Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.
Rachele
Dov’eri qui, Rachele?