Per te

Scritto da TNT69 il 06 febbraio, 2017
emozioni / Nessun Commento
Foto di FR

Foto di FR

Non vorresti capitasse mai, ma ecco che improvvisamente, in un tempo sospeso arriva in reparto il tuo collega… ma come paziente. Il problema è che io lavoro in hospice.

Le paure si moltiplicano, le notizie che arrivavano attraverso gli altri e che sembravano ovattate e lontane ora sono realtà che ti spiazza. Come è difficile assisterti, fare del proprio meglio per te che sai cosa faccio. Ogni giorno che passa mentre svolgo le mie quotidiane attività, si moltiplicano i flash di quando le eseguivamo insieme. Tutto è avvenuto così rapidamente, neppure due mesi da quando sei stato a casa per un mal di pancia.

Ed ora sei qui.

E io vivo tutta la mia impotenza e vorrei abbracciarti e farti sentire che non sei solo, che ti sono vicino e che vorrei che tutto fosse solo un brutto sogno.

Ma è la realtà di oggi. Difficile, dura. Ancora non me ne capacito, vivo questa situazione come se fosse surreale. Mi sto difendendo, per non soffrire troppo e rischiare di non poterti aiutare. La fatica è molta, le parole sono poche e sussurrate, ma gli sguardi sono profondi e parlano da soli. Ci sarò, in silenzio,  in questo tempo di attesa per sostenerti in questo percorso ignoto.

E pregherò infinitamente per te.

TNT69

Tags: , ,

Ombre della notte

Scritto da Il Barelliere il 27 dicembre, 2016
cronache / Nessun Commento
foto di EP

foto di EP

 

Domenica notte, freddo e nebbiolina.

“codice giallo –  evento violento in strada – dinamiche non note!”

 Queste le confortanti informazioni, di quello che è ormai il terzo servizio di fila della nottata.

Il target è un po’ fuori dalle nostre classiche zone di intervento: ci vorranno tra i sette e i dieci minuti circa per raggiungerlo, minuti durante i quali confido vivamente siano già giunte sul posto le forze dell’ordine.

Sono le 02:30, le strade della periferia milanese sono praticamente deserte. La sirena rimbomba forte nell’abitacolo e i lampi blu si riflettono nella foschia creando un effetto quasi suggestivo.

Indosso la giacca della divisa, allaccio la cerniera fino al bavero, stringo i polsini e mi infilo un secondo paio di guanti.

Arriviamo nella zona indicataci dalla centrale avendo, come unico riferimento per individuare il luogo dell’evento, un grosso supermercato che si affaccia su tre vie diverse.

Da un lato la ferrovia e dall’altro un grande complesso di uffici.

In giro non c’è un anima. Sembra che il freddo oggi, abbia spinto tutte le prostitute che di solito battono la zona, a starsene a casa al caldo oppure più verosimilmente, i loro clienti, a cercare ancor più calore in questa notte fredda e malinconica.

Notiamo in lontananza un ragazzo di colore che si sporge in strada sbracciandosi per attirare la nostra attenzione. Cazzo, quando si sbracciano così tanto non è mai un buon segno !

Accanto a lui, riverso sul marciapiede, un altro ragazzo, con la testa avvolta da uno straccio completamente intriso di sangue. Che se avessi incontrato ieri avrei scambiato per un fantastico e quanto mai realistico travestimento per Halloween.

Attorno a loro niente e nessuno nel raggio di diversi metri. Sembra l’ambientazione di un horror e se c’è una cosa che ho imparato dai film, è di non andare mai a vedere da dove provengano i rumori misteriosi

L’autista accosta l’ambulanza al marciapiede, scendo con cautela mantenendomi vicino allo sportello , prima di iniziare il soccorso voglio capire se la scena è del tutto sicura o se sussistano eventualmente altri pericoli.

“Cosa è successo ?” chiedo al ragazzo

“No parlo bene italiano” Ci mancava anche questa!  Va bene, dai  proviamo con l’inglese, l’esame da  quattro crediti di “inglese medico” servirà pur a qualcosa .

“What’s happened to your friend? “

Se il mio accento e la mia pronuncia sono pessime, le sue sono ancora peggio. E’ agitato e confuso, da quel che riesco a capire, il ragazzo disteso sul marciapiede è stato colpito alla testa mentre dormivano all’addiaccio vicino alla ferrovia e lui l’ha trasportato fino alla strada e chiamato l’ambulanza.

La prima valutazione del ragazzo non è confortante. Vie aeree pervie e  meccanica respiratoria apparentemente non  compromessa. Gli occhi sono aperti, ma non ha nessun tipo di risposta, in qualsiasi lingua gli si provi a parlare. C’è però reazione allo stimolo doloroso, pupille isocoriche e normoreagenti

Ha due grosse ferite molto profonde a livello dell’arcata sopraccigliare e in regione temporale , dalle quali continua a fuoriuscire parecchio sangue, tanto da aver creato una piccola pozza alla base della testa.

Terzo e quarto predispongono il ragazzo all’immobilizzazione spinale e tentano di frenare l’emorragia. Il compagno continua a muoversi ansiosamente attorno a noi. Cerco di capire meglio l’accaduto e la dinamica dell’evento, visto che per quanto uno possa essere bravo a fare a cazzotti, non ti apre la testa in quel modo a mani nude.

Il suo racconto è confuso : a quanto pare le ferite alla testa sono state inferte con una bottiglia di vetro e non più mentre stavano dormendo, ma durante un diverbio. Ricostruire un’eventuale storia sanitaria è un’impresa ardua. L’unica cosa che continua a ripetere con insistenza è di volere la polizia. Inutile dirgli che la vorrei anch’io tanto quanto lui.

Do uno sguardo ai parametri del ragazzo, che tutto sommato potrebbero essere ben peggiori. La valutazione testa-piedi non evidenzia altre ferite, edemi o deformità. Eseguiamo il rog-roll e lo posizioniamo sulla spinale.

Il sanguinamento alla testa è nettamente diminuito, senza però essersi ancora arrestato.

Finiamo di stringere le cinghie del ragno e ricomponiamo lo zaino sanitario; mentre i rumori di un treno che passa in sottofondo e la luce del lampione che tinge di arancio l’aria, rendono la scena piuttosto inquietante.

Durante il trasporto, le condizioni del ragazzo migliorano. Recupera progressivamente lucidità, anche se appare sempre molto confuso e disorientato.

I carabinieri arrivano che lo stiamo togliendo dalla spinale, dopo che la TAC non ha evidenziato lesioni ed il chirurgo di guardia, brama dalla voglia di ricucirgli la testa.

La tentazione di soffermarmi a parlare con loro, descrivendogli con inutile dovizia di particolari tutto l’accaduto a partire dal nostro arrivo è molta, soprattutto perché fuori c’è da ripulire mezza ambulanza imbrattata di sangue.

Tuttavia  mi metto una mano sulla coscienza e penso all’ottimo lavoro di squadra appena concluso e mi immagino gli altri, indaffarati ed infreddoliti nel ripulire tutti i presidi.

In breve li raggiungo, per scoprire poi che, a quanto pare, aspettavano solo  me prima di iniziare a metter mano a scottex e disinfettante…

Il Barelliere

 

Tags: , , ,

Ascensore

Scritto da Gio il 20 dicembre, 2016
emozioni / Nessun Commento
Foto di EP

Foto di EP

 

Sono in ospedale.

All´ingresso principale due bambini sui tre e sette anni giocano a indovinare quale dei quattro ascensori arriverà per primo e si inseguono e corrono approfittando del fatto che la mamma, intenta a parlare con un’infermiera nel corridoio, non li veda.

Come sempre non posso resistere e ingaggio il gioco con i due piccoli, in due minuti stiamo tutti ridendo a crepapelle.

A un tratto sopraggiunge una donna di circa trent’anni, alta, bionda, carnagione chiara, zigomi alti, labbra naturalmente vermiglie. Indossa un cappotto che lascia intravedere le sagoma di un addome arrotondato dalla gravidanza. Mentre si avvicina il suo sguardo incrocia il mio e lo attraversa, come se non mi vedesse, figuriamoci partecipare alla risata che ho ancora nella coda degli occhi mentre l’ascensore arriva, i bambini tornano dalla loro mamma e io salgo scegliendo il piano del mio reparto.

La donna stringe in mano una scatola di fazzolettini, e guarda dritto davanti a se ma il suo sguardo penetra ciò che ha di fronte più che accarezzarlo. L’ascensore è vuoto, i piani molti, ma lei non fa cenno di notare che siamo solo in due in quello spazio.

Quali pensieri stringono la tua mente?

L’ascensore si ferma praticamente ad ogni piano nel solito calvario, lei rimane in un altro mondo.

Arriva il piano otto, le porte si aprono, lei si muove per uscire.

Ora ho capito, quell’addome non sta per dare alla luce un piccolo ma deve averlo già fatto, forse troppo presto perché quello è il piano della terapia intensiva neonatale.

Mentre scende la donna ha le lacrime agli occhi, ma non distoglie lo sguardo da quel suo orizzonte interiore, da quel suo obbiettivo unico: guardare il suo cucciolo penetrando il plexiglas dell’incubatrice. Guardare avanti, al momento in cui il suo cucciolo non avrà più bisogno del plexiglas per mantenere la sua temperatura, quando basterà il suo abbraccio per scaldarlo, quando, dimenticando le settimane dei dubbi e delle terribili incertezze iniziali, potrà godere della beata inconsapevolezza di tutti i neonati. Ancora più avanti, quando la donna con le labbra vermiglie starà parlando in un corridoio e il suo cucciolo potrà giocare con gli ascensori.

In quell’ascensore ho sentito il tuo dolore, donna dalle labbra vermiglie, la tua speranza, la forza e la fierezza con cui combatti la battaglia per il tuo cucciolo.

Buona fortuna!

Gio.

Tags: , ,

La regola delle tre P

Scritto da Zoro il 19 dicembre, 2016
ritratti / 1 Commento

img_2886

“Una cosa che probabilmente la mattina non farete mai è guardarvi allo specchio e chiedervi: sono uno stronzo? (…) Probabilmente nel mondo ci sono dei veri idioti e di sicuro molti di loro hanno una buona opinione di sé. Non si considerano delle carogne, perché il prendere coscienza della propria stronzaggine è abbastanza difficile.”

Eric Schwitzgebel, dall’articolo ”How to tell if you’re a yerk” Nautilus, 15/9/2016

 

 

Prepotente, Presuntuoso, Paraculo.

Quali migliori caratteristiche per uno che ti lavora a fianco?

Hai sempre sperato di avere accanto una persona (un artista!) che sa di lavorare cosi bene che trova il modo di criticare tutto e tutti, dove, ovviamente, lui, invece, ha sempre la soluzione pronta, il protocollo adatto, la posologia giusta.

E sempre corroborata da una solida biografia, sempre millantata ma mai esibita, spesso controcorrente, a volte inventata di sana pianta, soprattutto quando, palesemente, non esiste. Solo lui, genio incompreso, lavora correttamente, sottolineando puntualmente le tue imprecisioni o presunte mancanze, anzi, puoi essere sicuro che le ha già fotocopiate e documentate e messe da parte nel caso in cui mai avessi per pura invidia, da mettere in dubbio il suo corretto operato.

Di ogni argomento ha la soluzione giusta, ogni diatriba è buona per sparare pareri che nessuno richiede.

Di collaborare poi non se ne parla. Al suo pari non ce n’è, e soprattutto non si fida. Nemmeno c’è nessuno che si voglia prendere l’improbo fardello.

Da buon paranoico ipotizza le complicanze più strampalate: ogni intubazione e difficile, ogni decimo di potassio di deficit prolunga l’inizio dell’induzione, posticipato a situazione riequilibrata, la pre-ossigenazione è un rito iniziatico, cosi come l’incannulamento venoso, precario se fatto da altri e quindi da sostituirsi di default.

L’anestesia è sicura solo se si dispone di tutti i monitoraggi possibili, e quindi non è infrequente una preparazione completa di arteria, vena centrale, intubazione, magari da sveglio e con il fibroscopio… e poco importa se l’intervento è un raschiamento, un tunnel carpale o una cataratta.

Tra induzione e risveglio le sue anestesie durano mediamente un’ora in più, col paziente trattenuto in osservazione per ore, finche non arrivi cambio di turno a graziarlo.

Il suo nemico giurato è il chirurgo, bramoso solo di menare le mani e metterle nella pancia/utero/bocca/schiena (dipende dalla specialità) del malcapitato paziente, di cui il cerusico ignora la vera condizione cinica e che toccherà all’anestesista difendere e tutelare.

La sua è una crociata, una lotta all’ultimo sangue per sottrarre il  paziente alle grinfie dell’orco chirurgo…

Quando poi l’ignaro paziente si lasci scappare in anamnesi il dolorino toracico non indagato, la sincope di ndd, ci penserà lui a infilarlo in un tunnel diagnostico infinito, da cui difficilmente riuscirà indenne, perchè qualcosa che non va si trova sempre.

L’unica cosa che manca, che proprio non si trova da nessun parte è il buonsenso. Di quello proprio non ce n’è…

Zoro

Tags: , ,

Il caffè del morto

Scritto da Salvatore Nocera il 25 ottobre, 2016
cronache / Nessun Commento
Foto di NC

Foto di NC

“Viviamo in una società in cui la morte è un tabù. La si vede al cinema, alla televisione, sui giornali, ma è sempre qualcosa di astratto e lontano che riguarda gli altri. Non se ne parla, non ci si pensa, e quando tocca l’individuo da vicino c’è un lavoro molto profondo da fare per permettergli di affrontarla con maggior serenità.”                                       Marcella Danon

Lavoravo nella guardia medica notturna e festiva.

Saranno state le due di notte.

-È incredibile come a ripensare a quella notte mi sovvenga un sorriso spontaneo che non so trattenere, ma che mi riempie di qualcosa che ancora oggi non saprei spiegare: il mio essere straordinariamente medico malgrado me stesso.-

Dicevo: una notte forse autunnale, non ricordo particolari frescure. Passavo, e tuttora passo le mie notti in guardia medica, a leggere e soprattutto a scrivere – ciò che mi capita – ho questa strana impellenza.

E dunque leggevo, e di sicuro scrivevo e sento suonare il campanello. Naturalmente mi alzo (sempre all’erta!) e anzi scrivere probabilmente mi scarica dall’ansia di dover affrontare comunque, da solo, una notte in cui dal punto di vista medico potrebbe succedermi di tutto.

– e se non fossi all’altezza?, e se mi capita un infarto?, un edema polmonare acuto?, un soffocamento?, una crisi allergica?, uno shock di qualunque tipo? chissà se c’è l’adrenalina – saprò fare la diluizione? E il Kombetin? Il Bentelan da 4 mg o magari il Flebocortid da 500?- …

Mi alzo, all’apparenza flemmatico, e vado ad aprire. Strano spettacolo. Una folla assiepata dietro la porta. Una signora di mezza età:

“Dottore, possiamo entrare?”

Dio mio, che è successo? penso. È esattamente uno di quei momenti in cui si realizza la necessità di affidarmi a qualcuno. Dio, appunto. Oppure al mio angelo custode. Che prego mentre faccio entrare la folla nella speranza che non sia successo nulla d’irreparabile e che io sia in grado di …

“Allora, dottore, posso parlare?”

Per sicurezza mi siedo dietro la scrivania, come al solito quando mi difendo. E la sicurezza cui mi riferisco in realtà è un’auto-rassicurazione. Mi rinchiudo appunto nel mio ruolo, vorrei impedirmi di entrare in contatto – come al solito – con tutte queste persone che mi stanno davanti. Ma cosa vogliono? – il bello è che tutti questi miei pensieri avvengono in un attimo, tra le pause della voce della signora. Mi preoccupo esageratamente come quando sto per entrare su un palcoscenico qualunque durante una qualunque delle mie peregrinazioni artistiche teatrali: letteralmente me la faccio addosso, vorrei scappare, ma poi, all’ultimo momento … eccomi sul palcoscenico, e tutto diventa semplicissimo:

“Forse siamo in tanti, dottore, ma non si deve preoccupare: questi sono i miei figli e le mie figlie, con mogli e mariti …” “E anche nipoti”, dico io. “Dottore, non se l’abbia a male, lo so che è inutile, ma …” La signora comincia a piangere, subito circondata e consolata dalle altre donne, figlie e nuore, evidentemente.

Una di loro comincia a parlare: “Vede, dottore, mio padre sta male, sta veramente male. Oggi è venuto il nostro medico di famiglia e gli ha fatto un’iniezione che lo ha fatto stare bene. Ora però sta soffrendo e non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo che è inutile, ma sa?…” Sembrava avesse ritegno: o forse non aveva il coraggio di chiedermi qualcosa che a me, sicuramente, sarebbe sembrato inutile.

“Mio marito ha il cancro e sta morendo, non sappiamo nemmeno se arriva a domani, per questo le diciamo che è inutile, ma che vuole?, quando si vede un proprio caro soffrire noi vorremmo soffrire al posto suo – e soffriamo anche noi – anch’io, a vederlo soffrire così. La prego, ce la può venire a fare un’iniezione che così sta un poco meglio?”

E va bene, allora partiamo. Non sto lì a discernere se si tratti di un caso di umanità o di un intervento medico vero e proprio. E tuttavia anche il trattamento del dolore in un malato terminale è da considerarsi un intervento medico a tutti gli effetti, oltre che un diritto del malato e dei familiari: le famose cure palliative, il mantello protettivo, il pallio rassicurante.

Io prendo la mia macchina e vado dietro a una processione di altre macchine. Ma sono tutti qui, rifletto, non è che il malato è rimasto solo? Boh. Ha tutta l’aria della prova di un funerale, una sfilza di macchine, io con la mia nel mezzo, l’onore di una scorta ufficiale. Un paio di chilometri. Arriviamo in una strada larga, un agglomerato di case che fa pensare a un grande condominio popolare. Da molte finestre, malgrado l’ora mattutina, traspare la luce tremula di un qualche abat-jour rimasto acceso nell’attesa di un arrivo. Ricorda molto la parabola delle vergini del Vangelo, in attesa dello Sposo che prima o poi verrà a bussare … la storia dell’olio e delle lampade.

Mi indicano di posteggiare la macchina in un luogo facilmente accessibile. Loro posteggiano, abituali. Scendono tutti, mi aspettano. Spengo il motore. Afferro la mia borsa. Scendo. Chiudo. Sto fermo un po’ a guardare quella piccola folla surreale. Mi avvio. In gruppetti di due o tre, si dirigono verso un portone socchiuso, rimasto all’apparenza incustodito, in realtà tenuto continuamente sotto controllo da sguardi molto benevoli che avverto discreti dalle finestre contigue. Saliamo su per una ripida scala in fila indiana. Inevitabilmente il pensiero mi va alla difficoltà di far scendere da lì un’eventuale bara …

“Se muore dovremo scenderlo con le lenzuola”, dice molto lucidamene una delle giovani donne, probabilmente nuora, quasi a leggermi nel pensiero. Emano solo un sospiro e continuo a salire. Arriviamo davanti a uno stretto pianerottolo, su cui una maniglia traballante apre un’esile porta: entrano tutti, tranne la madre, che mi invita ad entrare dopo di lei. Una piccola stanza, un ingressino, un soggiorno lì a lato, un’altra porta, ennesimo rituale: entrano tutti, tranne la madre, che entra subito dopo di me. Entro anch’io. Una luce fioca, illumina appena un letto matrimoniale, disfatto, su cui è seduto, con i piedi incrociati sotto le gambe, un uomo, indefinibile nell’età, non sembra molto anziano, gonfio di cortisonici, uno sguardo cupo, gli occhi scavati, una sofferenza che è negli occhi di tutti, mi si apre una specie di comitato d’onore dentro cui faccio il primo passo. Mi fermo fissando l’uomo che probabilmente non s’aspetta affatto da me l’intervento anti-dolorifico tanto desiderato dalla famiglia, avverto semmai il suo estremo desiderio di farla finita al più presto possibile. Questo mi blocca. Il solito silenzio che mi avvolge quando ho su di me l’attenzione del pubblico da attore consumato. Lo guardo con tutta l’umanità di cui sono inconsapevolmente capace. Due secondi pesanti. Poi, non posso fare a meno di dire:

“Ma quando moriamo?”

Sembra una boutade di cattivo gusto: magari un tantino macabra. Altri secondi muti, pesanti. Ho l’impressione, alquanto da incosciente, di aver detto quello che nessuno di loro, malato terminale compreso, aveva avuto fino ad ora il coraggio di affermare. Improvvisa una risata senza freni da parte del malato:

“Ah ah ah ah!…!” E mentre lui continua a ridere, la madre – cioè la moglie, nella sorpresa generale, si mette a singhiozzare, sotto lo sgomento di tutti. In effetti un po’ mi preoccupo, pensando di averla detta grossa, per questo cerco lo sguardo della madre – cioè della moglie, sperando di trovarvi una qualche rassicurazione. E lei, altrettanto improvvisa, mi dice:

“Oh dottore, non ci crederà, ma sto piangendo perché sono contenta: era da tanto che non lo vedevo ridere così, con gli scàccani.” E tutti le si stringono attorno, per sostenerla, accompagnandola dolcemente ai piedi del letto. Mi avvicino anch’io. Preparo un’iniezione di un comune anti-dolorifico, che somministro solerte. Non so quanto efficace, ma a questo punto un qualunque mio intervento è comunque vissuto da questa famiglia come benefico. Anche il malato mi ringrazia, sorridente. Saluto, mi avvio, accompagnato dalla madre piangente.

Mi rimane ancora qualche ora di questa notte che non finisce più.

Finalmente le otto del mattino. Smonto. Un cielo insolitamente terso. Quasi scappo via, scaricando sull’accensione della Focus SW la mia soddisfazione: tutto sommato, penso, non è andata poi così male – pregustando il caffè che sorbirò tra qualche minuto, nel mio solito bar, tutte le mattine che finisco il turno di notte: la mattina della smonta il caffè è sempre più buono. Ecco il bar. Posteggio, mi fermo, spengo. Scendo.

“Buongiorno, dottore”.

“Buongiorno”. Entro, lo sguardo distratto a un manifesto funerario appiccicato al muro, gocciolante di colla.

“Un caffè”

“Subito, dottore. Nottata tranquilla stanotte?”

“Più o meno, le solite cose”.

“Pronto il caffè.”

Lo sorbisco piano. Buono. Metto le mani in tasca per prendere le monetine e pagarlo, ma il barista mi previene:

“No, dottore, lasci stare: oggi il caffè glielo offro io”

“E come mai?…”

“Non lo so, guardi: mi viene così, sento di farlo, stia tranquillo”

“Va bene, come vuole, grazie”

Saluto e me ne vado. Uscendo, lo sguardo sul manifesto funerario. Stavolta vi riconosco il nome della persona malata di cancro … Sento subito la sua risata inaspettata. Una specie di brivido su tutta la schiena. Che me l’abbia offerto lui, il caffè?

Bracco

Tags: , , , ,

Provare l’ambu

Scritto da Herbert Asch il 25 settembre, 2016
racconti / 3 Commenti
Foto di GP

Foto di GP

Tanti anni fa, circa del 1988, quando ero ancora anestesista implume e ignorante (quest’ultimo lo sono rimasto) fui inviato in consulenza in un ospedalino periferico, monospecialistico medico, che assisteva molti pazienti cronici.

Ad uno di questi pazienti cronici, una SLA con paralisi ormai quasi completa, tracheostomizzato e ventilato, era necessario, mensilmente, sostituire la cannula tracheale, per cui veniva chiesta la nostra consulenza. Ed il compito ovviamente, toccava all’ultimo arrivato. Appunto il sottoscritto.

Mi era stato detto che tutto il materiale era già dal paziente, solo che andassi su.

Quindi finito il mio turno di guardia, sono partito alla volta del nosocomio con qualche dubbio, poiché di cannule, il sottoscritto, all’epoca specializzando al terzo e ultimo anno di A&R, in realtà da solo, non ne aveva mai cambiate. Ma tant’è toccava a me. Bella lì.

Il paziente, pezzo d’uomo anche se ormai consumato, aveva circa una cinquantina d’anni. Comunicava solo più digrignando i denti. Era ventilato con un baraccone che teneva mezza stanzetta, più o meno delle dimensioni di una madia da pane, su cui spuntavano qualche misuratore a lancetta, diverse manopole, dei tubi, un pallone nero che si gonfiava e sgonfiava ritmicamente, e che emetteva rumori pneumatici ritmici, il tutto per effettuare una banale ventilazione volumetrica controllata, e bon.

Neanche quel tipo di respiratore l’avevo mai visto, ma tant’è, non dovevo cambiare nulla e dubito anzi che fosse possibile cambiare modalità. L’avrei semplicemente lasciato staccato il tempo necessario alla manovra, tollerando la comparsa degli allarmi, per riattaccarlo subito dopo il cambio della cannula.

Sul carrello c’era di tutto e di più o perlomeno tutta l’attrezzatura ventilatoria che può esserci un reparto di cronici. D’altronde il personale non era solito usare tutti quei presidi ed essi venivano stipati alla rinfusa nel cassetto “Ventilazione”. La mercanzia veniva esposta come la Sindone, solo per le occasioni particolari, come appunto questa.

All’infermiera che mi avrebbe assistito spiegai che volevo preparare tutto in precedenza in modo da essere veloce e non lasciare in apnea il paziente per troppo tempo.

Breve briefing per chiarire le fasi: io avrei preparato tutto quanto serviva sul carrello, mi sarei messo i guanti, rimanendo con i guanti sterili e la cannula nuova in mano. L’infermiera avrebbe staccato la cannula dal ventilatore, sgonfiato il palloncino e tolto la cannula vecchia, io avrei infilato la cannula nuova nella stomia, e l’avrei collegata ad un tubo corrugato ed un filtro nuovo. Quindi lei avrebbe dato due o tre ventilazioni con l’ambu mentre io controllavo i campi polmonari, e, se tutto fosse stato a posto, avremmo ricollegato il paziente al suo respiratore in pochi minuti.

Tutta la pantomima l’ho illustrata in presenza del paziente, per rassicurarlo ed informarlo sulle varie manovre e poi… si comincia!

Il mio grosso problema era cosa dovevo aspettarmi infilando la cannula. C’era la possibilità di fare una falsa strada? Una cannula nuova, ovviamente di uguale modello e diametro, sarebbe entrata facilmente? E se ci fosse stato un problema come me la sarei cavata? In fondo nel mio ospedale c’era sempre un altro collega cui chiedere. Qui ero solo.

Un bel sospirone e via. Campo sterile. Ci adagiamo la cannula nuova, una siringa per cuffiare, il tubo corrugato ed il filtro nuovo. Una cannula per aspirazione viene collegata al vuoto: verifico l’aspirazione che funziona. Questa la manovrerò io. Provo il palloncino della cannula: ok.

Do il via all’infermiera, che a sua volta aveva preparato tutto a portata di mano. Ora stacca il paziente, sgonfia il palloncino e tira via la cannula vecchia.

Una veloce aspirata e infilo senza problemi (che culo!) la cannula nuova. Gonfio il palloncino. Ok ci siamo! Collego il corrugato e il filtro che tengo mentre l’infermiera collega l’ambu. Prendo il fonendo.

Due, tre pompate. Qualcosa non va, il torace non si espande. Altre due pompate: niente.

Il paziente comincia a virare verso il cianotico.

Prendo in mano io l’ambu. Due pompate. Niente

Il paziente è nero.

C’è qualcosa che non mi torna, ma non riesco a focalizzarlo.

Devo fare qualcosa… Intanto rimettiamo tutto come prima di cominciare!

Riprendo la cannula vecchia e la metto al posto della nuova, la cuffio e collego il paziente al ventilatore. Il quale ventilatore, nel frattempo, tanto per rendere meglio il pathos della scena, ha sparato i suoi allarmi che neanche un maiale sgozzato…

Il paziente ritorna al suo normale colorito dopo quattro ventilazioni, il torace si espande, gli allarmi tacciono.

Ora devo capire cosa cazzo è successo. Riguardo la cannula utilizzata, riprovo il palloncino, guardo il corrugato, ispeziono il filtro. Niente tutto regolare, a posto, funzionante.

Controlliamo il collegamento all’ossigeno dell’ambu (nessun reservoir, ovviamente, all’epoca erano fantascienza). Tutto a posto.

Prendo l’ambu in mano e un dito scompare in una piega. Piega? No, la copertura esterna dell’ambu è tagliata, di lì esce l’aria e non dalla valvola. In quegli ambu neri (qualcuno se li ricorda?) la tenuta era data dalla guaina esterna in gomma, mentre l’espansione era assicurata da una struttura interna semirigida, fenestrata, elastica. Chiudo la valvola col palmo della mano, comprimo. L’ambu si collassa, ma, non c’è resistenza, non pompa nulla; lascio andare la chiusura e non esce niente. Prendo un altro ambu dello stesso tipo che nel frattempo l’infermiera è andata a prendermi e faccio la stessa prova. Se la valvola di uscita è chiusa il pallone non si collassa, oppone resistenza, e quando lascio andare esce un soffio potente: questo funziona!

Ecco svelato l’arcano. Ecco che cosa non mi convinceva. Vista la mia poca esperienza non mi ero accorto che l’ambu non opponeva resistenza nel ventilare, ero tutto concentrato a capire quale fosse il problema, che, visti i miei dubbi iniziali, doveva per forza essere nella cannula!

E nemmeno l’infermiera se ne era accorta, non essendo abituata a ventilare con l’ambu.

A rileggerlo così sembra normale, facile: certo! se provavi l’ambu prima di usarlo…

Lo chiudi, lo schiacci vedi che resista, lasci andare e vedi che soffi… e checcivuole?

Perché, quanti dei miei colleghi e degli infermieri lo facevano all’epoca? Quanti lo fanno anche oggi? Siamo così sicuri che sia una manovra di routine?

Intanto l’ho mai vista descritta.

Anche solo restando tra istruttori BLS: se ci pensate spieghiamo per filo e per segno come e dove mettere le mani, porgere l’orecchio, fare gas (anzi G.A.S.) ma di provare i presidi che usiamo, ne parliamo? E questo neanche quando veniva data più importanza alla ventilazione.

È vero che è una cosa banale, ma quanti ci pensano?

Io sempre, visto il cago che mi sono preso. Mi viene spontaneo appena prendo un ambu in mano.

Per finire la storia, la cannula l’abbiamo poi cambiata, senza più problemi, ma quella cannula me la ricordo ancora adesso.

Herbert Asch

Tags: , , , , ,

Il Paradiso – sogno di un’anestesista in pensione

Scritto da Magamagò il 08 settembre, 2016
pensieri / Nessun Commento
foto di EP

foto di EP

“in fondo abbiamo sempre avuto a che fare con la fermata precedente al paradiso,
ma noi cerchiamo di fare scendere la gente lì e non farla proseguire… :-)
H.Asch”

Dovevo chiudere la finestra. Eppure lo so che quando c’è la luna piena devo chiuderla. Per non farla entrare. La luce argentea mi abbaglia. E mi toglie il fiato. Anche i pensieri sono corti. Intercisi. Affannati. E ho un peso sullo stomaco. No sul petto. Piccoli aghi che s’infilano nella pelle. AIUTO ! Apro gli occhi, voglio alzarmi. Ma due occhi mi bloccano: verdi, piccoli, in una nuvola bianca. Ma di notte le nuvole sono nere.

Una linguetta rossa si lecca i baffi. Ah, meno male, è il gatto.

MA IO NON HO GATTI !

“Non ti affannare, che vuoi capire, sei solo un uomo.”

Lo sento nella mia testa; meno male, non è un gatto parlante.

MENOMALE? Sto impazzendo. Mi legge nel pensiero, mi parla nel cervello, ed io che riesco ad elaborare di pensiero con senso compiuto? MENOMALE.

“Appunto, sei limitato. Ma non è colpa tua, sei un uomo ” Vabbè, mettiamola così.

“Sei ateo, anzi agnostico” Non è una domanda  ma un’asserzione. “Io lo so perché” e continua il monologo nella mia testa “Tu sei un tipo pragmatico e ti sei fatto quattro conti da ragioniere come sei.

Quanto si può vivere? Al massimo cento anni, forse qualcosina in più, ma i primissimi anni uno non se li ricorda e dunque non valgono; e dunque cento anni. E nell’aldilà, quanto ci staremo? Un’eternità, che non si sa quanto sia ma comunque nell’ordine di 1 più tantissimi zeri. Ne consegue che bisogna scegliere bene il dopo, più che il prima. Giusto? Ti torna il discorso?”

Accidenti gatto, non avrei saputo spiegarmi meglio, anzi forse tu hai dato un senso alla mia inquietudine.

“Allora ti aiuterò a fare la scelta giusta, facendoti vedere tutti i possibili paradisi offerti dalle varie religioni.”

E come puoi fare un prodigio simile? Con Google?

“Shhhh. Non dire sciocchezze e chiudi gli occhi”

Li ho chiusi, naturalmente, avrei fatto qualunque cosa in quel momento, e subito dopo una lingua rasposa ha cominciato a leccarmeli, facendomi così apparire luoghi, testi, immagini, sensazioni; tutte catalogate, precise, anche col numero progressivo, proprio come avrei fatto io con la mia anima di ragioniere se non fossi stato pigro… e pavido.

1° Il Paradiso cristiano: luogo dove andranno gli uomini da Dio giudicati giusti e retti.

2° Il Paradiso cattolico (nello specifico): lo stato dei giusti dopo la morte, costituito dalla visione beatifica di Dio.

3° Il Paradiso dei Sumeri: luogo primordiale, terra pura, posto privo di sofferenze dove vivrà eternamente l’uomo destinato dagli dei.

4° Il Paradiso musulmano: sotto il trono di Allah, dove andrà l’uomo, dopo essere stato giudicato positivamente nella tomba. Potranno accedervi anche da altre religioni. Il più alto livello del Paradiso sarà per i giusti, i martiri e i più religiosi. La storia delle Urì, cioè le vergini destinate come mogli al beato, allietandone il soggiorno eterno, in realtà non compare nel Corano ma solo nelle leggende islamiche.

5° Per Buddismo e Induismo, siamo un tutt’uno con Brahma; il peso delle conseguenze delle proprie azioni ricade su noi stessi e dipende dal Karma, dal destino, di ciascuno. C’è la reincarnazione; non esiste paradiso, si perde la propria identità e si torna nell’unità universale.

Ci sono anche altre religioni, passate e presenti, forse meno diffuse.

Ma è l’alba, l’ultimo pensiero scompare con un “puff” come nei fumetti. Apro gli occhi, guardo l’ora e mi accorgo di quanto sia tardi, terribilmente tardi, mostruosamente tardi. Mi preparo in fretta, ancora con la mente confusa dai pensieri notturni, ma impossibilitato a metterli in chiaro. Forse più tardi, forse stasera.

Esco e corro in strada a prendere l’autobus. E LO PRENDO, in pieno, anzi è lui che prende me e mentre volteggio in aria una volta, due volte, prima di cadere sul selciato e perdermi in un mare di sangue, un ultimo pensiero, il mio ultimo, è ancora nell’aria e cerca di raggiungermi : CAZZ…!   Non ho scelto il Paradiso!

Si dice che negli ultimi istanti la vita ti passi tutta davanti, che finalmente si capisca tutto, che… non so, per me è stato solo quel lampo, quel rimpianto, nemmeno un dolore fisico ma mentale.

Ho di nuovo un peso sullo stomaco, anzi sullo sterno, sopra il cuore insomma, che so bene che è immobile ma ancora vivo. Apro le palpebre e vedo di nuovo gli occhi verdi, e intorno una nuvola bianca… buffo, pensavo fosse il pelo del gatto, che so, un gatto d’Angora tutto bianco a pelo lungo, ma invece è proprio una nuvola, soffice, dai contorni indistinti, eppure ben definita, irreale ma solida. Un sorriso, un lampo di quegli occhi verdi che mi fa chiudere i miei, una leccatina rasposa sopra, un pensiero che si va formando nella mia mente… “Tranquillo, non so se tu sia stato giusto, ma sei stato buono, almeno hai cercato di essere buono, e quindi andrai nell’unico vero Paradiso.”

Una bolla mi circonda, mi racchiude, sento un suono in lontananza, sempre più forte, un ronzio, anzi no, un ron-ron, delle fusa megagalattiche che mi circondano, penetrano in ogni mia cellula, ed io mi rilasso, felice, sereno, appagato perché le fusa servono a questo, e so che questa è la vera felicità, il vero paradiso.

Ma… e i più giusti? In alcuni paradisi i più giusti hanno qualcosa in più. E allora cosa è?

I più giusti potranno accarezzare la schiena di un gatto che fa le fusa dalla testa alla coda; cosa si può chiedere di più?
Ah ecco, mi pareva, speriamo di meritarlo. Eh sì, questo sì che è paradiso!

Magamagò

 

Tags: , , ,

Non solo Barbapapà

Scritto da supergiovan8 il 10 agosto, 2016
cronache / Nessun Commento
foto di PB

foto di PB

Alì (nome di fantasia che sostituisce un nome ben più complicato di “Armando”) sta nel suo letto bello pacifico.

La collega in consegna mi ha descritto il decorso post operatorio, le infusioni in corso e lo stato generale del malato: buono.

Entro subito in camera per dargli un occhio; è in prima giornata e anche se non fosse stato nella prima stanza sarei comunque andato subito da lui per avere un’idea precisa di chi fosse e se necessitasse di qualcosa, e poi perché era anche il più “critico”. Dal corridoio, dove ci sono circa un milione di gradi Celsius si passa nella stanza, che aveva la porta socchiusa, con una temperatura di circa 28° C: è evidente che per chi continua a fare dentro e fuori il trauma è importante e continuo (sigh!!!)…

Gli allarmi dei monitor sono già impostati al 100% e tutti i tubi finiscono nel posto giusto. Entrando lo saluto, con la moglie che amorevolmente gli stava rinfrescando il viso che subito mi fa spazio per i vari controlli.

Vedo un uomo, lungo e scuretto, che giace pacifico in un letto forse troppo corto per lui ma comunque adeguato per certe circostanze, tipo dopo un’operazione chirurgica di quelle toste.

Mi avvicino e gli dico, brandendo il termometro timpanico:

“Come sta? Tutto bene? Oggi pomeriggio ci sono io, le serve qualcosa?”

Placido, mi risponde:

“Se se, me sto bè…fa’n pò calt ma va bè isè dai!”

Rimango di stucco, ma non è un barbatrucco: parla il mio dialetto!

Ah, la globalizzazione…ah no, l’immigrazione…

Ma questi ci vogliono rubare pure il dialetto? Una volta non volevano soltanto le nostre donne?

Ah no, scusate, questa è solo una persona emigrata qui da circa 30 anni che si è integrata, ha lavorato duramente e ora, come una normale persona ammalata, si fa curare.

E la morale di questa storia è che il tipo mi ha fregato col dialetto, ma solo col dialetto. In questi tempi di paura verso “l’altro” è molto semplice tacciare tutti i “diversi” come terroristi, invasori e fuori posto; la verità è che questo signore è stato, ed è, una risorsa e come tale va tutelato; perché né io né voi né la maggior parte delle persone che conosco in fonderia a lavorare ci andrebbero mai.

Lui sì. Per 30 anni lo ha fatto, per uno Stato che non era il suo (mentre la pancia sì, chiaramente).

E’ un dare e ricevere più che equo, secondo me, questo. Evviva i vari Alì!

Supergiovan8

Tags: , ,

Reperibilità

Scritto da zarianto il 02 agosto, 2016
cronache / Nessun Commento
foto di DB

foto di DB

Driiin!!! All’una di notte…suona il cellulare! “Vieni giù che c’è casino!” .

Accidenti! Proprio mentre pensavo di averla sfangata e finalmente, sotto il peso di palpebre inesorabilmente calanti, affievolitosi il consueto stato di vigile allerta, mi arrendevo al sonno ristoratore, sullo scomodo divano anti…coma di casa, già, opportunamente in abiti civili, coi piedi avvolti da assai ginniche scarpe, da linea di partenza! Bisogna andare!

Nel “minor tempo possibile” , come recita il contratto, esco, mi reco all’auto, metto in moto…e via.

In piena notte, la strada è veloce. Anche i semafori dormono, ignari degli attraversamenti pedonali e uniche luci nel buio, insieme ai miei fari.

Il silenzio è rotto dalle languide note dell’autoradio, disattente rispetto alle vendite, ma suggerite dal gusto personale del DJ e cariche di giovanili ricordi, spiagge notturne, lune gigantesche e stelle luminose, in costellazioni appena riconoscibili, scarsamente efficaci nell’attutire la solitudine del viaggio a rotta di collo verso l’ospedale, ma perfettamente idonee a sottolineare la meraviglia dei contorni sfumati delle strade, degli edifici, dei monumenti e dei parchi, nascosti, pudici e ritrosi, nell’oscurità.

“Al mio arrivo”, come suol dirsi…il caos! Il Pronto Soccorso collassa inerme sotto l’incessante e martellante stridore delle sirene, a scandire senza sosta il trasporto di pazienti in codice rosso, con l’impietosa e marziale cadenza di…uno all’ora!

Salto così dal paziente precipitato dal secondo piano, a quello shockato per cause da determinare (di ndd, in gergo tecnico), dall’infartuato semicomatoso, a quello in preda a una gravissima crisi asmatica, trovando il tempo di sfanculare l’infermiera di reparto (me ne scuso siceramente e profondamente) inpanicata per la novantenne morta stecchita nel suo letto, in un lago di sangue, districandomi tra il posizionamento in serie, a mo’ di catena di montaggio, di tubi endotracheali, linee arteriose e venose centrali, drenaggi pleurici…e quant’altro…con una puntatina in emodinamica, al seguito di un paziente sanguinante in addome!

L’alba mi coglie a scrivere montagne invalicabili di consulenze che sembrano la trama di un romanzo fantasy, in cui, per puro miracolo, non si verifica la strage di innocenti!

Inizia la danza degli occhi alla ricerca di lancette d’orologio sempre più lente col trascorrere del tempo, fino a quando, giunte le 08.00, alla buonora, posso abbandonare…l’incubo e tornare, un po’ più lentamente per il traffico e i semafori svegli, a casa…tra lenzuola accoglienti e non più in pole position sul divano…di partenza!

Il risveglio pomeridiano mi allarma il giusto sugli accadimenti reali, anziché onirici, poiché in quindici anni, mai si era verificato alcunchè di simile! Che sia l’inizio…della fine? “Speren de no!”.

Zarianto

Rivelazioni

Scritto da Pills il 29 maggio, 2016
poesie / Nessun Commento

8996732-lg

La voglia è tanta, il tempo è poco.
La lido brucia, la NIV spinge.
La cava è fissa, il catetere è vuoto.
Il rene è pigro, il sangue tinge.

La vertebra crolla, l’aorta si scassa
Non è polmonite, c’è forse una massa.
Di mille e una sfiga sei l’attore primo,
dall’altro lato anche io parzialmente subivo.

L’ago taglia ma non abbastanza,
Per i primi punti ci vuole costanza.
Occhio al repere, scegli la sonda
Più che una tendina mi pare un onda.

L’aria e l’Eco, la deiscenza e l’anastomosi.
Gli elettrodi e il sudore, sono tutte purtroppo nemesi.
Trenta chili di documenti
più che informazioni son nocumenti.

Su dalla sala, giù in RIA
non vedi l’ora di poter andare via.
Si vive, si muore, si così così.
Meglio gli estremi che stare lì.

La madre dispera, la moglie resiste
Il figlio supporta, il marito assiste.
La cute è dura, il cuore è elastico
ogni tanto è un bolo amaro ciò che mastico.

C’è chi chiacchera e c’è chi è più schivo,
ciò non vuol dire che di cuore sia privo.
Chi non ti aspetti ti terrà la mano
il suo supporto non sarà vano.

Un bravo o un grazie messi al giusto posto
sollevano l’animo anche a chi invece di vino
si sente mosto.

 

Dedicato a chi all’inizio mi intimoriva e invece inaspettatamente mi sta facendo sicura per la scalata.
Avete una pazienza infinita anche di fronte alla mia ignoranza o alle mie insicurezze. Invidio la vostra imperturbabilità.
Dedicato anche ai pazienti che rispondono al mio saluto da dietro il vetro quando arrivo e quando me ne vado dal reparto.
Mi scaldate il cuore. Anche quando tremo dalla paura, anche quando vi faccio male, anche quando vi nego l’acqua.

Grazie. Di cuore.
Uno dei tanti “mosti” di passaggio

 

Pills