Il mio Natale è questa notte di guardia che è giunta al termine più vera di tante altre. E’ il mio collega che dall’altro ambulatorio mi chiede, per favore, B, questo bambino, lo visiti anche tu? E lo so che tu non sbagli, che toccandogli la pancia troverò anch’io ciò che non vorrei trovare e sto quasi per dirti che si vede già a occhio nudo, lì, a sinistra, figuriamoci sotto le dita.
Incrociamo uno sguardo di madre così devastato dalla preoccupazione (come invocasse cautela dalle parole che stanno per essere dette), che ci toglie quell’impeto di pronunciarci a tutti i costi, anzi, ci fa rimanere silenziosi, ci fa diventare per un momento anche noi madre e padre di uno sui dieci anni, un po’ svogliato a scuola, ma simpatico da morire, con il labbro leporino che gli distorce un po’ i sorrisi, che peraltro non risparmia a nessuno.
Mentre gli fai l’ecografia i suoi occhi a mandorla ci rivelano un lungo viaggio tra due culture, attraversato da poco, verso un presente di serenità probabilmente troppo fragile: le fiammelle del color-doppler nell’immagine si muovono in una danza che avremmo preferito non vedere. Ci guardiamo tutti insieme e uno per uno. Mi scopro annuire a domande che non sono state poste, se non con un breve cenno degli occhi. E adesso non vi lasciamo soli, non ora che è indispensabile diventare spalla, orecchio, mano tesa: il pensiero è per voi genitori appena sbarcati su un continente ignoto, dove si parla una lingua diversa, si conta in millilitri, si misurano i giorni in buoni e ostili, in ore fuori e dentro l’ospedale, chissà per quanto tempo.
Il mio vero Natale d’amore siamo tutti noi qui che ti guardiamo, ben oltre il termine del nostro turno di guardia, da dietro i vetri della Radiologia, mentre ti sdrai nella TAC e dici “mamma, ma è una macchina fotografica enorme questa roba qui! Davvero ci posso entrare?”.
Badev