Archive for ottobre, 2009

una sera all’improvviso

Posted by Rachele on ottobre 30, 2009
cronache / 1 Commento

Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.

Rachele

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diversamente felice

Posted by Morris on ottobre 20, 2009
cronache / 1 Commento

Ci sono giornate in cui ti senti in guerra col mondo intero, e in cui purtroppo il mondo sembra a un passo dalla vittoria finale.
Le nuove linee guida dell’ASL, la governance, la prossima settimana abbiamo la verifica per la qualità, oddio, saranno a posto tutti i documenti. “Dottore, ci sarebbe da adeguare il massimale dell’assicurazione professionale, perché sa, al giorno d’oggi…” “Dottore, sono la Benedetta, sto facendo i turni delle guardie per il prossimo mese e ho un bel po’ di fine settimana scoperti, mi dà una mano?”
Poi, lavorando in un ospedale, ti capita occasione di scoprire che in fondo molte cose di cui ti preoccupi sono futili, e che l’essere perennemente incazzato come il Dottor House non è un obbligo, ma una scelta, probabilmente la più facile e anche la meno coraggiosa.
Ieri l’ altro ci è arrivata in reparto, inviata dal Pronto Soccorso una paziente di quelle che contraddicono l’Harrison. Se si va a leggere l’illustre tomo alla voce “Sindrome di Down” si scopre che difficilmente i portatori di questa condizione raggiungono età avanzate, per il più rapido instaurarsi di patologie cardiovascolari e per l’accresciuta incidenza di malattie tumorali. La nostra paziente però, Down, sessantaseienne, non ha mai letto quel capitolo, e probabilmente nessun altro capitolo in vita sua, e, come il calabrone del famoso aforisma, a cui nessuno ha detto che con quelle alucce e quel corpaccione è impossibile che possa volare, ha svolazzato più o meno bene fino a questa età.
Fino all’incontro con una malaugurata “polmonite acquisita in comunità”, e adesso giace in un letto di ospedale, con un respiro superficiale e rantolante, e l’abbandono di una marionetta a cui qualcuno ha tagliato i fili. La visito scettico, guardo la parsimonia con cui il numero sale sul display del saturimetro e mi viene da pensare che questa paziente probabilmente non la ritroverò al giro di domani pomeriggio. Imposto ossigeno in maschera, antibioticoterapia ad ampio spettro, broncodilatatore, un po’ di cortisone che non fa mai male.
Fuori dalla stanza trovo un paio di signore non più giovani neanche loro. Mi dicono che sono le cugine “della mongolina”, e curiosamente in quell’appellativo non colgo scherno o disprezzo, ma solo affetto. Sono le uniche parenti ancora in vita, le uniche persone che si preoccupano di lei e la vanno a trovare nella RSA dove è ospitata. Spiego loro che la situazione è grave, che le prime ventiquattr’ore dopo il ricovero sono le più critiche, che purtroppo questi sono pazienti fragili, con risorse più deboli. Le solite menate, insomma. Capiscono, mi ringraziano, sono addolorate e preoccupate, ma fiduciose in noi e in qualche modo anche preparate al peggio. Trovarne, di parenti così.
Il giorno dopo quando entro in turno alle 14 noto qualcosa di strano in Reparto. Lì per lì non riesco a capire che cosa sia: sembrerebbe quasi…
No, è impossibile. Sembra proprio buonumore.
La caposala, che è sempre sull’orlo della crisi di nervi, ha un sorriso sulle labbra. Persino l’aiuto anziano, che da quando c’è il nuovo primario ha sempre l’aria di uno che viene a fare il giro con le scarpe di due numeri più piccole, sta canticchiando qualcosa a mezza bocca.
Già comincio a fare ipotesi sul possibile malfunzionamento dell’impianto di condizionamento che probabilmente mette in circolo un qualche anestetico, quando un infermiere mi fa: “Ehi, Doc, vuol farsi due risate? Perchè non va a dare un occhiata alla 320?”
La 320? Ma è la stanza della mia “mongolina”! Entro e non riesco a credere ai miei occhi.
La moribonda di ieri è sveglia e vispa come un grillo, e, abbracciata ad un enorme coniglio rosa di peluche, ride, ride di una risata limpida e contagiosa, puntandomi contro una sguardo pieno di gioia, della felicità di essere qui, di esserci adesso, più forte dell’Harrison, dei dottori presuntuosi e pessimisti, delle nostre idee preconcette.
E, diamine, è più forte di me, ma scoppio a ridere anch’io.

Morris

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Michel

Posted by il Cinque on ottobre 11, 2009
cronache / 2 Commenti

Il Pronto Soccorso pediatrico è pieno, come tutte le domeniche. E se dall’altra parte della porta giunge il vociare dei genitori innervositi per l’attesa e dei bambini divertiti per i pochi giochi della sala d’aspetto, da questa parte della porta il caldo torrido del pomeriggio estivo, il camice pesante di attrezzi e sudore, il cercapersone continuamente in funzione e lo stomaco ancora vuoto preannunciano altre 6 lunghissime ore di guardia. Per fortuna non sono sola. Oggi siamo in tre. Io e due colleghe, tutte tre alle prime armi e tutte e tre desiderose di imparare e di aiutare il prossimo.
Dall’entrata in servizio ci è passata davanti una sfilata di occhioni di tutti i colori e di tutte le fogge, tutti ad osservarci, chi con curiosità, chi con terrore, e tutti con un’incredibile dolcezza. Ed ecco comparire un altro paio di occhioni blu. E’ appena entrato Michel, un ragazzino francese di 14 anni.
Il volto è smunto e solcato da una discromia orbitopalpebrale di lunga durata, messa in risalto dalla guancia sinistra gonfia. I capelli sono biondissimi. Porta una giacchina jeans consunta, del tutto fuori luogo col caldo di oggi. Ma quello che ci colpisce è l’espressione dei suoi occhioni azzurri, che ci guardano tristissimi. Michel entra nella stanza senza dire una parola. La sua accompagnatrice è una educatrice di un campo solare, anche lei francese, che ci spiega che il bambino ha un forte mal di denti e che non mangia nulla da almeno due giorni. Gli facciamo chiedere perché non mangia e dopo una certa insistenza, superato un imbarazzo che percepisco essere profondo, il ragazzino sussurra di non riuscire a masticare più nulla. Scherzo con lui con le poche parole in francese che conosco, ma lui non risponde. E quindi lo visitiamo, io e le mie due compagne di avventura. L’ispezione del cavo orale mette i brividi: i suoi denti mostrano lesioni cariose spaventose, presenti praticamente ovunque. Sorridiamo a Michel, continuiamo a scherzare con lui durante la visita, come facciamo sempre perché il gioco ha un linguaggio universale, ma lui non intende partecipare. Non parla. Non sorride. Continua a guardarci con i suoi occhioni tristi.
Chiediamo spiegazioni all’educatrice, che in un inglese stentato ci spiega che il bambino è arrivato in Italia da poche ore, spedito in vacanza da una qualche associazione o da un assistente sociale. E’ riuscita a parlare con la madre la sera prima, venendo a sapere che il bambino soffre come un cane da giorni per il suo mal di denti. Cominciamo a capire. E già ci immaginiamo in quale situazione di disagio stia crescendo questo ragazzino triste e magro. Probabilmente anche malnutrito.
Impotenti, sappiamo che essendo domenica non riusciremo neppure a farlo visitare da un dentista. Gli prescriviamo un antibiotico e un antinfiammatorio, raccomandandoci di farlo vedere subito da uno specialista una volta tornato a casa. La donna dice che lo segnalerà alla madre e all’assistente sociale, ma ci rendiamo conto del fatto che Michel tornerà a casa e non verrà visitato da nessuno fino a che i farmaci maschereranno il dolore. Francia. Un paese occidentale. Non sapremo mai che fine farà Michel. Siamo abbacchiate. Tristi. Il nostro pronto soccorso, di domenica, offre solo questo a Michel: un paio di farmaci e tante raccomandazioni. Ma il prossimo paio di occhioni sta per entrare e dobbiamo salutarlo, dopo esserci accertate che gli vengano somministrati almeno i farmaci che abbiamo prescritto. La donna esce. Michel la segue, silenziosamente. Poi torna indietro. Ci guarda. E senza dire una parola dà un bacio sulla guancia a tutte e tre.

il Cinque

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vuoto a rendere

Posted by Rantolo on ottobre 04, 2009
pensieri / 6 Commenti

Di nuovo in pronto soccorso, ma stanotte non ho voglia. Capita sempre più spesso. Succede quando la vita non ti regala più soddisfazioni, nessuna novità e pochi barlumi di felicità ingannevoli. Con i pensieri immobili, ti chiedi se il tempo stia andando avanti o stia finendo. Guardo il telefono del 118, annunciatore di fatica, sperando che non squilli perché stanotte non sono in grado di essere un professionista, non sono e basta. Ho solo desiderio di tornare a casa e addormentarmi per avere l’illusione di non esserci. Tutta la città sembra volermi accontentare, addirittura capirmi; ormai sono le 4 di un giovedì qualsiasi, poche ore e potrò prendere congedo dal mondo esterno.

Non squillare, non squillare, e se squillerai risponderò, ma non perché credo in quello che faccio, non perché c’è bisogno di salvare un’altra inutile vita. Ma perché devo.

Il mutismo, fortuna mia, continua implacabile. Gli occhi cedono, la testa pesa. Un ultimo sguardo al box d’accettazione però tradisce la mai quasi assenza. Un cono di luce proveniente dalla scialitica illumina tanto il box quanto i miei ricordi. Sangue, guanti, drenaggi, cateteri, siringhe, camici, tutto nel silenzio più assordante. Sento il cuore accelerare, lo sento nel collo, sudo, ho freddo. Voglio sparire.

Mi alzo ed esco di corsa, prendo una sigaretta e la guardo arrossire mentre l’aspiro, apprezzando come un regalo di Natale il crepitio che emette consumandosi. Ho avuto paura, ma è passata, mi ha solamente voluto accarezzare per non farsi dimenticare.

E’ ora di andare a casa; la notte, beata lei, è già andata a riposare. Passo attraverso i colleghi come un fantasma, con qualcuno parlo, forse rido e scherzo, ma non me lo ricordo. La porta del pronto delinea a meraviglia i miei due mondi, troppo simili tra loro. Esco, sono distrutto come quando sono entrato.
Ora puoi squillare.

Rantolo

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