cronache

Brutto, sporco e cattivo.

Posted by rem on settembre 26, 2017
cronache / 1 Commento
foto di MFR

foto di MFR

Mentre lo trasbordano dalla barella dell’ambulanza, emana una nuvola di polvere e un fetore che ti tiene lontano, a metri di distanza; ha una casacca e dei pantaloni luridi, bagnati e spessi da cui cascano piccoli pezzi di terra ed erba e chissà cos’altro
Il volto paonazzo, la barba bionda tutta appiccicata, fa tutt’uno con i capelli da sembrare una criniera e, in effetti, lui muove la testa roteandola e per giunta ci aggiunge dei suoni incomprensibili, si direbbe un ruggito, sembra il leone delle Metro Goldwyn Mayer

Ha due occhi azzurri che sembrano non entrarci niente con tutto il resto, vagano persi senza contatto con l’ambiente, si direbbero anche loro senza fissa dimora, chissà cosa guardano chissà cosa cercano… Ogni tanto lancia urla primitive, ma non sembra sofferente, se ti avvicini si oppone, oppositivo si dice, oppositivo e incomprensibile
Tutto è incomprensibile in questo uomo spiaggiato sulla barella come un migrante venuto chissà da dove. Lo spingono gentilmente lungo il corridoio mentre tutti i presenti fanno facce schifate e si tappano il naso con le dita, poi via dentro una stanza singola, deodorante spray a manetta in una stanza desolante del pronto soccorso.

Il solito barbone ubriaco
Ne passano troppi per farci caso
Dopo qualche ora, smaltita la sbornia, si alzano raccolgono le loro cose e si allontanano.
Sono problemi che si risolvono da se, non c’è niente che si debba fare

E altri mille casi suonano il campanello del Triage

Ma questo non si alza.
Meglio andare a guardare
È lì da un po’, si lamenta ma un po’ meno, qualche ‘ruggito’ ma più sommesso.
Meglio provare a togliere quei vestiti sporchi e cercare di visitarlo, superando l’odore che ti farebbe rimbalzare lontano.
Niente, non si capisce niente.
È un’enigma, un quesito umano, non solo diagnostico.
Ma come si fa a ridursi così, cosa ti deve essere successo nella vita?
L’infermiere riesce a prendere due parametri, a prelevarlo, io lo visito, lo mando in radiologia per una TC ma non è che serva a molto
Si capisce solo che non è messo bene, chissà da quanto.

Lo ricovero, faccio una cartella, imposto una terapia

Pochi giorni ed è già morto
Ma era già morto, chissà da quanto
Da quando aveva ‘scelto’ quel degrado, quella deriva dell’esistenza, da quando aveva deciso di lasciare andare tutto, di smettere di resistere, di lottare e di lasciare che il mondo gli passasse sopra come un caterpillar.
Era solo quel che rimaneva dopo che il mondo gli era passato sopra.

Due volte morto…dov’è che si scrive?
Compilo l’Istat ma i moduli bastano per una morte sola

Rem

Tags: , ,

No woman, no cry

Posted by Storyteller on luglio 24, 2017
cronache / Nessun commento
Foto  di  EP

Foto di EP

 

“Vi supplico di essere indignati”
(Martin Luther King)

Immagino che molti lettori di questo blog abbiano letto di un fatto accaduto all’Ospedale San Paolo di Savona, dove a causa di un devastante sommarsi di pregiudizi, disinformazione e forse addirittura di pettegolezzi di quartiere un paziente ha rinunciato a sottoporsi ad un intervento chirurgico soltanto perché l’anestesista era una donna.
In omaggio alla tradizione del giornalismo anglosassone che vuole l’esposizione dei fatti separata dal commento, in questo link si trova una esauriente cronaca dell’accaduto.
http://www.corriere.it/cronache/17_luglio_20/rifiuta-anestesista-donna-savona-7096301e-6cc3-11e7-adf5-09dddc53fe2d.shtml
Come colleghi penso che ci interessi prima di tutto la posizione del primario e della “anestesista donna” che hanno saputo tenere il punto di fronte ad una situazione non imprevedibile (vista la realtà in cui viviamo) ma sicuramente destabilizzante se non altro per la virulenza della coppia paziente – moglie del paziente.
Dunque un piccolo elogio al primario che ha detto in sostanza “queste sono le assegnazioni alle sale operatorie e basta” essendo perfino superfluo precisare che queste sono fatte secondo criteri di competenza. Perché piccolo elogio? Perché non avrebbe potuto tenere una posizione diversa senza doversi poi vergognare di guardare negli occhi i suoi collaboratori e senza creare un precedente dalle conseguenze insostenibili e dai risvolti assurdi ( anestesista maschio e chirurgo donna vanno bene? , e così via), Dunque il vero merito del primario sta nel non avere preso tempo e non avere cercato mediazioni.
Un grandissimo elogio, invece alla “anestesista donna”. Brava, collega. Tu possiedi sicuramente la consapevolezza del tuo ruolo, nonché del ruolo del medico in un ospedale pubblico, hai sicuramente la preparazione e la cultura che ti avrebbero consentito di discutere aspramente con questi soggetti con argomenti che ( per noi) sarebbero stati convincenti, ma stando alle cronache ti sei limitata all’essenziale (questa non è una clinica privata…), hai mantenuto il controllo, non hai minacciato querele (in Italia chi minaccia querele ha quasi sempre torto).
Come cittadini penso che ci si debba domandare se questi non siano i risultati di una bassa scolarità, di trenta o quarant’anni di “repubblica televisiva”, di un familismo arcaico in cui quello che diceva il nonno vale più di ciò che si impara a scuola. Tragica conseguenza di tutto ciò è il disconoscimento delle capacità e delle competenze professionali da parte non solo di molti nostri concittadini ma anche di vari organi di informazione. Se per trent’anni aveste avuto informazioni soltanto da “Striscia la notizia” vi porreste allo stesso modo di fronte a certe notizie?
Esiste una musica che parla dei diritti delle donne? Non ci crederete, ma esiste: è l’opera “ Al gran sole carico d’amore” di Luigi Nono in cui alla musica (voci, orchestra e nastro magnetico) sono intercalate registrazioni di cortei di protesta (1975: femminismo ruggente). Il gran sole carico d’amore è un verso del poeta francese Rimbaud, dedicato alle donne che si batterono per la Comune di Parigi.

Buone anestesie e buona musica da Storyteller

Tags: , ,

Manca qualcosa?

Posted by Giramondo on giugno 01, 2017
cronache / 3 Commenti
foto di NC

foto di NC

La guerra in Afghanistan (quest’ultima intendo…) è iniziata nell’Ottobre 2001…
Sì lo so, mi sembra già di sentirvi… ma che palle questo qui con la guerra in Afghanistan, e ormai non ne parla più nessuno, e cosa c’è da dire ancora, il solito pacifista rompiballe…
ALT, fermatevi un momento.
Rilassatevi, tranquilli… dedicatevi questi 10 minuti per finire di leggere.
Nessuna retorica pacifista.
Nessuna argomentazione politica da proporre.
Sono solo un chirurgo che lavora da dieci anni in paesi in guerra, e circa la metà di questi anni li ho passati in Afghanistan. Volevo semplicemente condividere alcune descrizioni cliniche dell’ultima settimana di ammissioni nell’ospedale dove attualmente lavoro, nel sud dell’Afghanistan.
Vediamo un po’.
A un bambino di 10 anni ferito da mina manca una gamba.
Ad una bambina di 12 anni ferita da mina mancano le due gambe e la mano destra; in poche parole, se sopravvive, avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che la spinga in sedia a rotelle perché con una mano sola proprio non si può.
Ad un bambino di 15 anni ferito da schegge di un missile mancano entrambi gli occhi; avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che lo aiuti a fare tutto.
A un bambino di 14 anni mancano una gamba, l’ano ed il pene, portati via da una mina; adesso però in più ha una colostomia ed un catetere sovrapubico che porterà per tutta la vita.
Ad una bambina di 4 anni (quattro anni) manca la parola: un proiettile le ha portato via lingua e mandibola ma le ha regalato una tracheotomia per respirare ed una gastrostomia per nutrirsi.
Anche ad un altro ragazzino di 16 anni manca la parola. A lui però la pallottola ha portato via il cervello temporo-parietale sinistro con l’area di Broca: è arrivato in pronto soccorso con la materia cerebrale che colava sulla barella e sul pavimento. Il suo Glasgow Coma Scale era 10, per cui abbiamo chiuso la sua ” dura mater ” con un bel patch di fascia lata della coscia; andrà a casa così: muto, parlando con gli occhi e paretico a tutto l’emisoma destro.
Diciamo che questi sono solo pochissimi casi di questa settimana; le ammissioni giornaliere variano dalle 5 alle 15 al giorno, ogni giorno; vengono ammessi solo ed esclusivamente feriti di guerra. Fate il conto in un mese, fate il conto in un anno.
Questo Ospedale ha 90 letti… sempre pieni.
Questa guerra, dicevo, dura ormai da 16 anni ( più o meno tre volte la durata della Seconda guerra mondiale, tanto per capirci ).
Alle persone che vivono qui cosa ha portato ?
Sono PERSONE, come me, come te che mi leggi. Sono esseri umani.
Sono bambini, bambini normali… bambini come tutti i bambini.
Manca qualcosa? Manca il senso di appartenere tutti alla stessa famiglia umana.
MANCA UMANITÀ.
NON C’È NESSUNA PIETÀ.

Giramondo

Tags: , , , ,

Ombre della notte

Posted by Il Barelliere on dicembre 27, 2016
cronache / Nessun commento
foto di EP

foto di EP

 

Domenica notte, freddo e nebbiolina.

“codice giallo –  evento violento in strada – dinamiche non note!”

 Queste le confortanti informazioni, di quello che è ormai il terzo servizio di fila della nottata.

Il target è un po’ fuori dalle nostre classiche zone di intervento: ci vorranno tra i sette e i dieci minuti circa per raggiungerlo, minuti durante i quali confido vivamente siano già giunte sul posto le forze dell’ordine.

Sono le 02:30, le strade della periferia milanese sono praticamente deserte. La sirena rimbomba forte nell’abitacolo e i lampi blu si riflettono nella foschia creando un effetto quasi suggestivo.

Indosso la giacca della divisa, allaccio la cerniera fino al bavero, stringo i polsini e mi infilo un secondo paio di guanti.

Arriviamo nella zona indicataci dalla centrale avendo, come unico riferimento per individuare il luogo dell’evento, un grosso supermercato che si affaccia su tre vie diverse.

Da un lato la ferrovia e dall’altro un grande complesso di uffici.

In giro non c’è un anima. Sembra che il freddo oggi, abbia spinto tutte le prostitute che di solito battono la zona, a starsene a casa al caldo oppure più verosimilmente, i loro clienti, a cercare ancor più calore in questa notte fredda e malinconica.

Notiamo in lontananza un ragazzo di colore che si sporge in strada sbracciandosi per attirare la nostra attenzione. Cazzo, quando si sbracciano così tanto non è mai un buon segno !

Accanto a lui, riverso sul marciapiede, un altro ragazzo, con la testa avvolta da uno straccio completamente intriso di sangue. Che se avessi incontrato ieri avrei scambiato per un fantastico e quanto mai realistico travestimento per Halloween.

Attorno a loro niente e nessuno nel raggio di diversi metri. Sembra l’ambientazione di un horror e se c’è una cosa che ho imparato dai film, è di non andare mai a vedere da dove provengano i rumori misteriosi

L’autista accosta l’ambulanza al marciapiede, scendo con cautela mantenendomi vicino allo sportello , prima di iniziare il soccorso voglio capire se la scena è del tutto sicura o se sussistano eventualmente altri pericoli.

“Cosa è successo ?” chiedo al ragazzo

“No parlo bene italiano” Ci mancava anche questa!  Va bene, dai  proviamo con l’inglese, l’esame da  quattro crediti di “inglese medico” servirà pur a qualcosa .

“What’s happened to your friend? “

Se il mio accento e la mia pronuncia sono pessime, le sue sono ancora peggio. E’ agitato e confuso, da quel che riesco a capire, il ragazzo disteso sul marciapiede è stato colpito alla testa mentre dormivano all’addiaccio vicino alla ferrovia e lui l’ha trasportato fino alla strada e chiamato l’ambulanza.

La prima valutazione del ragazzo non è confortante. Vie aeree pervie e  meccanica respiratoria apparentemente non  compromessa. Gli occhi sono aperti, ma non ha nessun tipo di risposta, in qualsiasi lingua gli si provi a parlare. C’è però reazione allo stimolo doloroso, pupille isocoriche e normoreagenti

Ha due grosse ferite molto profonde a livello dell’arcata sopraccigliare e in regione temporale , dalle quali continua a fuoriuscire parecchio sangue, tanto da aver creato una piccola pozza alla base della testa.

Terzo e quarto predispongono il ragazzo all’immobilizzazione spinale e tentano di frenare l’emorragia. Il compagno continua a muoversi ansiosamente attorno a noi. Cerco di capire meglio l’accaduto e la dinamica dell’evento, visto che per quanto uno possa essere bravo a fare a cazzotti, non ti apre la testa in quel modo a mani nude.

Il suo racconto è confuso : a quanto pare le ferite alla testa sono state inferte con una bottiglia di vetro e non più mentre stavano dormendo, ma durante un diverbio. Ricostruire un’eventuale storia sanitaria è un’impresa ardua. L’unica cosa che continua a ripetere con insistenza è di volere la polizia. Inutile dirgli che la vorrei anch’io tanto quanto lui.

Do uno sguardo ai parametri del ragazzo, che tutto sommato potrebbero essere ben peggiori. La valutazione testa-piedi non evidenzia altre ferite, edemi o deformità. Eseguiamo il rog-roll e lo posizioniamo sulla spinale.

Il sanguinamento alla testa è nettamente diminuito, senza però essersi ancora arrestato.

Finiamo di stringere le cinghie del ragno e ricomponiamo lo zaino sanitario; mentre i rumori di un treno che passa in sottofondo e la luce del lampione che tinge di arancio l’aria, rendono la scena piuttosto inquietante.

Durante il trasporto, le condizioni del ragazzo migliorano. Recupera progressivamente lucidità, anche se appare sempre molto confuso e disorientato.

I carabinieri arrivano che lo stiamo togliendo dalla spinale, dopo che la TAC non ha evidenziato lesioni ed il chirurgo di guardia, brama dalla voglia di ricucirgli la testa.

La tentazione di soffermarmi a parlare con loro, descrivendogli con inutile dovizia di particolari tutto l’accaduto a partire dal nostro arrivo è molta, soprattutto perché fuori c’è da ripulire mezza ambulanza imbrattata di sangue.

Tuttavia  mi metto una mano sulla coscienza e penso all’ottimo lavoro di squadra appena concluso e mi immagino gli altri, indaffarati ed infreddoliti nel ripulire tutti i presidi.

In breve li raggiungo, per scoprire poi che, a quanto pare, aspettavano solo  me prima di iniziare a metter mano a scottex e disinfettante…

Il Barelliere

 

Tags: , , ,

Il caffè del morto

Posted by Salvatore Nocera on ottobre 25, 2016
cronache / Nessun commento
Foto di NC

Foto di NC

“Viviamo in una società in cui la morte è un tabù. La si vede al cinema, alla televisione, sui giornali, ma è sempre qualcosa di astratto e lontano che riguarda gli altri. Non se ne parla, non ci si pensa, e quando tocca l’individuo da vicino c’è un lavoro molto profondo da fare per permettergli di affrontarla con maggior serenità.”                                       Marcella Danon

Lavoravo nella guardia medica notturna e festiva.

Saranno state le due di notte.

-È incredibile come a ripensare a quella notte mi sovvenga un sorriso spontaneo che non so trattenere, ma che mi riempie di qualcosa che ancora oggi non saprei spiegare: il mio essere straordinariamente medico malgrado me stesso.-

Dicevo: una notte forse autunnale, non ricordo particolari frescure. Passavo, e tuttora passo le mie notti in guardia medica, a leggere e soprattutto a scrivere – ciò che mi capita – ho questa strana impellenza.

E dunque leggevo, e di sicuro scrivevo e sento suonare il campanello. Naturalmente mi alzo (sempre all’erta!) e anzi scrivere probabilmente mi scarica dall’ansia di dover affrontare comunque, da solo, una notte in cui dal punto di vista medico potrebbe succedermi di tutto.

– e se non fossi all’altezza?, e se mi capita un infarto?, un edema polmonare acuto?, un soffocamento?, una crisi allergica?, uno shock di qualunque tipo? chissà se c’è l’adrenalina – saprò fare la diluizione? E il Kombetin? Il Bentelan da 4 mg o magari il Flebocortid da 500?- …

Mi alzo, all’apparenza flemmatico, e vado ad aprire. Strano spettacolo. Una folla assiepata dietro la porta. Una signora di mezza età:

“Dottore, possiamo entrare?”

Dio mio, che è successo? penso. È esattamente uno di quei momenti in cui si realizza la necessità di affidarmi a qualcuno. Dio, appunto. Oppure al mio angelo custode. Che prego mentre faccio entrare la folla nella speranza che non sia successo nulla d’irreparabile e che io sia in grado di …

“Allora, dottore, posso parlare?”

Per sicurezza mi siedo dietro la scrivania, come al solito quando mi difendo. E la sicurezza cui mi riferisco in realtà è un’auto-rassicurazione. Mi rinchiudo appunto nel mio ruolo, vorrei impedirmi di entrare in contatto – come al solito – con tutte queste persone che mi stanno davanti. Ma cosa vogliono? – il bello è che tutti questi miei pensieri avvengono in un attimo, tra le pause della voce della signora. Mi preoccupo esageratamente come quando sto per entrare su un palcoscenico qualunque durante una qualunque delle mie peregrinazioni artistiche teatrali: letteralmente me la faccio addosso, vorrei scappare, ma poi, all’ultimo momento … eccomi sul palcoscenico, e tutto diventa semplicissimo:

“Forse siamo in tanti, dottore, ma non si deve preoccupare: questi sono i miei figli e le mie figlie, con mogli e mariti …” “E anche nipoti”, dico io. “Dottore, non se l’abbia a male, lo so che è inutile, ma …” La signora comincia a piangere, subito circondata e consolata dalle altre donne, figlie e nuore, evidentemente.

Una di loro comincia a parlare: “Vede, dottore, mio padre sta male, sta veramente male. Oggi è venuto il nostro medico di famiglia e gli ha fatto un’iniezione che lo ha fatto stare bene. Ora però sta soffrendo e non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo che è inutile, ma sa?…” Sembrava avesse ritegno: o forse non aveva il coraggio di chiedermi qualcosa che a me, sicuramente, sarebbe sembrato inutile.

“Mio marito ha il cancro e sta morendo, non sappiamo nemmeno se arriva a domani, per questo le diciamo che è inutile, ma che vuole?, quando si vede un proprio caro soffrire noi vorremmo soffrire al posto suo – e soffriamo anche noi – anch’io, a vederlo soffrire così. La prego, ce la può venire a fare un’iniezione che così sta un poco meglio?”

E va bene, allora partiamo. Non sto lì a discernere se si tratti di un caso di umanità o di un intervento medico vero e proprio. E tuttavia anche il trattamento del dolore in un malato terminale è da considerarsi un intervento medico a tutti gli effetti, oltre che un diritto del malato e dei familiari: le famose cure palliative, il mantello protettivo, il pallio rassicurante.

Io prendo la mia macchina e vado dietro a una processione di altre macchine. Ma sono tutti qui, rifletto, non è che il malato è rimasto solo? Boh. Ha tutta l’aria della prova di un funerale, una sfilza di macchine, io con la mia nel mezzo, l’onore di una scorta ufficiale. Un paio di chilometri. Arriviamo in una strada larga, un agglomerato di case che fa pensare a un grande condominio popolare. Da molte finestre, malgrado l’ora mattutina, traspare la luce tremula di un qualche abat-jour rimasto acceso nell’attesa di un arrivo. Ricorda molto la parabola delle vergini del Vangelo, in attesa dello Sposo che prima o poi verrà a bussare … la storia dell’olio e delle lampade.

Mi indicano di posteggiare la macchina in un luogo facilmente accessibile. Loro posteggiano, abituali. Scendono tutti, mi aspettano. Spengo il motore. Afferro la mia borsa. Scendo. Chiudo. Sto fermo un po’ a guardare quella piccola folla surreale. Mi avvio. In gruppetti di due o tre, si dirigono verso un portone socchiuso, rimasto all’apparenza incustodito, in realtà tenuto continuamente sotto controllo da sguardi molto benevoli che avverto discreti dalle finestre contigue. Saliamo su per una ripida scala in fila indiana. Inevitabilmente il pensiero mi va alla difficoltà di far scendere da lì un’eventuale bara …

“Se muore dovremo scenderlo con le lenzuola”, dice molto lucidamene una delle giovani donne, probabilmente nuora, quasi a leggermi nel pensiero. Emano solo un sospiro e continuo a salire. Arriviamo davanti a uno stretto pianerottolo, su cui una maniglia traballante apre un’esile porta: entrano tutti, tranne la madre, che mi invita ad entrare dopo di lei. Una piccola stanza, un ingressino, un soggiorno lì a lato, un’altra porta, ennesimo rituale: entrano tutti, tranne la madre, che entra subito dopo di me. Entro anch’io. Una luce fioca, illumina appena un letto matrimoniale, disfatto, su cui è seduto, con i piedi incrociati sotto le gambe, un uomo, indefinibile nell’età, non sembra molto anziano, gonfio di cortisonici, uno sguardo cupo, gli occhi scavati, una sofferenza che è negli occhi di tutti, mi si apre una specie di comitato d’onore dentro cui faccio il primo passo. Mi fermo fissando l’uomo che probabilmente non s’aspetta affatto da me l’intervento anti-dolorifico tanto desiderato dalla famiglia, avverto semmai il suo estremo desiderio di farla finita al più presto possibile. Questo mi blocca. Il solito silenzio che mi avvolge quando ho su di me l’attenzione del pubblico da attore consumato. Lo guardo con tutta l’umanità di cui sono inconsapevolmente capace. Due secondi pesanti. Poi, non posso fare a meno di dire:

“Ma quando moriamo?”

Sembra una boutade di cattivo gusto: magari un tantino macabra. Altri secondi muti, pesanti. Ho l’impressione, alquanto da incosciente, di aver detto quello che nessuno di loro, malato terminale compreso, aveva avuto fino ad ora il coraggio di affermare. Improvvisa una risata senza freni da parte del malato:

“Ah ah ah ah!…!” E mentre lui continua a ridere, la madre – cioè la moglie, nella sorpresa generale, si mette a singhiozzare, sotto lo sgomento di tutti. In effetti un po’ mi preoccupo, pensando di averla detta grossa, per questo cerco lo sguardo della madre – cioè della moglie, sperando di trovarvi una qualche rassicurazione. E lei, altrettanto improvvisa, mi dice:

“Oh dottore, non ci crederà, ma sto piangendo perché sono contenta: era da tanto che non lo vedevo ridere così, con gli scàccani.” E tutti le si stringono attorno, per sostenerla, accompagnandola dolcemente ai piedi del letto. Mi avvicino anch’io. Preparo un’iniezione di un comune anti-dolorifico, che somministro solerte. Non so quanto efficace, ma a questo punto un qualunque mio intervento è comunque vissuto da questa famiglia come benefico. Anche il malato mi ringrazia, sorridente. Saluto, mi avvio, accompagnato dalla madre piangente.

Mi rimane ancora qualche ora di questa notte che non finisce più.

Finalmente le otto del mattino. Smonto. Un cielo insolitamente terso. Quasi scappo via, scaricando sull’accensione della Focus SW la mia soddisfazione: tutto sommato, penso, non è andata poi così male – pregustando il caffè che sorbirò tra qualche minuto, nel mio solito bar, tutte le mattine che finisco il turno di notte: la mattina della smonta il caffè è sempre più buono. Ecco il bar. Posteggio, mi fermo, spengo. Scendo.

“Buongiorno, dottore”.

“Buongiorno”. Entro, lo sguardo distratto a un manifesto funerario appiccicato al muro, gocciolante di colla.

“Un caffè”

“Subito, dottore. Nottata tranquilla stanotte?”

“Più o meno, le solite cose”.

“Pronto il caffè.”

Lo sorbisco piano. Buono. Metto le mani in tasca per prendere le monetine e pagarlo, ma il barista mi previene:

“No, dottore, lasci stare: oggi il caffè glielo offro io”

“E come mai?…”

“Non lo so, guardi: mi viene così, sento di farlo, stia tranquillo”

“Va bene, come vuole, grazie”

Saluto e me ne vado. Uscendo, lo sguardo sul manifesto funerario. Stavolta vi riconosco il nome della persona malata di cancro … Sento subito la sua risata inaspettata. Una specie di brivido su tutta la schiena. Che me l’abbia offerto lui, il caffè?

Bracco

Tags: , , , ,

Non solo Barbapapà

Posted by supergiovan8 on agosto 10, 2016
cronache / Nessun commento
foto di PB

foto di PB

Alì (nome di fantasia che sostituisce un nome ben più complicato di “Armando”) sta nel suo letto bello pacifico.

La collega in consegna mi ha descritto il decorso post operatorio, le infusioni in corso e lo stato generale del malato: buono.

Entro subito in camera per dargli un occhio; è in prima giornata e anche se non fosse stato nella prima stanza sarei comunque andato subito da lui per avere un’idea precisa di chi fosse e se necessitasse di qualcosa, e poi perché era anche il più “critico”. Dal corridoio, dove ci sono circa un milione di gradi Celsius si passa nella stanza, che aveva la porta socchiusa, con una temperatura di circa 28° C: è evidente che per chi continua a fare dentro e fuori il trauma è importante e continuo (sigh!!!)…

Gli allarmi dei monitor sono già impostati al 100% e tutti i tubi finiscono nel posto giusto. Entrando lo saluto, con la moglie che amorevolmente gli stava rinfrescando il viso che subito mi fa spazio per i vari controlli.

Vedo un uomo, lungo e scuretto, che giace pacifico in un letto forse troppo corto per lui ma comunque adeguato per certe circostanze, tipo dopo un’operazione chirurgica di quelle toste.

Mi avvicino e gli dico, brandendo il termometro timpanico:

“Come sta? Tutto bene? Oggi pomeriggio ci sono io, le serve qualcosa?”

Placido, mi risponde:

“Se se, me sto bè…fa’n pò calt ma va bè isè dai!”

Rimango di stucco, ma non è un barbatrucco: parla il mio dialetto!

Ah, la globalizzazione…ah no, l’immigrazione…

Ma questi ci vogliono rubare pure il dialetto? Una volta non volevano soltanto le nostre donne?

Ah no, scusate, questa è solo una persona emigrata qui da circa 30 anni che si è integrata, ha lavorato duramente e ora, come una normale persona ammalata, si fa curare.

E la morale di questa storia è che il tipo mi ha fregato col dialetto, ma solo col dialetto. In questi tempi di paura verso “l’altro” è molto semplice tacciare tutti i “diversi” come terroristi, invasori e fuori posto; la verità è che questo signore è stato, ed è, una risorsa e come tale va tutelato; perché né io né voi né la maggior parte delle persone che conosco in fonderia a lavorare ci andrebbero mai.

Lui sì. Per 30 anni lo ha fatto, per uno Stato che non era il suo (mentre la pancia sì, chiaramente).

E’ un dare e ricevere più che equo, secondo me, questo. Evviva i vari Alì!

Supergiovan8

Tags: , ,

Reperibilità

Posted by zarianto on agosto 02, 2016
cronache / Nessun commento
foto di DB

foto di DB

Driiin!!! All’una di notte…suona il cellulare! “Vieni giù che c’è casino!” .

Accidenti! Proprio mentre pensavo di averla sfangata e finalmente, sotto il peso di palpebre inesorabilmente calanti, affievolitosi il consueto stato di vigile allerta, mi arrendevo al sonno ristoratore, sullo scomodo divano anti…coma di casa, già, opportunamente in abiti civili, coi piedi avvolti da assai ginniche scarpe, da linea di partenza! Bisogna andare!

Nel “minor tempo possibile” , come recita il contratto, esco, mi reco all’auto, metto in moto…e via.

In piena notte, la strada è veloce. Anche i semafori dormono, ignari degli attraversamenti pedonali e uniche luci nel buio, insieme ai miei fari.

Il silenzio è rotto dalle languide note dell’autoradio, disattente rispetto alle vendite, ma suggerite dal gusto personale del DJ e cariche di giovanili ricordi, spiagge notturne, lune gigantesche e stelle luminose, in costellazioni appena riconoscibili, scarsamente efficaci nell’attutire la solitudine del viaggio a rotta di collo verso l’ospedale, ma perfettamente idonee a sottolineare la meraviglia dei contorni sfumati delle strade, degli edifici, dei monumenti e dei parchi, nascosti, pudici e ritrosi, nell’oscurità.

“Al mio arrivo”, come suol dirsi…il caos! Il Pronto Soccorso collassa inerme sotto l’incessante e martellante stridore delle sirene, a scandire senza sosta il trasporto di pazienti in codice rosso, con l’impietosa e marziale cadenza di…uno all’ora!

Salto così dal paziente precipitato dal secondo piano, a quello shockato per cause da determinare (di ndd, in gergo tecnico), dall’infartuato semicomatoso, a quello in preda a una gravissima crisi asmatica, trovando il tempo di sfanculare l’infermiera di reparto (me ne scuso siceramente e profondamente) inpanicata per la novantenne morta stecchita nel suo letto, in un lago di sangue, districandomi tra il posizionamento in serie, a mo’ di catena di montaggio, di tubi endotracheali, linee arteriose e venose centrali, drenaggi pleurici…e quant’altro…con una puntatina in emodinamica, al seguito di un paziente sanguinante in addome!

L’alba mi coglie a scrivere montagne invalicabili di consulenze che sembrano la trama di un romanzo fantasy, in cui, per puro miracolo, non si verifica la strage di innocenti!

Inizia la danza degli occhi alla ricerca di lancette d’orologio sempre più lente col trascorrere del tempo, fino a quando, giunte le 08.00, alla buonora, posso abbandonare…l’incubo e tornare, un po’ più lentamente per il traffico e i semafori svegli, a casa…tra lenzuola accoglienti e non più in pole position sul divano…di partenza!

Il risveglio pomeridiano mi allarma il giusto sugli accadimenti reali, anziché onirici, poiché in quindici anni, mai si era verificato alcunchè di simile! Che sia l’inizio…della fine? “Speren de no!”.

Zarianto

Solidarietà

Posted by Nanu on novembre 18, 2015
cronache / Nessun commento
foto di RdR

foto di RdR

A: Un paziente HIV positivo per un rapporto sessuale occasionale, recentemente operato per un carcinoma esofageo.

B: Un giovane ragazzo con morbo di Still in attesa di intervento chirurgico per acalasia esofagea.

C: Un giovane albanese operato d’urgenza per una perforazione gastrica qualche ora dopo il suo approdo sulle coste italiane.

Tre storie lontane, in comune il corridoio di un ospedale. A chiede ai suoi figli di acquistare del vestiario per C che non possiede altro in Italia che i vestiti che indossa, consola la mamma di B in attesa dell’intervento, e si precipita dal giovane B appena rientrato dalla sala operatoria per un saluto. La mamma di B assiste ormai quotidianamente suo figlio e C, la cui mamma è troppo lontana. C racconta la sua storia e rassicura B sulla riuscita dell’intervento, al suo rientro dalla sala gli mostra le sue stesse foto poco dopo l’operazione per dirgli quanto presto tornerà anche lui a sorridere.

La solidarietà nel dolore tra le corsie di un ospedale avvicina storie lontane e offre la possibilità di scoprirsi migliori, ed anche nella malattia utili, e talvolta perfino essenziali per gli altri. È a questo che voglio pensare in quei giorni in cui questo lavoro vorrei non averlo scelto.

Nanu

Tags: , , ,

Dimissioni

Posted by Rachele on novembre 06, 2015
cronache / Nessun commento
Foto di EG

Foto di EG

ETC, Sierra Leone, 4 Marzo 2015: dimissioni di Fisher e di Emannuel

EMANNUEL

Il 3 gennaio viene ricoverato Emannuel, trasferito da un altro ospedale insieme al nonno e a due cugini. Le sue condizioni sono fin dall’inizio molto gravi, diarrea profusa, sanguinamenti dalle mucose e severa disidratazione, dolori addominali e stato di agitazione. Lui nemmeno si rende conto ma nel giro di una settimana tutti i suoi parenti ricoverati nella stanza accanto muoiono nonostante le cure intensive. Le condizioni di Emannuel peggiorano nel corso dei giorni e i parametri respiratori e renali indicano che non è in grado di andare oltre senza l’aiuto delle macchine, decidiamo di intubarlo e di iniziare una dialisi. E’ il nostro primo paziente intubato, per cui siamo molto cauti nelle manovre e attenti nell’assistenza infermieristica. Le condizioni di Emannuel rimangono critiche per diversi giorni e non consentono di svegliarlo per diverse settimane poi piano piano lui comincia a risvegliarsi, la coscienza riaffiora, pur molto debole pensiamo si possa tentare una estubazione. La scommessa è vinta, giorno dopo giorno lui torna al mondo, reimpara a mangiare e bere con enormi difficoltà e poi anche a parlare. Dopo due mesi di permanenza nella “zona rossa”, ci chiede un telefono per chiamare la sua famiglia, è il tempo della dimissione ormai e con enorme gioia di tutti noi lo accompagniamo alla porta e lo riconsegniamo ai suoi parenti, le emozioni, il pianto e il riso sono di nuovo presenti sul suo viso così come nei suoi parenti che ormai non ci speravano più. E’ stata durissima ma la vita ha vinto questa volta.

FISHER

Fisher fa parte di un gruppo di pescatori che ha contratto una forma gravissima di Ebola. Ci viene trasferito insieme ad altri 13 pescatori che si sono ammalati durante una battuta di pesca contraendo la malattia da uno di loro che è morto durante il viaggio.

Lui è un ragazzone di 25 anni forte e gentile, le sue condizioni sono critiche fin dall’inizio, ha i polmoni pieni di liquido, fatica a respirare, la funzionalità renale gravemente compromessa. Davanti a lui, uno dopo l’altro muoiono tutti i suoi compagni ammalati. La notte che va in edema polmonare non abbiamo ventilatori disponibili, sono tutti occupati, decidiamo di provare a dializzarlo in mondo da riuscire a portarlo al mattino. La morte di un paziente è la salvezza di Fisher. Lo intubiamo e ventiliamo e continuiamo a sostenere i parametri vitali con farmaci e con la dialisi. Le sue condizioni migliorano, guarisce dall’Ebola ma il suo risveglio è molto lento. Anche lui piano piano torna al mondo dei vivi e finalmente viene estubato e ricomincia a bere e a rialimentarsi. Ci dice che ha una moglie e tre figli che per fortuna stanno tutti bene, vuole chiamare la sua mamma che se lo viene a riprendere dopo un mese di ospedale. Sono abbracci, lacrime e tanta gioia per noi e per loro. Torna a casa Fisher, ne è valsa la pena anche solo per te.

Rachele

Tags: , ,

Viaggio nell’inferno di Ebola

Posted by Rachele on ottobre 28, 2015
cronache / Nessun commento
foto di EG

foto di EG

Dicembre 2014-Gennaio 2015 Sierra Leone

Nel mese di dicembre i casi sono ancora 80 al giorno e Lakka è sempre pieno di pazienti, le ultime piogge sono finite e lasciano il tempo alla stagione secca, talvolta dei tramonti superbi ci sorprendono mentre siamo sulla strada di casa che corre parallela all’oceano.

Il lavoro è sempre frenetico, non facciamo in tempo a dimettere malati che altri sono già in attesa e purtroppo la malattia colpisce anche i nostri collaboratori.

Obay lavorava con noi nell’ospedale chirurgico di Goderich e ora come igienista nel Centro di Lakka. Viene ricoverato nel Centro come caso sospetto e purtroppo gli esami del sangue mostrano una compromissione d’organo molto grave fin dall’inizio, si conferma positivo per l’Ebola. Ha una diarrea talmente profusa che lo sfinisce, lo reidratiamo con le infusioni endovenose e lui risponde bene alle cure e ci lascia sperare che andrà bene ma dopo 7 giorni ha un aggravamento con febbre alta e difficoltà respiratorie. La sua ultima notte Obay chiede da mangiare e uno dei suoi colleghi entra in tenda per portargli del cibo. Lo chiama ma Obay non risponde, il collega lo scuote e tenta anche di fargli un massaggio sul torace mentre io e Marco l’infermiere di turno, assistiamo impotenti fuori dalla tenda. Quello che segue è un dei miei ricordi più commoventi: entrano altri 2 igienisti per preparare il corpo e quando la salma è pronta, tutto il personale comincia a cantare davanti alla tenda, canzoni religiose cristiane anche se Obay è musulmano, le donne in segno di grande dolore si tolgono le parrucche e i loro acuti lamenti lacerano la notte calda, i ragazzi si percuotono il petto e pestano la terra coi piedi, lacrime di dolore e rabbia perché questa malattia tremenda non ha risparmiato il loro amico e collega. Lentamente la salma viene portata verso l’obitorio sempre accompagnata da tutti noi che da fuori continuiamo a pregare e cantare. Riposa in pace Obay e che Dio accolga la tua anima.

Il tempo corre e il nuovo centro da 100 posti letto è quasi pronto, i sierraleonesi lo hanno già chiamato White House, vengono fatti i preparativi per allestire i 24 letti di terapia intensiva con tutto il necessario per monitorare, ossigenare, ventilare e incannulare i pazienti, arriveranno presto anche ventilatori e due macchine per la dialisi. I logisti fanno colloqui ogni giorno per trovare il personale che serve, per insegnare loro le procedure di vestizione e per formare gli igienisti che si occuperanno dei malati. Alla fine abbiamo assunto 700 persone tra infermieri, igienisti e addetti alle pulizie e alla sorveglianza.

Noi intanto riceviamo il primo gruppo di medici e infermieri inglesi che avrebbero dovuto darci una mano nella gestione del nuovo centro di trattamento da 100 posti letto. Una serie di incomprensioni e di divergenze sulla gestione di questi malati portano tutto il gruppo inglese a lasciare la missione una settimana prima dell’apertura del nuovo centro. Una campagna mediatica molto negativa su di noi ci lascia amareggiati e delusi, forse abbiamo peccato di ingenuità nel pensare di poter dialogare scientificamente con ministri e responsabili della sanità di questo paese senza tener conto che dietro ogni cosa anche qui ci sono interessi di multinazionali più portate a sperimentare il farmaco miracoloso sull’africano, in modo da averlo pronto per quando un europeo o un americano si ammalerà. Farmaci dai costi impossibili che non saranno mai disponibili in Africa.

Siamo di nuovo soli ma dobbiamo serrare i ranghi perché il Centro si deve aprire comunque e il 15 dicembre trasferiamo tutti i pazienti positivi al nuovo ETC, Ebola Treatment Centre. Lakka rimane un Holding Centre dove vengono ricoverati i malati sospetti in attesa dell’esame che conferma o meno la malattia. Siamo l’unica organizzazione del paese ad avere contemporaneamente un Holding e un Treatment Centre per Ebola.

Nel frattempo, un prete cattolico che vive nella baraccopoli di Waterloo ci segnala la presenza di numerosi casi di malati che spesso non riescono a raggiungere i centri di trattamento. A Waterloo, che dista un ora e mezza da Goderich, vivono 20000 persone tra sierraleonesi e profughi liberiani che dopo le guerre civili hanno perso tutto. In realtà passando tra le capanne dai tetti di lamiera e le strade di terra battuta abbiamo una impressione di ordine e pulizia che non c’è negli slum di Goderich o Freetown. Waterloo è stata una delle zone più colpite dal virus, la cintura sanitaria ha spesso solo impedito che arrivassero approvvigionamenti di cibo piuttosto che la fuoriuscita di malati. I nostri logisti aprono un centro sanitario all’interno di una scuola, per l’isolamento e poi il trasporto dei malati a Lakka con la nostra ambulanza. Vengono anche formati 90 volontari che facendo parte della la comunità, sono in grado di rintracciare il maggior numero possibile di casi sospetti e trasferirli nel centro di holding.

I primi giorni il nuovo ETC ci sembra un mostro bianco gigante in cui perdersi, siamo passati dalle tende a una struttura in muratura in cui la temperatura all’interno consente di stare anche più di due ore e di avere tutto il necessario per una terapia intensiva e sub intensiva. La sensazione di vuoto scompare subito perché in pochissimi giorni tutti i 24 letti di terapia intensiva sono pieni e a Natale sono ricoverati 36 pazienti. Arrivano a darci una mano un gruppo di infermieri e medici coreani che con qualche difficoltà linguistica sono però molto utili nel seguire i malati meno critici mentre noi ci concentriamo sugli altri.

Tutto sembra procedere per il meglio e sono in arrivo nuovi infermieri di terapia intensiva dall’Italia ma poco prima di Natale una triste notizia ci getta nuovamente nello sconforto, un nostro infermiere internazionale si ammala di Ebola e decide di rimanere in Sierra Leone e di farsi curare all’ETC, la pressione psicologica è enorme e non passa giorno che non mi ritornino in mente le facce dei tanti che non ce l’hanno fatta. Lui nei primi giorni cerca il conforto nelle nostre parole pure sapendo bene quale può essere il decorso della malattia ma mai si scoraggia o si lascia prendere dalla disperazione, passano sette giorni in cui la prognosi è incerta finché lentamente ma inesorabilmente comincia a migliorare e dopo 20 giorni viene dimesso guarito. Il giorno della sua uscita dal centro è uno dei ricordi più belli, di nuovo tutto lo staff che canta e balla ma questa volta canti di gioia e di ringraziamento.

Da quando abbiamo aperto il nuovo ETC sono passati tanti pazienti e queste sono le storie di alcuni di loro.

Arrivano da Waterloo entrambe portate dalla nostra ambulanza al Centro Holding di Lakka, lei si chiama MARIATU è una giovane madre che porta in braccio una bimba di 2 anni ALIMA, sono sospette di contagio in quanto sono state in contatto con la nonna che è morta di Ebola. La bimba ha la pelle che brucia tanto è alta la febbre che la sta consumando, non con poche di difficoltà si riesce a farle il prelievo per vedere se è malata e cominciare le infusioni endovenose per idratarla. Il mattino successivo arriva il risultato del laboratorio, sono entrambe positive con una carica virale molto alta e vengono trasferite al centro di trattamento. Mariatu sta molto male e dal suo letto segue la sua bambina che viene trattata in maniera intensiva fin dall’inizio. Sappiamo che l’Ebola non lascia quasi mai scampo a bambini così piccoli, però Alima è forte, risponde alle cure, si mette persino a mangiare latte e biscotti, siamo ottimisti e lo diciamo anche alla mamma che intanto lentamente migliora al punto che la trasferiamo nel reparto sub intensivo. Dopo 9 giorni però Alima continua ad avere la stessa carica virale dell’inizio della malattia, il suo fisico non riesce a sconfiggere il virus, ci guarda stanca, mani e piedi sempre gonfi e gelati, il respiro è un soffio ormai, dopo 11 giorni di battaglia anche la sua anima vola via. Lo diciamo alla mamma che voleva vederla un ultima volta ma non può, piange la sua figlia più piccola che non c’è più, portata via da questa peste moderna e mentre la guardo mi vengono in mente le parole del Manzoni che descrive la madre di Cecilia: “Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

MUSU è una bella ragazzina di 15 anni che ha avuto contatti con due sorelle ammalate di Ebola ed entrambe sopravvissute e lei ha tutti i sintomi della malattia ma tutto sommato le sue condizioni generali sono buone. Infatti dopo pochi giorni nel reparto intensivo viene trasferita in quello dei malati meno gravi finché una notte ci chiamano gli infermieri perché Musu è agitata, il respiro affannoso e superficiale, il cuore che batte veloce, ci guarda senza capire perché improvvisamente sta così male ci chiede di aiutarla e di non farla morire. La trasportiamo di corsa nel reparto intensivo, sotto ossigeno, antibiotici e monitoraggio dei parametri vitali ma l’insufficienza respiratoria è grave e temiamo il peggio. Dopo 36 ore di cure intensive la situazione si sblocca, Musu riprende a respirare normalmente, torna ad avere il suo bel viso disteso e ci chiede che cosa le è successo perché ora vuole tornare a casa dalle sue sorelle e la sua mamma che la stanno aspettando. Dopo 15 giorni Musu esce dal nostro ospedale e riabbraccia le altre sorelle sopravissute.

Sono i primi di gennaio quando ci viene trasferita dall’ospedale cinese di trattamento per Ebola un intera famiglia di positivi: SARAH il nonno di 80 anni, SAIDU un ragazzino di 10 anni, BOI la sorella di 14 anni e un altro nipote EMANNUEL di 17 anni. Il nonno è quello che sta apparentemente meglio ma dopo due giorni improvvisamente si accascia nel letto portandosi le mani al torace e muore così senza che possiamo fare nulla. Il nipotino più piccolo è molto grave ha i polmoni intasati di liquido e secrezioni, lo intubiamo, ventiliamo, trasfondiamo, sosteniamo la pressione del sangue con farmaci ma nulla lo strappa alla morte. Nel letto davanti a lui, la sorella Boi è anche lei in condizioni critiche, semicosciente, il rene è compromesso ma ancora in grado di sostenere una diuresi adeguata, ci sembra che stia rispondendo alle cure, ha avuto delle piccole emorragie, è stata trasfusa con plasma e sangue e sembra stabile, finché improvvisamente un pomeriggio mentre la mobilizziamo per lavarla ha alcuni colpi di tosse seguiti da una emorragia inarrestabile dalle vie aeree, in pochi minuti muore in un lago di sangue. Siamo sconvolti dalla rapidità del quadro e anche perché pochi nostri pazienti sono morti di shock emorragico acuto. Tristemente un altro cadavere è lavato e preparato per il team delle sepolture che come moderni monatti vengono a ritirare i corpi per le inumazioni secondo le regole che l’epidemia impone.

MOHAMED ha 50 anni e vive a Waterloo con suo figlio e la moglie madre di 4 bimbi, quest’ultima da giorni sta molto male, ha febbre diarrea e vomito, potrebbe essere Ebola per cui chiamano la ambulanza per portarla nei centri di raccolta, l’ambulanza però non arriva cosi Mohamed e suo figlio la portano con l’auto di un loro amico all’ospedale cinese che tratta malati di Ebola, il più vicino a Waterloo. La donna muore dopo pochi giorni, la casa di Mohamed dove vivono altre 15 persone viene posta in quarantena e dopo una settimana, lui stesso e il figlio vengono ricoverati da noi, il contatto con la donna ammalata ha trasmesso loro la malattia. Anche la moglie di Mohamed, nonna Margaret e i suoi 4 nipoti dai 4 ai 10 anni vengono segnalati come casi sospetti e portati a Lakka in attesa del risultato degli esami. I bimbi sono spaventati, hanno tutti la febbre alta e sono tutti positivi per la malaria, noi cominciamo a sperare, nonna Margaret fa loro coraggio mentre gli infermieri mettono loro le cannule venose e iniziano la terapia per la malaria e la reidratazione endovenosa. Mentre sono in tenda con loro Margaret mi chiede di suo marito e io non posso che dirle che sta molto male e che molto probabilmente non ce la farà, lei si gira per non farsi vedere dai nipoti e comincia a piangere silenziosa, mentre i bambini che hanno già perso la mamma la guardano perduti. Vengono tutti dimessi, risparmiati dall’Ebola. Nonno Mohamed invece viene intubato e dializzato ma muore dopo pochi giorni. Il figlio ricoverato nel letto a fianco al padre lo vede trasferire in un’altra camera e capisce che le sue condizioni sono molto gravi. Una notte parliamo di suo padre che non c’è più, lui si rifiuta di mangiare e bere e noi dall’interno dei nostri scafandri cerchiamo di consolarlo dicendogli di farsi forza perché deve pensare ora ai suoi bambini che hanno solo più lui e nonna Margaret. E’ lenta la sua guarigione ma alla fine anche lui ce l’ha fa e può tornare a casa.

Ebola per mesi ha seminato la morte tra le famiglie, uccidendo un padre o una madre, lasciando talvolta indenni i più deboli o i più vecchi, altre volte invece non risparmiando nessuno. Ha stappato piccoli figli alle madri che sono sopravissute, altre volte i genitori sono morti lasciando orfani sulle spalle della comunità e tanti sono questi bambini a cui qualcuno dovrà pensare. L’epidemia ha messo vicini musulmani e cristiani sia come pazienti che come infermieri, ricchi e poveri hanno condiviso le stesse paure e angosce e pianto i rispettivi morti. Sono state mobilizzate migliaia di persone per lavorare nei centri di raccolta e di trattamento: operai, spaccapietre, ingegneri, studenti di medicina e non solo, infermieri, cuochi, igienisti, cleaners. Canzoni e ballate sono state scritte per sensibilizzare la popolazione sull’Ebola, per esorcizzare la paura della morte e per dare speranza ai malati. Le città sono state tappezzate di cartelloni sull’Ebola e le radio non facevano che parlarne ogni giorno, dando le cifre ufficiali dei nuovi casi e dei morti provincia per provincia. Come nella immaginaria peste di Orano qui tutto si è verificato nella realtà e noi ne siamo stati testimoni.

Le grandi organizzazioni si sono date più da fare a giustificare di avere sul campo i massimi esperti dai grandi stipendi piuttosto che capire scientificamente qualcosa di questa malattia. Non posso dimenticare i vari visitatori del CDC di Atlanta per esempio che sono passati tante volte nei nostri centri dicendoci che ai loro internazionali era vietato l’ingresso in zona rossa. La cooperazione inglese invece ha fatto molto per questo paese costruendo i centri di trattamento da 100 posti letto ma con quale ritardo sono stati preparati? Se tutto fosse stato pronto almeno 3 mesi prima quando la gente moriva come mosche, quante persone si sarebbero potute salvare? Ad agosto qui è stato un inferno, 28 cadaveri in un giorno solo nel nostro centro di Lakka dove i pazienti entravano e morivano di emorragia o all’improvviso per arresto respiratorio o cardiaco. A dicembre ormai eravamo scesi a 80 casi al giorno e nessuno dei centri da 100 posti letto (ne sono stati costruiti cinque) ha mai raggiunto la piena capacità. L’ETC (Ebola Treatment Centre) da 100 posti letto è l’unico in Africa ad avere una terapia intensiva per malati di Ebola e tutto questo grazie all’impegno e al lavoro di squadra di tutti noi e dei tanti che in Italia e all’estero ci hanno finanziato, sostenuto e aiutato rendendo possibile quello che molti non avrebbero mai neppure immaginato e in un tempo così breve. Emergency ha impiegato sul campo quasi un centinaio di espatriati tra medici, infermieri, logisti, contabili e abbiamo curato piu’ di 200 pazienti positivi per Ebola con una mortalità nel nostro centro del 40%, un grande risultato se pensiamo che era per noi la prima volta che affrontavamo una sfida del genere. Sfida che non ci siamo cercati ma che ci siamo trovati in casa dovendo tenere aperto quello che è stato per tutti questi mesi uno dei pochissimi ospedali del paese a fornire un servizio chirurgico di elezione e di urgenza. Abbiamo organizzato un filtro per i pazienti all’ingresso che ha impedito ai casi sospetti di entrare nell’ospedale chirurgico, salvaguardando il personale sanitario che lì lavora e garantendo un servizio chirurgico di qualità 24 ore al giorno durante una delle epidemie più terribili che si sia mai vista.

Ora finalmente stiamo vedendo la fine di questo incubo, le previsioni dei grandi esperti sul numero dei contagiati si sono dimostrare errate, l’epidemia sta finendo e forse non c’è ne sarà più un’altra cosi devastante. Ma la Sierra Leone rimane uno dei paesi più poveri del mondo, con un tasso di alfabetizzazione molto basso e una mortalità materno infantile molto alta, nelle campagne si continuano a lavare i cadaveri e anche un solo malato può fare ripiombare il paese nell’incubo di 8 mesi fa quando si contavano più di 150 nuovi casi al giorno. La vigilanza deve rimanere alta perché l’Ebola è un mostro dormiente sotto le ceneri di un paese prostrato che ancora piange i suoi 3000 morti.

Rachele

Tags: , ,