Archive for dicembre, 2008

l’avvoltoio

Posted by Woland on dicembre 29, 2008
pensieri / 1 Commento

L’attenzione mediatica attorno al caso del neurochirurgo torinese che sostiene di aver “risvegliato” una giovane paziente da un presunto stato vegetativo non giova a nessuno. Non giova alla paziente, che invece di ricevere un trattamento sperimentale – di cui ancora è incerto il risultato – in un contesto appropriato e protetto, diventa l’ennesimo caso mediatico vittima di un sistema che si nutre di strumentalizzazioni e curiosità morbose.

Non giova alla società ed in particolare a tutte le persone che vivono il dramma quotidiano di avere un familiare in stato vegetativo persistente, per le false aspettative che inevitabilmente si generano: la stimolazione talamica profonda ha sicuramente dei fondamenti scientifici e delle prospettive, ma in casi ultraselezionati ed in un contesto che rimarrà sperimentale per molti anni ancora.

Non giova al chirurgo, che cerca di aggirare con una scorciatoia il difficile percorso che deve affrontare chi, agendo nel rispetto della comunità scientifica internazionale, vuole dimostrare l’efficacia di un trattamento. La sua intervista pubblicata su La Stampa il 20 dicembre è emblematica: il tono con cui vuole attirare l’attenzione delle istituzioni suona quasi ricattatorio, oltre che offensivo. Sostenere che in Italia le persone come lui non possono avere una cattedra a causa di un sistema clientelare oppure che andrebbe abolito il valore legale della laurea è demenziale: siamo fermamente convinti che l’università vada riformata, ma ringraziamo di avere un sistema che riesce ancora ad arginare i deliri di onnipotenza e l’irresponsabilità di chi pubblica i risultati delle proprie ricerche sui giornali ancor prima che sulle riviste scientifiche.

Non dimentichiamo il caso Di Bella, che qualche anno fa ha avuto una tale risonanza mediatica da costringere il Ministero ad una sperimentazione (costata molte morti e sospesa per motivi etici) per dimostrare pubblicamente l’inefficacia di una terapia senza fondamento. In quale altro Paese se non l’Italia saremmo dovuti arrivare a tanto?

Per fortuna qui il caso è diverso, la stimolazione cerebrale profonda e la ricerca sulle cellule staminali negli stati di minima coscienza hanno dei fondamenti scientifici e potrebbero avere prospettive in futuro: forse per vederne gli sviluppi sarà sufficiente dare spazio e risorse a chi lavora in silenzio e con senso di responsabilità: la presunzione e la superficialità non aiutano la ricerca.

Woland

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Boston, 1846

Posted by il guardiano on dicembre 22, 2008
racconti / 1 Commento

Quello che vedrete oggi non è solo una grande scoperta scientifica. Quello che vedrete oggi è molto di più. E’ magia. Una magia che farà il giro del mondo.
Parlare di anestesia non è sufficiente. Non rende merito a ciò che è realmente. Vedete, non è solo di far dormire la gente che si tratta. Io non farò solo dormire questo paziente. Io lo proietterò in un mondo parallelo. Quando il vapore ipnotico entrerà dentro al corpo e raggiungerà il cervello, l’anima si scollerà dal corpo. Non completamente, certo. Compirà movimenti infinitesimali, scivolando sul corpo per restare sospesa quel tanto che basta da non lasciare traccia nella memoria. Tutto ciò che succederà in quei momenti non verrà impresso nelle pagine della materia cerebrale. Il sonno indotto dal vapore creerà una piccola sfasatura nella mente. Io ho trovato la chiave per entrare in un nuovo mondo.

E vi dico ancora che questo non è che l’inizio. Un giorno si scopriranno cose inimmaginabili. Macchine si sostituiranno ai muscoli respiratori, tubi si inseriranno direttamente nella grande circolazione sanguigna, nuove sostanze attiveranno, disattiveranno, potenzieranno, smorzeranno, abbasseranno, alzeranno, indurranno, stimoleranno, deprimeranno le funzioni del corpo… Ma l’effetto, il fine ultimo della nostra missione non cambierà. Perché quando l’uomo, il medico, si avvicinerà al paziente e preparerà il suo incantesimo, ancora e sempre l’anima scivolerà via, lentamente, come una pelle invisibile, e con piccoli movimenti di tensione e rilassamento si libererà dal corpo pezzo per pezzo, rimanendo lì, sospesa nel tempo, in attesa di essere richiamata indietro… Professor Warren, può procedere, il paziente dorme.

il guardiano

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l’elicottero

Posted by il guardiano on dicembre 16, 2008
racconti / Nessun commento

Quando il portellone dell’elicottero si aprì il vento gelido entrò rabbioso e la stretta valle apparì ancora più fredda e ostile. La neve restava aggrappata alle asperità del pendio e si accumulava abbondante su tutto ciò che incontrava. Il giovane dottore scivolò verso l’apertura e si lasciò legare al cavo del verricello senza guardare sotto. Assicurò lo zaino al moschettone della sua imbragatura e si abbandonò al movimento del gancio. Ruotando su se stesso venne spinto fuori e iniziò la discesa. Il vento si fece ancora più forte e freddo. Un torrente lontano e nero univa i pendii come una cerniera stazzonata e il terrazzo sul quale stava per essere deposto si protendeva come una mano amica a fermare il suo viaggio. Ma era talmente piccolo che ad ogni raffica il vento lo spingeva lontano dalla sua traiettoria. A pochi metri dal terrazzo fece segno di rallentare la corsa, e vide sotto di sé la parete di rocce che precipitava nel torrente, poi si sentì afferrare e tirare verso la casa. Vide i suoi piedi oltrepassare la ringhiera e sentì che toccavano il cemento scivoloso per la neve appena spazzata via. Si sganciò dal cavo, si mise lo zaino in spalla e si diresse verso la porta. Entrando il vento trascinò dentro il freddo dell’inverno e il rumore dell’elicottero. Qualcuno alle sue spalle si precipitò a richiudere velocemente la porta. Si ritrovò in uno stretto corridoio, ai piedi di una ripida scala di pietra. Una vecchia era stesa su di un materasso che occupava tutto lo spazio disponibile. Una luce gialla e fioca illuminava l’ambiente, e una stufa elettrica al massimo della potenza tentava di riscaldare un po’ l’aria umida e fredda. Il giovane dottore si chinò sulla vecchia, e chiese che cosa fosse successo. Una donna accorsa da una stanzetta che si affacciava sulle scale disse di essere la figlia, e di aver trovato sua madre per terra ai piedi delle scale. La madre viveva sola. Forse era caduta. Forse era lì dalla sera precedente. L’avevano sistemata sul materasso in attesa dei soccorsi. La vecchia respirava, aveva gli occhi aperti, immobili, inespressivi. Era gelida, ed irrigidita dal freddo. Aveva una contusione sulla fronte. Il giovane dottore pensò che sarebbe morta di lì a poco. Pensò che era vecchia, troppo vecchia e malmessa per poter fare ancora qualcosa. Lo disse alla figlia. Disse che se l’avesse portata in ospedale sarebbe morta quasi sicuramente lì. Le chiese se era questo che voleva la madre, morire in ospedale. Poi si pentì subito della domanda, perché la questione era un’altra. La questione era che in quella casa non ci viveva nessuno. Nessuno avrebbe potuto vegliare la povera vecchia. Allora il giovane dottore iniziò a pensare ad una soluzione per portarla via di lì, senza dover di nuovo passare dal terrazzo. Non aveva nessuna voglia di rifarsi quel giro appeso in mezzo alla valle. Ma la casa era isolata, le strade bloccate dalla neve. Allora si rassegnò all’idea. Chiamò la centrale spiegò la situazione. Insieme al tecnico alpino e all’infermiera sistemò la vecchia nella barella con il suo cuscino, avvolta nella sua coperta di lana e si preparò ad uscire. L’elicottero si avvicinò con un rumore assordante e si dispose sopra al terrazzo. L’infermiera fu tirata su per prima, poi toccò al giovane dottore agganciarsi alla barella e lasciarsi andare. Il viaggio in salita fu rapido. La barella gli copriva la visuale della valle, ma il vento li faceva girare più facilmente. Guardando in alto vide il pattino dell’elicottero avvicinarsi. Con una mano cercò di tenerlo lontano da sé, mentre con l’altra proteggeva il viso della vecchia. Sganciò il cordino antirotazione e mantenne orizzontale la barella. Quando fu all’altezza del pianale dell’elicottero si lasciò tirare dentro, si allacciò alla corda di sicurezza e aiutò il tecnico e l’infermiera a sistemare la barella. Poco dopo arrivarono gli zaini e l’alpino. Quando il portellone fu chiuso l’elicottero iniziò la sua corsa di ritorno.

Il giovane dottore guardò la vecchia. Era viva. Con l’ossigeno sembrava persino essersi svegliata un po’. Lo sguardo sempre lontano, assente, ma con la bocca accennava a qualche smorfia, di fastidio o di dolore. Pensò che forse non sarebbe morta, e che magari avrebbe prima o poi rivisto la sua valle, con la neve e i lupi. Sperò che quel giro in giostra le avrebbe dato un po’ di tepore, e forza, per ritornare.

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l’anestesista

Posted by Herbert Asch on dicembre 03, 2008
grandi autori / Nessun commento

“L’anestesista, Nakash, aveva voglia di chiacchierare con me. Era sui sessantacinque, asciutto e ossuto, e la tonsura bianca intorno alla testa pelata contrastava simpaticamente con la tinta scura della carnagione. (…) In India avevo visto non poche persone che me l’avevano ricordato e che mi avevano ispirato istintiva simpatia. Hishin (il capo chirurgo) lo stimava e amava lavorare con lui, anche se non era l’anestesista di maggiore spicco. «Nakash non sempre capisce cosa succede durante l’operazione – diceva alle sue spalle – ma è sempre vigile, anche in quelle che durano dieci ore. E questa è la cosa più importante. Perchè il paziente si abbandona non nelle mani del chirurgo, bensì in quelle dell’anestesista». (…)
Nakash mi chiese se ero interessato a un po’ di lavoro privato, cioè a fare da assistente nelle operazioni cui partecipava in una clinica. (…)
«Ma non ho nessuna esperienza in anestesia», osservai stupito.
Al che Nakash spiegò che la specializzazione in anestesia era alla portata di chiunque, la parte tecnica era facile e la si assimilava rapidamente, mentre la cosa più importante era non abbandonare l’anestetizzato, pensare anche alla sua anima, oltre che al suo respiro. Mentre il chirurgo e la sua squadra durante l’operazione sono concentrati esclusivamente su un angolino del corpo, l’anestesista è l’unico che pensa sempre al paziente nella sua integrità, e non come insieme dei vari elementi. L’anestesista è dunque il vero medico interno, mentre il chirurgo fruga avidamente nelle viscere.
«Credimi, in vita mia ne ho visti tanti di chirurghi. Chi li conosce meglio di me? Ma ti ho visto un po’ all’opera e non fa per te. Il tuo bisturi è titubante, perchè pensa troppo. Non perchè ti manchi l’esperienza, ma perchè sei troppo responsabile. E in chirurgia non ci si può permettere di essere troppo responsabili, perché così non si va avanti, non si fa nulla. Bisogna prendere il coltello in mano: per ridurre a pezzi un essere umano e fargli ancora credere che sia un toccasana. Bisogna davvero essere un po’ ciarlatani e un po’ giocatori d’azzardo».”
da “Ritorno dall’India” di Abraham B. Yehoshua.

Herbert Asch

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