C’è sempre un’aria fresca quando si varca la porta d’uscita di un ospedale, quella porta che lunghe ore prima t’ha visto entrare. C’è una luce forte, un terreno solido, quella sera c’eri anche tu.
Un secondo turno di affiancamento in un reparto così definito “un posto tranquillo”. In fin dei conti stiamo parlando di Ostetricia e Ginecologia, di un’unità che da la vita.
Il mio primo post-partum, un cesareo agognato, la mia prima donna. L’abbandono della sala parto è felice, le mani care sostituiscono le estranee. Il cuore è regolare, l’ossigeno sale in semi-fowler, la minima della sala accompagna ancora la temperatura che a breve dovrebbe normalizzarsi.
Appunti frenetici su un taccuino che porta le occhiaie dell’infermiera di riferimento, la sua bravura, il suo impeccabile buon senso.
Troppi lochi, molti camici.
Si ha paura, una sensazione viva e netta. C’è sempre, è latente. Scorre come la più profonda delle cefaliche, talvolta non si vede, ma si tocca e viene punta. Ciò che punse me è un 14 gauge, un grosso calibro di paura. Si è sopraffatti da responsabilità giganti, figuranti reali della mitologia greca, alle quali bisogna tener fede.
Si tratta poi di monitorare: parametri, prelievi, trasferimenti online, lunghi passi, rubriche e reperibili.
Ma c’è dell’altro, c’è molto altro. Ed è dura farci i conti. Continuare a far girare il vinile dei dubbi sulla buon’anima che trascorrerà con te le ore successive ad un turno come questo.
È che senza un’intelaiatura non ce la si fa. Stavolta l’aria era gelida, il buio era pesto, il cemento vacillava.
Ma c’era la mia luce forte, il mio terreno solido.
Francesca
Lascia una risposta