ostetricia

Porta a doppio senso

Posted by Francesca on maggio 10, 2018
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foto di FM

foto di FM

 

C’è sempre un’aria fresca quando si varca la porta d’uscita di un ospedale, quella porta che lunghe ore prima t’ha visto entrare. C’è una luce forte, un terreno solido, quella sera c’eri anche tu.

Un secondo turno di affiancamento in un reparto così definito “un posto tranquillo”. In fin dei conti stiamo parlando di Ostetricia e Ginecologia, di un’unità che da la vita.

Il mio primo post-partum, un cesareo agognato, la mia prima donna. L’abbandono della sala parto è felice, le mani care sostituiscono le estranee. Il cuore è regolare, l’ossigeno sale in semi-fowler, la minima della sala accompagna ancora la temperatura che a breve dovrebbe normalizzarsi.

Appunti frenetici su un taccuino che porta le occhiaie dell’infermiera di riferimento, la sua bravura, il suo impeccabile buon senso.

Troppi lochi, molti camici.

Si ha paura, una sensazione viva e netta. C’è sempre, è latente. Scorre come la più profonda delle cefaliche, talvolta non si vede, ma si tocca e viene punta. Ciò che punse me è un 14 gauge, un grosso calibro di paura. Si è sopraffatti da responsabilità giganti, figuranti reali della mitologia greca, alle quali bisogna tener fede.

Si tratta poi di monitorare: parametri, prelievi, trasferimenti online, lunghi passi, rubriche e reperibili.

Ma c’è dell’altro, c’è molto altro. Ed è dura farci i conti. Continuare a far girare il vinile dei dubbi sulla buon’anima che trascorrerà con te le ore successive ad un turno come questo.

È che senza un’intelaiatura non ce la si fa. Stavolta l’aria era gelida, il buio era pesto, il cemento vacillava.

Ma c’era la mia luce forte, il mio terreno solido.

 

Francesca

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Obiezione di coscienza

Posted by blue dolphin on febbraio 04, 2012
cronache / 10 Commenti

Pomeriggio di guardia. Ostetricia.

Mi annunciano il menù di oggi: una parto-analgesia da iniziare e un cesareo della mattina da rivedere in reparto. “Ah, sì, e poi c’è l’IVG, dottoressa.” Già, siamo ad agosto: il distretto sanitario dove si fanno abitualmente è chiuso, quindi, eccezionalmente, ce ne occupiamo qui in ospedale. Da quando lavoro qui non mi era ancora capitato.

Mi chiedono se sono obiettrice. Che strano, ogni volta che sento questa espressione: obiezione di coscienza, provo come un fastidio. Obiezione…bellissima parola. Coscienza…ancora più bella, vibrante, dignitosa. Come mai messe insieme non mi fanno più una bella impressione, allora? Come la nutella e la maionese! Sarà qualcosa di personale, senz’altro.

Sarà, per esempio, che penso al mio collega della mattina che ha “obiettato”, così che una donna che era qui dalle sette, pronta e digiuna, sta ancora aspettando che qualcuno la chiami. Con i propri pensieri e le proprie paure.

Quando rispondo ”scusate ragazze, ma vi sembro un prete o un’anestesista?” vedo facce inacidite intorno a me …no, decisamente l’ironia non è la miglior virtù delle ostetriche.

Almeno non di queste.

Ci siamo tutti, si può chiamare la signora. Non è che sia stato così facile, però: un’ostetrica di sala, obiettrice, è stata sostituita da una del reparto. Idem per il ginecologo. Tutti i presenti hanno esercitato la propria scelta, come prevede la legge. Il che dovrebbe farmi supporre che per tutti noi quello che stiamo per fare è solo un atto medico. Nessun giudizio, no? Anche perché, tecnicamente parlando, si tratta di una routinaria revisione di cavità, tale e quale a quelle spontanee, come se ne fanno tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Naturale o volontaria che sia, non sono affari nostri.

La mia supposizione è evidentemente sbagliata. Il clima è un po’ teso, imbarazzato. Vado a conoscere la donna, visita e domande di rito, torno in sala operatoria, annuncio il nome della paziente che sta per entrare e subito si alza un coro di galline:

“ma…è italiana??”.

Beh, santiddio, è vero che siamo ormai un melting pot, ma ancora qualche paziente italiana ci è rimasta! “No, sa, è che per fare certe cose, di solito sono straniere…”.

Certe cose”.

A 33 anni dalla 194. Un pomeriggio di agosto del 2011, nel civilissimo ospedale multiculturale di questa regione così “avanti” in Italia (beh…ti piace vincere facile, eh?), in mezzo a persone, non dico intelligenti -la mancanza di ironia era già un triste indizio- ma con un livello di istruzione cosidetto superiore, che non si dichiarano obiettrici… ecco il tabù che proprio non ti aspetti.

Chissà, forse per alcuni è così difficile accettare quelle “certe cose”, nascoste sotto le sigle di IVG, RCU, 194 (che poi sempre un aborto è), che l’unica soluzione passabile che hanno trovato è stata quella di immaginarsi sempre e solo una derelitta: straniera, senza permesso di soggiorno, povera, poverissima, magari anche violentata. Ah, sì, di sicuro è stata violentata poveretta, sennò come si spiega? Invece no, eccola lì l’impunita: è italiana, così a occhio direi ceto medio, niente lividi morbosi sul corpo. Non è un’adolescente sprovveduta. Non sembra neanche una tossica. Eccola là, a sbattere in faccia a tutti i presenti la propria scelta. Questa donna aveva il diritto di scegliere e l’ha esercitato. Avrà passato settimane a pensare, considerare, immaginare, come una partita a scacchi in cui ogni azione ha una conseguenza. E questa è la sua mossa con le sue conseguenze. Questa è la sua obiezione. E’ lei l’obiettrice di coscienza. E noi non ne conosciamo le ragioni, nè sta a noi conoscerle o tantomeno supporle.

Sono molti mesi che lavoro in questo ospedale, ma ci voleva un pomeriggio di agosto in cui il distretto sanitario è chiuso per accorgermi di quanto possano essere imbarazzanti persone con cui lavoro tutti i giorni. Persone che lavorano da sempre con le donne e per le donne: gentili, cordiali, capaci di fare un complimento ad una mamma persino davanti ad un neonato palesemente brutto, a dare loro coraggio anche quando la situazione sembra sfuggire di mano e che adesso hanno improvvisamente difficoltà a guardare questa donna negli occhi e ad essere altrettanto gentili e incoraggianti; colleghi che hanno vite spesso “non convenzionali”: tante ostetriche e dottoresse hanno figli senza essere sposate, tra gli uomini solo due ginecologi non sono (ancora) divorziati, una OSS è una lesbica dichiarata… Tutto questo è accettabile. Anzi di più: è giovane, è moderno, è anche un po’ “di sinistra” se vogliamo buttarla sulla politica!

Invece la scelta di una donna che ora è nuda davanti a noi che siamo vestiti…no, non lo è altrettanto, evidentemente. In nome di cosa, di grazia? Di una vita potenziale? Ma se adesso, proprio davanti agli occhi, abbiamo una vita reale e non riusciamo a trattarla con rispetto?

Colgo sguardi complici e borbottii a mezza voce “ma quanti anni avrà?”. La donna se ne accorge ma sta zitta.

Urlerei io, in compenso. Sono così imbarazzata per i miei colleghi che non mi basta più fare da sola sforzi di gentilezza alla signora.

Che poi, a dirla tutta, non è che l’empatia con i pazienti sia proprio la mia miglior virtù… Mi auguro che il midazolam della premedicazione (tanto midazolam!) la immerga nell’oblio e nell’amnesia. E ringrazio il santo propofol, quando il sonno profondo mette un muro tra lei e quell’idiota che dice “Certo che a quell’età lì una dovrebbe saperlo come si rimane incinte, no?”.

Perché, durante un’emicolectomia, non sento mai dire “Certo che di questi tempi lo sanno tutti che le carni rosse e i salumi fanno venire il cancro, no?”

Cinque minuti. Tutto questo teatrino per cinque minuti di intervento. Pago il mio buon midazolam con un risveglio un po’ più lento e poi a letto.

Il pomeriggio prosegue e anche le mie riflessioni. Mi chiedo se sia stato un caso: una congiuntura di persone particolarmente stupide tutte nello stesso turno? Può darsi, conosco tanti colleghi che non si sarebbero comportati così. Ma se un giorno ci fossi io lì, nuda come un verme? Un preservativo bucato, una pillola saltata, una spirale dispettosa…la mia obiezione di coscienza…mi addormenterei sapendo che, appena chiusi gli occhi, qualcuno si farebbe i cazzi miei.

Passano le settimane. Mi capita di leggere un libro, ormai un “vecchio” libro: “Lettera ad un bambino mai nato“, 1975. Beh…non è poi un vecchio libro: forse oggi che una madre sia formalmente signora o signorina importa meno di allora, ma per il resto sembra che in quelle cento pagine si svolga il mio anacronistico pomeriggio di guardia. Ed è triste.

Leggo: “…Il suo delitto non ha attenuanti, signori. Perché lo commise in nome di una illegittima libertà…”

Mi chiedo, nel 2011, come e da chi una qualsivoglia libertà possa essere ancora dichiarata illegittima.

Blue Dolphin

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