Posted by supergiovan8
on maggio 21, 2015
emozioni /
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Foto di PB
Ultima notte di vita di una centrale operativa
Qui dentro sono state combattute e coordinate tante battaglie, dalle più banali alle più difficili.
Ogni operatore ci ha messo la testa, il cuore e anche la schiena per portare a termine ogni missione con professionalità, avendo sempre come obiettivo il bene per l’utenza.
Ogni tanto sarà sembrato di aver perso ma una missione andata bene cancella la tristezza di 100 negative (forse non sempre…)!
Tante persone hanno affidato completamente la loro vita, quella di un caro o di un perfetto sconosciuto a “ignoti” che dietro a un telefono avevano il potere, e l’onore, di provare a portare la vita a chi, in quel momento, ne aveva bisogno, infondendo speranza e istruendo persone digiune di qualsiasi nozione clinica a valutare il paziente per fargli poi eseguire manovre salvavita, spesso non procrastinabili.
Questi “ignoti”, poi, come per magia si materializzavano in pochi minuti e prendevano in mano le redini del soccorso, infondendo ora qualcosa di più concreto per poi scappare in tutta fretta, come se si trattasse di un rapimento.
Questi “ignoti”, ora, arriveranno ancora in tempi supersonici a soccorrerci però non risponderanno più loro al telefono, il che non è poco!
I nostri ignoti, che hanno fatto la storia del 118, non solo provinciale, veglieranno comunque sempre su di noi, nei giorni più caldi e nelle notti più lunghe.
Grazie di tutto!
supergiovan8
Tags: 118, Centrale operativa, operatori, soccorso
Posted by Stellasplendente
on maggio 12, 2015
racconti /
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Foto di MV
Il barbone fumè sfiorava il petto, sopra la camicia hawaiana tarmata, ed era pieno di briciole di pane e residui di cibo. L’addome gonfio per l’imponente versamento ascitico gli rendeva difficili tutti i movimenti. Stava seduto a bordo letto con le gambe gonfie, che trasudavano siero, penzoloni dal letto. Accanto a sé, sul tavolino bianco di plastica, in mezzo a bottigliette d’acqua vuote e fazzoletti di carta usati arrotolati, una fotografia che lo ritraeva, con qualche anno in meno, ma sempre con l’inconfondibile barbone, insieme a un cane di media taglia color champagne, intento a leccargli l’avambraccio sinistro.
L’uomo, tossicchiando, cercò di attirare l’attenzione della dottoressa, intenta a fissare l’immagine. Sembrava le avesse letto il pensiero.
“Lui è Jack”, la voce dell’uomo, da vecchio fumatore di sigarette, era roca. Gli occhi erano solcati come da pneumatici di un TIR. “L’ho trovato per strada due anni fa. Anche lui un randagio, come me”, aggiunse con un fil di voce. Era evidentemente dispnoico e la posizione seduta gli permetteva di respirare un po’ meglio.
“E dov’è ora?”. Gli occhi verdi della dottoressa non riuscivano a staccarsi dalla fotografia. Immaginava le mani callose e unte dell’uomo che accarezzavano la bestiola.
“L’ho dovuto lasciare alla signora Maria, la perpetua del parroco. L’unica che si ricordava di portargli qualche scatoletta di cibo. Lo terrà con sé qualche giorno, poi lo porterà in canile. Il suo padrone di casa la scaccerebbe se sapesse che tiene un animale in casa”. Gli occhi dell’uomo si fecero umidi e con la mano si asciugò una lacrima. La dottoressa deviò il suo sguardo sulle unghie luride del suo paziente e pensò che gli infermieri avrebbero avuto un bel po’ di lavoro di brusca e striglia da effettuare.
“Ma non ha qualche parente cui affidarlo durante il periodo della sua ospedalizzazione?”. La dottoressa non riusciva a darsi pace. Il suo interesse per la creatura era ben superiore a quello che avrebbe dovuto prestare per raccogliere l’anamnesi del paziente. In realtà era l’aspetto umano di chi vive per strada e per di più con un cane, quello che le interessava. Immaginava l’uomo che, con la sua grossa stazza e i vestiti lerci e sgualciti, se ne stava sdraiato su un pezzo di cartone per strada, in fila indiana con altri clochard lungo il ciglio di un’affollata strada pedonale del centro cittadino, con a fianco il suo cane scodinzolante. Riusciva a immaginare anche il rivolo di saliva che usciva dalla bocca della bestia mentre leccava il suo padrone e i suoi grandi occhi neri sognanti, innamorati del grande uomo senza casa. Si sentì stringere il cuore in una morsa di dolore e di compassione.
“Dottoressa, io non ho parenti e non ho amici. Ero solo al mondo, prima che arrivasse Jack nella mia vita. Lui è tutto quello che ho in questa vita. Non desidero altro”. Una goccia di sangue uscì dalla bocca dell’uomo. Si stava mordendo forte il labbro con il suo unico dente rimastogli, un premolare inferiore nero e cariato. La dottoressa si avvicinò con una garzina per tamponargli la bocca, ma prima indossò i guanti di lattice. L’alito dell’uomo era quello della frutta marcia e la dottoressa scostò il viso e si pinzò discretamente le narici con la mano sinistra, quella non intenta al soccorso.
“Mettiamo un po’ di ossigeno”. Il respiro del paziente si faceva sempre più rapido e superficiale. La dottoressa prese un saturimetro e la fronte le si aggrottò leggendo il numero sul display: ossigenazione sessantacinque per cento!
“Dottoressa, io…io devo scendere sotto nell’atrio”.
“Non se ne parla neppure!”. La voce della dottoressa era ferma e risoluta. Preparò l’erogatore nasale decisa a imporlo al suo paziente. Non c’era tempo da perdere.
“Devo scendere. Devo! Voglio vederlo. Un ultima volta. Il mio Jack! E poi farò quello che dice Lei. Poi morirò in pace”. Le labbra si facevano sempre più cianotiche e il respiro stertoroso. Si potevano udire grossolani rantoli senza bisogno del fonendoscopio.
La dottoressa si rese conto che sarebbe stato inutile cercare di fermare il suo paziente. Con uno spintone avrebbe potuto farla cadere. Anche se debole e fiacco, la sua corporatura massiccia e l’enorme quantità di liquidi accumulati nell’addome e nelle gambe, lo rendevano imponente.
L’uomo si alzò risoluto dal letto. Appoggiò le gambe a terra e cercò di fare uno, due, tre passi. Poi le gambe cedettero e il barbone cadde a terra, franando fragorosamente con la testa contro il lavandino posto di fronte al letto. Il suo unico dente schizzò via dalla bocca e la barba si riempì di schizzi di sangue, che imbrattarono anche la camicia hawaiana.
La dottoressa afferrò un campanello e lo schiacciò con tutta la sua forza: “Aiuto! Presto! Portate il carrello dell’emergenza e il defibrillatore!”.
Il corridoio freddo e grigio si riempì di rumore di zoccoli sul pavimento appiccicoso di detersivo. In pochi istanti l’uomo aveva tutti intorno a sé, tutti quelli che negli anni lo avevano guardato senza vederlo, fantasma in carne e ossa. Si ritrovò in un baleno con un tubo in gola e placche che scaricavano elettricità sul torace peloso. Braccia affaticate gli premevano contro il petto, imprecando contro il tempo, e che gli conficcavano aghi nella pelle per somministrargli i farmaci della speranza.
Nell’atrio dell’ospedale un cane di taglia media color champagne e una donna canuta attendevano, invano. Il cane, improvvisamente, smise di scodinzolare. E tutto, intorno a lui, si fece buio.
Stellasplendente
Tags: barbone, cane, pronto soccorso
Posted by Midiego
on maggio 01, 2015
ritratti /
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Foto di MV
Entra in reparto un barella, accompagnata da mascherine di protezione, è la prima cosa che noto, si accende il dubbio… Sulla barella spiccano oltre la mascherina un paio di occhi, di quelli che noi occidentali non possiamo permetterci. Un insieme di ossa raggruppate da un velo di pelle, una voce flebile imbarazzata, e lo sguardo sperso, impaurito. Non parla italiano, ne’ inglese, ne’ francese, ma una lingua che viene da lontano, talmente radicata nelle sue origini che prende il nome dal proprio popolo. Il traduttore c’è e mi aiuta a capire chi mi trovo davanti, almeno in senso clinico.
È quello che viene dopo che fa la differenza.
Costretto in isolamento dentro una stanza, solo, sento per lui l’ulteriore discriminazione che si aggiunge a quella che c’è già in giro, come se non bastasse. Porta sulla pelle i segni della guerra, le cicatrici dell’imposizione di presunti valori e regole che non appartengono a nessuna morale se non quella che segue la follia umana. Nella banale intimità del corridoio mi racconta a gesti e improvvisate parole come la baionetta gli abbia trafitto il torace, il calcio del fucile ferito la fronte, le percosse e le cinghiate abbiano segnato in realtà soltanto quel velo di pelle..
La verità è che hanno compromesso definitivamente orgoglio, anima, cuore, sentimento, dignità, diritti.
La verità sono gli otto mesi di cammino a piedi dall’Afghanistan all’Italia, e i suoi compagni morti di stento, con dentro agli occhi soltanto più la speranza di quel cammino.
La verità sono i suoi fratelli minori uccisi a colpi di kalashnikov, i suoi figli e sua moglie rinchiusi in casa per non cadere sotto i cecchini.
La verità sono i valori di una religione antica, manipolati per seminare terrore tra la gente, una guerra tra i poveri.
La verità traspare da quegli occhi.
Che alla fine su quel letto d’ospedale siamo poi tutti uguali senza distinzione alcuna.
Che fermarsi ad un pregiudizio, non ne vale mai la pena. Mai.
Midiego
Tags: extracomunitari, guerra, migranti