo è poi pur sempre quello; comunque è proprio alle 3 e 33 di questa notte di guardia, attaccato a questo computer, che mi chiedo che cosa abbia da guardare quell’individuo dallo sguardo torvo che sembra quasi prendere nota di ogni mio più impercettibile movimento.
Il tempo sembra non passare mai ma questa notte di tempo per distrarsi ne rimane poco, in circa 10 minuti netti, allo scopo di battere ogni record nella digitazione di vocaboli composti, ho registrato:
2 coliche renali (evidentemente le 3,33 è l’ora della colica), 1 otorrea, 1 peritonite, 1 BAV di 3°, che in 10 minuti non è proprio male. Il tempo stimato di attesa attualmente è di circa 4 h e 30 e spero che chiunque abbia mai avuto a che fare con un pronto soccorso riesca ad immaginare quale possa essere il buon umore che accompagna ogni persona in attesa e che sembra aver in questo momento adottato l’infermiere di triage quale punch ball…
Sarà che è la vigilia di natale, sarà che sono le 3,33, sarà che c’è l’influenza circolante e che non sarà suina ma porca maiala quanta ce n’è, sarà che la gente arriva per ogni cazzata ma soprattutto sarà che quello li non la smette di fissarmi un momento, ma io mi infilerei volentieri sotto il mio piumone abbracciato al mio cane e soprattutto sarà pur vero che di notti di guardia su ‘ste divise ne passano tante, ma se ci ricordassimo di lavarle, forse, puzzerebbero anche un po’ di meno… ehi non è che quello mi guarda per la puzza che emana la mia divisa? Eppure l’ho cambiata questa sera.
Ma… lo sapete… l’avevo già detto… forse pure un po’ troppe volte… ma le macchie sulle divise compaiono a iosa, a macchia di leopardo, una ogni centimetro o anche meno ed ogni volta raccontano pur sempre qualcosa. Quella che vi racconto questa sera è la macchia che parla di uno studente infermiere durante un tirocinio presso il SERT.. me lo ricordo ancora, era obbligatorio farne almeno uno o nel meraviglioso ambiente delle tossicodipendenze, o nell’area materno-infantile, a me non piacevano né i bambini malati, ne i tossici sani, però, essendo obbligatorio… Intanto sia chiaro, qui lo scrivo, qui lo denuncio e lo metto nero su bianco, se quello li continua a guardarmi tra qualche minuto mi metto a fissarlo… comunque la macchia questa volta non comparve proprio sulla divisa, piuttosto sulla pelle, nell’anima, nel profondo. Era il primo giorno e sto SERT lo dovevo ancora trovare e voi avete mai provato a cercare un SERT? Passa quasi del tutto inosservato, viene reso il più anonimo possibile, se si potesse lo vestirebbero da albero nel mezzo di un viale alberato o da foglia nel bel cuore dell’autunno; comunque arrivo al luogo indicato con largo anticipo, giro un po’, rigiro un po’, ri-ri giro un po’ e poi sarà che non ho proprio l’aria del bravo ragazzo (in genere se c’è una macchina dei carabinieri mi punta il faro addosso da Km di distanza) sarà che avevo l’occhio un po’ pesto per l’emozione che comunque, ogni nuova esperienza comporta, ma sto SERT non lo trovavo… Così, mi decido ad entrare dentro i locali dell’ASL nell’intento di trovare la mia meta…. (Ma ditemi voi se intanto devo essere continuamente spiato da quell’individuo… sarà un ritrattista..) mi aggiro con indifferenza verso la bollatrice ed affianco una bella ragazza bionda, truccata a sufficienza, occhio azzurro, scarpa con tacco, gonnellina della giusta misura e mi permetto di pronunciare le prime due parole della giornata (purtroppo sono un po’ come le macchine diesel, devo scaldare le candelette e le prime parole riescono sempre come l’emissione di un suono gutturale): “Scusi, il SERT?” 3 decimi di secondo e viene immediatamente compiuto il passo indietro, vengo scannerizzato dalle scarpe ai capelli, ed immediatamente vengo invitato ad accomodarmi verso l’uscita, mi permetto di dire due mah e tre boh ma il tempo di pronunciarli e mi ritrovo fuori, ed invitato o più che altro spinto di forza, verso un corridoio esterno della larghezza massima di 1 metro per percorrere il quale è necessario fare lo slalom tra le cacche di piccione che volano dai cornicioni e camminando con passo laterale (ripensandoci sembra di assistere ad una lezione di aerobica, un po’ come quella cui farò assistere al signore che continua a spiarmi di sottecchi se non la finisce) insomma, dopo le peripezie necessarie arrivo all’ingresso e vengo accolto dentro ai locali del SERT e ovviamente qualificandomi immediatamente come studente infermiere prima di ritrovarmi già con un flacone di metadone in mano…
Beh pensavo di trovarmi chissà quale popolazione di mostri inorriditi dalla dipendenza, il cui sport preferito consisteva nel grattare la guancia dalla incolta barba o rubare il portafoglio del primo venuto ma l’esperienza insegna e anche quella volta ho imparato qualcosa (spero che anche il signore dallo sguardo vitreo impari qualcosa fissandomi), dicevo, anche quella volta qualcosa l’ho imparato, i mostri non erano li dentro, erano tutti li attorno, sono quelli che quel SERT l’hanno ubicato al posto delle camere mortuarie, sono quelle del tipo “la bionda alla bollatrice” sono quelli come il signore che continua a spiarmi perché io da quella esperienza di cose ne ho portate a casa tante, lo spirito che anima gli operatori, la fiducia nelle persone, la voglia di lottare di alcuni e la delusione di non farcela di altri, ma soprattutto mi sono portato a casa la macchia indelebile del preconcetto, non che non ne abbia credo e non che non mi sbagli mai eh, ma brucia accorgersene… e così il signore dallo sguardo apallico si avvicina, il volto serio e lo sguardo deciso non fanno presagire niente di buono, lo sapevo, me la sentivo, respira e conta fino a mille prima di partire e soprattutto niente parolacce, mordersi la lingua, tirare il freno e se proprio non ce la si può fare fanculo all’URP… :”Signore” mi dice “sa… questa notte l’ho osservata… volevo farle i complimenti, vorrei che fossero molti i professionisti come lei”.
Ingoio l’amaro rospo, il boccone velenoso e poi… dicevo… I MOSTRI… eh…

ALTI

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