i tre ragazzi

Posted by Herbert Asch on Aprile 25, 2009
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I tre ragazzi sono evidentemente alle prime armi. Si vede subito.
Così come si vede subito che sono sversi tutti e tre, per aver visto il loro primo morto, che gli è morto quasi, letteralmente, nelle braccia…
Non mi ero accorto subito di loro, la chiamata indirizzava su un paziente in una stanza della medicina all’ultimo piano.
Ma già era sospetto il fatto che il paziente fosse su una barella d’ambulanza, dove peraltro, veniva correttamente massaggiato e ventilato da due infermiere.
La collega del reparto mi spiega brevemente il caso: broncopneumopatico, fumatore incallito, con diagnosi di tumore alla vescica, metastatizzato ad ossa e fegato, che andava ad un ospedale vicino, come le precedenti tre settimane, per fare un ciclo di radioterapia.
Era un uomo corpulento d’aspetto piuttosto trasandato, i vestiti stazzonati, la barba da fare, le mani rinsecchite, con le unghie non curate, le dita marroni di fumo.
Per il paziente era subito stato chiaro che non c’era più niente da fare, anzi, l’improvviso coccolone aveva messo fine sicuramente ad un calvario di sofferenze difficilmente sopportabile.
Ora era arrivato al capolinea, anzi, più precisamente aveva trovato questo capolinea appena uscito dall’ascensore al pianterreno, sul percorso che lo portava in ambulanza.
E gli ambulanzieri, appena visto che non parlava più, avevano ripreso la strada al contrario e l’avevano precipitato nuovamente indietro in reparto, nella sua stanza. Dove aveva anche cessato di respirare ed erano iniziate le manovre rianimatorie.
Manovre che avevamo poi interrotte una volta constatatane l’inutilità.
Il nostro povero paziente aveva finalmente trovato la strada giusta per l’uscita, probabilmente anche con sua intima soddisfazione, visto la terapia antalgica che gli avevano impostata. Le metastasi ossee danno spesso dolori difficilmente controllabili, in questi tumori. Amen.
Pertanto ora che le manovre rianimatorie si erano esaurite, si trattava di riprenderlo dalla barella autocaricante della lettiga, abbassata a livello pavimento per le manovre, e passarlo sul suo letto, in attesa del tanatogramma e dei vari adempimenti burocratici.
– Facciamoci dare una mano dagli ambulanzieri! – propongo. – Falli entrare! A questo punto sono comparsi sulla porta i tre, due ragazzi e una ragazza, infagottati nelle divise arancione dei soccorritori, vent’anni scarsi a testa, pallidi anzichenò, con le facce stravolte. Hanno realizzato che il loro paziente è morto, più precisamente gli è morto sotto gli occhi, proprio in quei momenti lì quando lo riportavano in reparto.
Capisco subito che ho avuto una pessima idea a farli entrare in gioco. In fondo c’era gente e non c’era così bisogno.
Attimo di incertezza.
Incrocio lo sguardo con la Caposala, infermiera di gran buonsenso ed esperienza, che conosco da tempo.
– Forse è meglio offrirgli un caffè! – dico, correggendo il tiro.
– Certo! venite che ve lo metto su – risponde lei rivolta ai tre – qui lasciate stare che ci pensa il personale di reparto! – Ci siamo intesi al volo.
– Si, certo, così vengo anch’io, un caffè lo prendo volentieri. Venite – Ne prendo uno sottobraccio.
E ce li portiamo in cucina, mentre il personale di reparto sistema la stanza..

Il debriefing non è semplice, sono tutti e tre molto scossi, uno non vuole stare comunque, esce a fumare.
Gli altri due si siedono, ma ci va un attimo prima che riprendano un filo del discorso, prima che diano retta a chicchessia.
Prima cerco di buttarla sul tecnico: avete visto la classica situazione dell’arresto cardiaco, è proprio in questi casi che si applicano i gesti che vi spiegano ai corsi di Primo Soccorso… anche se in alcuni casi c’è poi il giudizio del medico… Cerco di dire qualcosa, spiego che hanno fatto tutto quel che c’era da fare, che hanno fatto nel modo migliore, che la storia non poteva concludersi che così, per quel signore, è stato solo un caso che loro si siano trovati in mezzo…
Ma loro sono giovani che si sono trovati improvvisamente vicino alla Morte, non la loro, per fortuna, ma l’han vista da vicino, su uno che un po’ avevano imparato a conoscere:
– Si nascondeva sempre la sigaretta in tasca e la tirava fuori quando usciva dall’ospedale… – ricordava uno di loro.
E poi, adesso, improvvisamente, zot! finito, schiodato lì.

E a me veniva in mente la mia, di storia.
Ho fatto questo lavoro per più di vent’anni, comincio adesso (e forse mi sbaglio) ad essere un po’ più sicuro e meno incerto, avendo sviluppato quel sesto senso che ti viene dall’esperienza di essere chiamato a qualunque ora del giorno e della notte a cercare di capire quel che altri non han risolto, di salvare quel che forse è già perso… io, proprio io che da ragazzino avevo paura dei morti, che odio prendere decisioni irrevocabili proprio tanto quanto amo ricercare le infinite variegature delle possibili soluzioni…
E questa mia pretesa sicurezza l’ho pagata cara, perchè non è semplice passare indenni e mantenere la testa fredda quando sei in situazioni critiche, dove devi capire, prendere decisioni, fare cose, da cui dipende (letteralmente e senza retorica) la vita altrui.
Vedendo magari spettacoli da Gran Guignol con gente incastrata tra le lamiere, con il corpo lacerato, istupidita dal dolore o dalla violenza che ha appena subito.
Diventi poco a poco più sicuro, ma, necessariamente più insensibile; e questa insensibilità te la porti dietro anche nella vita, alla fine non ti diverti più fino in fondo, non ridi più di gusto nè piangi da sfogarti.
Non scrivi più lettere, poesie e forse a volte è anche meglio non pensare.

E allora, io, che cazzo gli posso dire io a questi qui?.

Che sono sfigati, che si son trovati in mezzo e non è colpa di nessuno, che quando finiscono il turno si lavino bene le mani e sciacquino tutte le miserie che hanno visto e le lascino lì nel lavandino, che la vita fuori, per fortuna è diversa, che vadano a divertirsi, che pensino ad altro, che la loro parte l’han fatta…
Poi non dico niente e lascio concludere alla Caposala, che forse è un po’ teatrale, ma è sicuramente efficace:
– Datemi retta, lo conoscevamo bene, qui. Era un buon uomo ed ha sofferto tanto. Ora sono sicura che lui di lassù adesso è contento, finalmente, ed è tranquillo.

E pace all’anima sua.

Herbert Asch

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come dire

Posted by Herbert Asch on Gennaio 22, 2009
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Sarà stato un anno fa più o meno, iniziavo il turno, niente in consegna, un giorno d’inverno qualunque.
Poi il triage del Pronto telefona che arriverà un intubato con l’eli, hanno avvertito.
Scendo a vedere.
Il Pronto, al solito, sembra traboccare, ma qualche buco c’è ancora, liberiamo una postazione, preparo il respiratore, mi accordo con l’infermiere per i farmaci da preparare, solite cose che fai per colmare l’attesa, tenendo a bada il sottile filo d’ansia che ti mette il preallarme: in fondo non sai mai cosa arriva, può essere un paziente normale, anche se grave, ma puoi trovarti anche improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile.
Tutto quel che hanno detto dal 118 è che arriva un trauma da un grosso incidente.
Ci mettono forse un pochino più di quel che ci aspettiamo, ma alla fine distingui le divise rosse con l’imbrago giallo. Sono loro.
Il mar rosso dei pazienti in attesa si apre, arriva l’infermiere che comprime l’ambu, il collega con in mano la scheda che sta finendo di scrivere.
È una donna giovane tutta confezionata a puntino, sulla tavola spinale con la metallina dorata e le cinghie che la fasciano, monitorizzata, intubata, sedata, ventilata.
Il collega che l’accompagna mi riconosce e mi saluta, anch’io facevo parte del circo qualche anno fa.
Mi lascia le consegne: grosso incidente, scontro tra auto e furgone, più altri veicoli coinvolti.
Sul furgone viaggiavano due donne e un bambino dietro.
Gli autisti, feriti, smistati negli ospedali vicini, lei da noi che avevamo dato un posto di Ria. Degli altri non sapeva, erano intervenute anche altre ambulanze
La paziente al loro arrivo era sbalzata nel prato a qualche metro dal furgone, non rispondeva, ma non sembrava avere grossi traumi evidenti. Vista la dinamica e per sicurezza nel trasporto l’ha confezionata come da protocollo e via andare.
Mi dice anche che vicino a lei, nel prato, c’era un bambino 4-6 anni, morto, che viaggiava con lei.
Mi dà i documenti che aveva addosso: nome arabo, nazionalità marocchina, una foto presa col velo.
Veloce programma per la paziente, che tutto subito non mi sembra così critica, i parametri sono buoni, non ci sono evidenze di grossi traumi. Facciamo partire gli esami, un gruppo e prove crociate per ogni evenienza. La porteremo a fare la tac, poi in Ria, su ho posto.
La tac mi tranquillizza abbastanza, per fortuna non ha grosse lesioni, ma decidiamo di svegliarla lentamente e la teniamo lo stesso in Ria monitorizzando l’evoluzione.
Mezz’oretta dopo arrivano i risultati degli esami, e mi telefona il collega del Centro Trasfusionale: c’è qualcosa che non quadra, il gruppo sanguigno dei prelievi fatti su di lei non coincide con quello che risulta per quel nome e data di nascita all’AVIS, tempo fa aveva fatto un piccolo intervento, avevano però fatto il gruppo e la tipizzazione era diversa.
Guardiamo meglio la foto, comparandola al viso ma come riconoscere un volto, per di più con la foto presa col velo…?
Intanto segnalo al poliziotto di guardia che forse il nome non quadra, anche loro mi confermano il sospetto che i documenti appartenessero ad un’altra persona, anche lei coinvolta.

Due ore dopo suonano alla porta, un magrebino piccino, dimesso, la camicia abbottonata senza cravatta, una giacca modesta.
Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già sospetto.
-Mia moglie è qui? Mi hanno detto che l’anno portata qui, ha avuto un incidente-
L’italiano è incerto, parlo lentamente cercando di capire se riesce a comprendere.
Gli spiego che c’è una signora, ma non siamo proprio sicuri di chi sia, non dovrebbe avere grosse cose, abbiamo fatto degli esami, però è meglio per sorvegliarla, aspettiamo che si svegli. Lui dice se può vederla che può riconoscerla.

Lo faccio passare, poi si volta e mi fa la domanda che non volevo sentire:
-e mio figlio? …Anche lui è qui?-

Nicchio che non so, che hanno portato solo lei, ma lui è ancora più inquieto
– allora dov’è, dove l’hanno portato?!-
Dico che mi sarei informato, che intanto se voleva vedere la signora…
Lui va avanti, io passo al bancone, telefono in centrale 118 per sapere il bambino dove l’han portato.
Mi dicono che è nelle camere mortuarie dell’ospedale vicino al luogo dell’incidente, a una cinquantina di chilometri da noi.

Intanto il nostro ha riconosciuto la moglie, e ci spiega i documenti erano dell’altra donna coinvolta nell’incidente.
Lo rassicuriamo che tra poco pensiamo di svegliarla, la teniamo lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio.
-e mio figlio?-
-mi hanno detto che lo hanno portato all’ospedale vicino al posto dove hanno avuto l’incidente-
Intanto telefono al centro Trasfusionale, adesso che ho i dati giusti e al poliziotto.
Lui si avvia verso la porta, dove lo aspetta un altro parente o un amico.

Poi mi richiamano.
Vado alla porta
-ma mio figlio come sta?-
-non so, non mi hanno detto, forse è meglio che chieda laggiù-
Non me la sento di essere io a dare la notizia, non voglio essere io accidenti!
Parlano ancora tra loro.
– L’ospedale è distante e adesso non abbiamo la macchina: ci sono autobus per arrivare là?-
-Non saprei, credo sia lunga… – non so cosa dire e capisco il dramma che sta vivendo questo poveretto. Non voglio neanche che, nell’incertezza delle condizioni si precipiti magari su un taxi, nella nebbia, per una situazione che, ormai non ha più nessuna urgenza. -Vuole che proviamo di nuovo a telefonare?-
-lei può?-
-venga dentro. Proviamo- Tiro in lungo, ma non so cosa fare.
Telefono al Pronto Soccorso dell’altro ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia effettivamente anche un bambino di sei anni morto.
Mi confermano..
L’omino è di fronte a me, e scruta il mio volto in attesa di notizie.
Ovviamente della telefonata non ha capito un accidente, sono stato volutamente scarno di parole.
Metto giù.
Gli sguardi si incrociano.
Lui parte per primo, ma ha cominciato a capire:
-Ma… è morto?-
Stringo la bocca con una smorfia e accenno appena con la testa.
Adesso ha capito anche lui, senza errore.
Ed io preferirei essere, di gran lunga, improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc.

Herbert Asch

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l’anestesista

Posted by Herbert Asch on Dicembre 03, 2008
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“L’anestesista, Nakash, aveva voglia di chiacchierare con me. Era sui sessantacinque, asciutto e ossuto, e la tonsura bianca intorno alla testa pelata contrastava simpaticamente con la tinta scura della carnagione. (…) In India avevo visto non poche persone che me l’avevano ricordato e che mi avevano ispirato istintiva simpatia. Hishin (il capo chirurgo) lo stimava e amava lavorare con lui, anche se non era l’anestesista di maggiore spicco. «Nakash non sempre capisce cosa succede durante l’operazione – diceva alle sue spalle – ma è sempre vigile, anche in quelle che durano dieci ore. E questa è la cosa più importante. Perchè il paziente si abbandona non nelle mani del chirurgo, bensì in quelle dell’anestesista». (…)
Nakash mi chiese se ero interessato a un po’ di lavoro privato, cioè a fare da assistente nelle operazioni cui partecipava in una clinica. (…)
«Ma non ho nessuna esperienza in anestesia», osservai stupito.
Al che Nakash spiegò che la specializzazione in anestesia era alla portata di chiunque, la parte tecnica era facile e la si assimilava rapidamente, mentre la cosa più importante era non abbandonare l’anestetizzato, pensare anche alla sua anima, oltre che al suo respiro. Mentre il chirurgo e la sua squadra durante l’operazione sono concentrati esclusivamente su un angolino del corpo, l’anestesista è l’unico che pensa sempre al paziente nella sua integrità, e non come insieme dei vari elementi. L’anestesista è dunque il vero medico interno, mentre il chirurgo fruga avidamente nelle viscere.
«Credimi, in vita mia ne ho visti tanti di chirurghi. Chi li conosce meglio di me? Ma ti ho visto un po’ all’opera e non fa per te. Il tuo bisturi è titubante, perchè pensa troppo. Non perchè ti manchi l’esperienza, ma perchè sei troppo responsabile. E in chirurgia non ci si può permettere di essere troppo responsabili, perché così non si va avanti, non si fa nulla. Bisogna prendere il coltello in mano: per ridurre a pezzi un essere umano e fargli ancora credere che sia un toccasana. Bisogna davvero essere un po’ ciarlatani e un po’ giocatori d’azzardo».”
da “Ritorno dall’India” di Abraham B. Yehoshua.

Herbert Asch

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Tatiana

Posted by Herbert Asch on Settembre 20, 2008
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Tatiana ha uno sguardo dolce ed un poco assente di occhi verdi, chiarissimi, liquidi, i capelli sono morbidi riccioli lunghi, ancora neri, appena spruzzati di bianco. Ha un grosso orecchino da gitana ed una collanina di perline di plastica annodata al collo. L’aspetto è sporco e un po’ trasandato come di gente che arriva da chissàdove.Di lei dicono sia rumena, avrà sui quarant’anni e nonostante l’obesita il suo corpo lascia trasparire delle fattezze piacevoli in gioventù. È enorme, nel letto d’ospedale, dove è stata ricoverata dopo il suo ictus che le ha tolto la parola e paralizzato metà del corpo. Per la verità è già arrivata così dal suo paese: sulla strada dell’emigrazione le è preso il coccolone, e l’hanno brevemente ricoverata in un paese vicino alla frontiera, lo testimonia un burocratico foglietto scritto in una indecifrabile lingua dell’est, dove si comprende solo il nome di un farmaco, ma poi è stata caricata in auto o chissà con quali altri mezzi e per quali strade è stata portata in Italia.

Del ricovero conservava ancora il catetere vescicale, nascosto sotto le gonne Poi i parenti hanno chiamato l’ambulanza, un po’ perchè imbrogliava, dava fastidio, la vita è dura per chi viene da fuori così, forse non c’è tempo, nessuno può accudirla e poi sanno che qui qualcosa le faremo, cercheremo di curarla, in fondo è un attestato di stima anche questo.

Mia madre sta male, avranno detto in una stentato italiano, e così eccola qui.

Adesso è qui davanti a me, con lo sguardo imbambolato un po’ perso nel vuoto, guarda fuori della finestra, non sono sicuro che sia per la sua lesione o solo che cerchi di capire fuori dove si trova. So solo che è afasica, non riesce a parlare, non si capisce se comprende quanto le viene detto (puo’ esserci una afasia anche in questo senso); sicuramente non capisce una parola di italiano. Ed io dovrei incannulare a lei una vena centrale, cioè pungerla al di sotto della clavicola con un ago sufficientemente lungo da raggiungere la vena succlavia, ma anche (e malauguratamente, provocando qualche danno) la pleura, se lei non starà ferma. Dovrei cercare di spiegarglielo.

Gli infermieri mi hanno detto che non è venuto nessuno a trovarla in questi giorni, che ormai è quasi due settimane che è qui; e non hanno né un indirizzo né un numero di telefono di parenti. Anche se dall’aspetto non era una zingara.

Ho già cercato in ospedale se ci fosse qualche rumeno, tra i parenti dei ricoverati, in Pronto mi hanno detto che c’è un’allieva infermiera rumena, ma oggi non è di turno, forse in chirurgia c’è un’infermiera extracomunitaria: la cerco, peccato è polacca e non parla il rumeno. Pazienza Cerchero’ di spiegarmi a gesti, le faccio vedere una flebo, le parlo e le spiego in italiano, sommariamente, lo sguardo si ravviva una attimo: percepisco che intende che le sto dicendo qualcosa, anche se non ne capirà il senso.

L’infermiera la posiziona, io agisco, lei rimane ferma durante tutta la procedura, forse le ho fatto un po’ male. Quando ho finito rimane con la testa voltata verso la finestra le passo davanti per andare via, le faccio segno che abbiamo finito, le sorrido, per farle capire che tutto è andato bene, batte le ciglia, forse ha capito.

Lascio lì Tatiana a guardare fuori.

Herbert Asch

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agonia

Posted by Herbert Asch on Agosto 27, 2008
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Dieci di sera di una guardia qualunque, mezza stagione, calma piatta. Pronto, Dottore, venga giù, hanno telefonato che arriva un paziente grave!” Scendo le scale ed arrivo in Pronto Soccorso in pochi secondi; intanto si sta già annunciando una ambulanza alla porta, scendono poco convinti due militi ed una signora giovane. Sulla barella c’è una povera vecchietta incartapecorita, ormai con un respiro agonico, la “facies ippocratica”, affilata, eloquente segno di una fine incipiente ed ineluttabile. La signora viene introdotta nella stanza di emergenza, il pubblico esce, e rimaniamo nella stanza l’infermiera, la mia collega della Medicina ed io a guardarci negli occhi. Dal punto di vista clinico la situazione è palesemente senza alcuna speranza: è un coma profondo, con un respiro superficiale in una paziente molto anziana, defedata, anzi, per usare un termine poco tecnico, ma efficace, che è consunta, consumata.

“Devo fare qualcosa?” dice l’infermiera. “Cosa vuoi fare?” dico io. “Uno non ha neanche più il diritto di morire in pace…” osserva la collega.

Esco a chiedere qualche notizia in più, tanto per capire. Fuori c’è la responsabile del centro presso cui la signora era ospite, una casa di riposo delle vicinanze; è visibilmente scazzata, forse di essere dovuta venire ad accompagnare, chissà dov’era: tacchettini, camicetta e golfino, ampia gonna, niente di operativo. Magari era in giro ed è rientrata, magari è capace che si è cambiata per accompagnare l’urgenza; i parenti sono stati avvertiti e debbono arrivare.

“La signora prendeva delle medicine ?”. “Certo, gliele hanno date nel corso dell’ultimo ricovero presso l’Ospedale di *** (un piccolo, ma efficiente ospedale di Medicina Generale dei dintorni), ma poi l’hanno dimessa una settimana fa dicendo che non c’era più niente da fare, che le cure non sarebbero più servite a granché”. Il tutto pronunciato con l’aria di dire: non potevano tenersela lì.

Arriva intanto una parente un po’affannata, con gli occhi rossi di pianto: “Sono la figlia!… è …?” “No signora, non è ancora morta, ma non ci vorrà molto… – e qui non so tenermi glie lo chiedo, anche se “cun bel deuit”, educatamente, senza aver l’aria di cazziare “…ma come mai ce l’avete portata qui se vi avevano detto che non c’era più niente da fare?” “Ah, come possiamo sapere noi… siamo mica dottori” sbotta la responsabile “magari qui potevate fare ancora qualcosa… non so… qui siete attrezzati, avete l’ossigeno, noi lì abbiamo mica niente!”

Lascio perdere e torno dentro.

I respiri si sono diradati, sono diventati delle contrazioni del torace; la bocca è aperta, rilasciata. Quante volte ho insegnato agli allievi infermieri o ai soccorritori a ricercare i segni della morte imminente, della cessazione del respiro, del battito del cuore, dello shock per poterli contrastare e per poterli supplire con le tecniche di rianimazione. E quante volte ho visto questa scena, talvolta lottando, per combattere la morte (nessuna retorica, ma sono Rianimatore, è il mio mestiere), talvolta assistendo impotente, quando si tratta di constatare il decesso di chi è vittima di gravi incidenti, talvolta inattivo, cercando solo di alleviare le sofferenze dei pazienti ormai incurabili. E tutte le volte, al di là degli atti tecnici, che vengono compiuti ormai quasi automaticamente, ho sentito un senso di sacralità incombente, quasi di intimità violata, di pudore estremo ad osservare una morte.

Sono diventato tutto ad un tratto come disgustato da quella che mi viene di definire oscenità di questa morte abbandonata così su una barella di ospedale, in un posto dove tante volte si è lottato, ed ora si assiste forse indifferenti e si attende un epilogo previsto.

Non si ha più il diritto di morire nel proprio letto?

Herbert Asch

Giuanin d’la crava

Posted by Herbert Asch on Agosto 24, 2008
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L’omino magro e segaligno era accudito dalla figlia, una donna di piccola statura non carina, ma dall’aria sveglia, che gli faceva aria nel corridoio. Ricordo che l’avevo fatto accompagnare in antisala per incannulare una centrale, poi una serie di eventi l’aveva fatto passare in cavalleria e ormai attendeva da un po’. Si lamentava che gli mancava il fiato e la povera figliola sventolava la rivista che si era portata per tener compagnia al papà, non sapendo cos’altro fare di fronte a questa sofferenza triste e lamentosa. Alla fine lo feci entrare scusandomi e presi la cartella per controllare la richiesta e qualche notizia precedente. Poi, richiudendola, mi era saltata all’occhio nell’intestazione una parola strana, atipica per le solite banalità che si ritrovano nei documenti burocratici. Professione: ACROBATA.

Lo guardai, gli chiesi. – Oh sì, mi conoscevano tutti in valle: “Giuanin d’la crava”; perché, sa, avevo una capra ammaestrata e poi facevo il fantasista! – Improvvisamente il documento, freddo e burocratico, si era colorato di tanti colori, un po’ sbiaditi dal ricordo, ma ancora vivi comunque, pensa un po’: “acrobata”.

Ci sono andato ancora qualche volta in questi circhi piccoli e scalcagnati , dove in una famiglia o due, sempre tanti sono, fanno tutto, dai numeri di pista alla maschera sulle tribune, tutti interpretando più ruoli, perché la roba da fare è tanta e la gente è poca, o meglio, più si è e più bisogna dividere il magro gruzzolo. Doveva essere stata dura da queste parti per l’epoca. Avrei voluto parlarne ancora, ma non mi son sentito, l’uomo era stanco, di quella stanchezza finale, esaurita, che ritrovo talvolta non nei moribondi, ancora, ma come dire, nei segnati, in quelli che è destino finisca da lì a poco. Feci quanto richiesto, non aveva più voglia di stare lì, poi l’ho rimandato nel suo letto, frasi di circostanza. Ho pensato che magari passavo più tardi in reparto con la scusa di vedere se tutto andava bene, ma poi la cosa è passata, altri eventi hanno coperto lo spiraglio, e via andare! Quante storie ci sono attorno, ognuna portata dentro da ciascuno, con il suo fardello di vita, i suoi ricordi: è stata la maestra di quel paesino per tanti anni… E’ stato in campo di concentramento…, trent’anni di Fiat, ma dagli anni venti!… quante testimonianze di realtà ormai distanti molto più nei fatti che nel tempo. Povero Giuanin, col suo fiato corto che lo aspetta forse pure una morte dura, brutta, soffocato dal suo cancro al polmone. Eppure ce n’è mica tanti che sulla cartella hanno scritto, come fosse una pennellata d’acquarello: “Professione, ACROBATA”.

 Herbert Asch

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