cronache

tempi bui

Posted by Woland on Settembre 03, 2008
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Amo la vita e la rispetto, ho ricevuto un’educazione cattolica anche se ora le mie posizioni sono diverse. Con la bioetica della donazione-trapianto e gli interrogativi sull’appropriatezza delle cure e sulla disponibilità di ciascuno della propria vita ho avuto esperienze anche familiari e confronti anche con persone di fede.
Premesso tutto ciò, vorrei esprimere la mia amarezza e il mio sdegno per l’editoriale comparso ieri a firma di Lucetta Scaraffia. Pur sollevato dalla dichiarazione ufficiale della Chiesa e dalla presa di distanza sue opinioni, le ritengo comunque gravi anche se espresse a titolo personale, in quanto molti in Italia identificano il vostro giornale con l’opinione ufficiale del Vaticano.
Mi sembra che l’autrice abbia in testa una gran confusione tra stato vegetativo, coma e morte cerebrale. Ognuno è libero di esprimere le proprie idee, ma dovrebbe avere la decenza di documentarsi prima di scrivere in prima pagina su un giornale. Tutto questo pensando che si sia trattata soltanto di superficialità, ignoranza e irresponsabilità; se fosse una mossa studiata per secondi fini, sarebbe ancora più deprecabile.
Penso che in una democrazia vera, ciascuno sia libero di esprimere le proprie idee; sono però anche convinto che ciascuno debba rispondere delle proprie idee e che la responsabilità sia una delle basi del giornalismo. Se ragioniamo in modo molto pragmatico, in termini di numeri, e poniamo come nostro obiettivo la difesa della Vita, è possibile (è già successo in passato) che l’editoriale in questione e il dibattito che inevitabilmente ne seguirà causeranno più morti nei prossimi mesi della guerra in Georgia. La fiducia dei cittadini dei confronti del sistema trapianti, uno dei fiori all’occhiello della sanità italiana, sarà difficile da ripristinare facilmente e in un solo giorno può andare in fumo il lavoro di mesi centinaia di persone. Purtroppo non sarà possibile dare un nome a tutti quei morti, ma credo che la flessione dei numeri osservati rispetto agli attesi sarà quantificabile con precisione. Vorrei che chi ha scritto se ne assumesse la responsabilità e che riflettesse in futuro sulle conseguenze della propria superficialità. I dubbi andrebbero chiariti prima di scrivere, pensare ad alta voce non si addice ad un giornalista, soprattutto quando in gioco c’è la vita di migliaia di persone.

Woland

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agonia

Posted by Herbert Asch on Agosto 27, 2008
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Dieci di sera di una guardia qualunque, mezza stagione, calma piatta. Pronto, Dottore, venga giù, hanno telefonato che arriva un paziente grave!” Scendo le scale ed arrivo in Pronto Soccorso in pochi secondi; intanto si sta già annunciando una ambulanza alla porta, scendono poco convinti due militi ed una signora giovane. Sulla barella c’è una povera vecchietta incartapecorita, ormai con un respiro agonico, la “facies ippocratica”, affilata, eloquente segno di una fine incipiente ed ineluttabile. La signora viene introdotta nella stanza di emergenza, il pubblico esce, e rimaniamo nella stanza l’infermiera, la mia collega della Medicina ed io a guardarci negli occhi. Dal punto di vista clinico la situazione è palesemente senza alcuna speranza: è un coma profondo, con un respiro superficiale in una paziente molto anziana, defedata, anzi, per usare un termine poco tecnico, ma efficace, che è consunta, consumata.

“Devo fare qualcosa?” dice l’infermiera. “Cosa vuoi fare?” dico io. “Uno non ha neanche più il diritto di morire in pace…” osserva la collega.

Esco a chiedere qualche notizia in più, tanto per capire. Fuori c’è la responsabile del centro presso cui la signora era ospite, una casa di riposo delle vicinanze; è visibilmente scazzata, forse di essere dovuta venire ad accompagnare, chissà dov’era: tacchettini, camicetta e golfino, ampia gonna, niente di operativo. Magari era in giro ed è rientrata, magari è capace che si è cambiata per accompagnare l’urgenza; i parenti sono stati avvertiti e debbono arrivare.

“La signora prendeva delle medicine ?”. “Certo, gliele hanno date nel corso dell’ultimo ricovero presso l’Ospedale di *** (un piccolo, ma efficiente ospedale di Medicina Generale dei dintorni), ma poi l’hanno dimessa una settimana fa dicendo che non c’era più niente da fare, che le cure non sarebbero più servite a granché”. Il tutto pronunciato con l’aria di dire: non potevano tenersela lì.

Arriva intanto una parente un po’affannata, con gli occhi rossi di pianto: “Sono la figlia!… è …?” “No signora, non è ancora morta, ma non ci vorrà molto… – e qui non so tenermi glie lo chiedo, anche se “cun bel deuit”, educatamente, senza aver l’aria di cazziare “…ma come mai ce l’avete portata qui se vi avevano detto che non c’era più niente da fare?” “Ah, come possiamo sapere noi… siamo mica dottori” sbotta la responsabile “magari qui potevate fare ancora qualcosa… non so… qui siete attrezzati, avete l’ossigeno, noi lì abbiamo mica niente!”

Lascio perdere e torno dentro.

I respiri si sono diradati, sono diventati delle contrazioni del torace; la bocca è aperta, rilasciata. Quante volte ho insegnato agli allievi infermieri o ai soccorritori a ricercare i segni della morte imminente, della cessazione del respiro, del battito del cuore, dello shock per poterli contrastare e per poterli supplire con le tecniche di rianimazione. E quante volte ho visto questa scena, talvolta lottando, per combattere la morte (nessuna retorica, ma sono Rianimatore, è il mio mestiere), talvolta assistendo impotente, quando si tratta di constatare il decesso di chi è vittima di gravi incidenti, talvolta inattivo, cercando solo di alleviare le sofferenze dei pazienti ormai incurabili. E tutte le volte, al di là degli atti tecnici, che vengono compiuti ormai quasi automaticamente, ho sentito un senso di sacralità incombente, quasi di intimità violata, di pudore estremo ad osservare una morte.

Sono diventato tutto ad un tratto come disgustato da quella che mi viene di definire oscenità di questa morte abbandonata così su una barella di ospedale, in un posto dove tante volte si è lottato, ed ora si assiste forse indifferenti e si attende un epilogo previsto.

Non si ha più il diritto di morire nel proprio letto?

Herbert Asch

il sonno di Babette

Posted by il guardiano on Agosto 25, 2008
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E’ sicuramente la bambina che piange quella che Babette sente di là, ma ha troppo mal di testa per riuscire ad alzarsi. Sembra impossibile, eppure è proprio così, la testa le fa tanto male da scoppiare. Ci ha già anche provato ad alzarsi, ma proprio non le riesce. Per cui, pianga la bambina, pianga tutto il mondo, lei da quel letto non si muove. E ha un bel chiamarla, il marito, e scuoterla e sollevarla proprio di peso. Tutto è inutile. La sua testa è inchiodata al cuscino, e il corpo alla testa. E’ tutto così vero e tragico per lei, che non si accorge neppure dei soccorsi che arrivano, dei militi che le caricano sulla barella, e dell’ambulanza che corre impazzita verso l’ospedale. Per quel che ne sa, lei, è rimasta ancorata al suo letto, sepolta sotto tonnellate di dolore, come un fossile imprigionato nella roccia, dove niente e nessuno (nemmeno il pianto della bimba) potrà mai più raggiungerla.Babette non sa che una parte del suo cervello è stata distrutta. Bombardata da una malattia impietosa. Dove prima c’era sua figlia (20 giorni di bambina bellissima) ormai non c’è che vuoto e desolazione. L’unica cura è togliere le macerie, e mettere a riposo il resto. Ma a guardare da fuori quel disastro l’idea è che non ci sia più niente da fare: Babette resterà imprigionata per sempre nella sua montagna di detriti.

E’ notte, e tocca me andare a caccia di Babette. Tocca a me trovarla, rapirla da quel sonno indotto e liberarla dal guscio di pietra. “Non si sveglierà mai” penso mentre aspetto che finisca l’effetto dei sedativi. “Babette!” chiamo. “Babette”. Un movimento delle palpebre. Non ci credo e riprovo, più forte. La chiamo e la pizzico anche. Gli occhi si spalancano. “Babette mi senti?” E’ lieve il movimento del capo, ma indiscutibile: sì. Come riemersa da un’era preistorica gli occhi di Babette si accendono di luce. Pochi minuti, poi riparte il fluido ipnotico: il cervello deve riposare ancora un po’. Non c’è la sua bimba, in quello sguardo, non c’è la sua casa, suo marito… Non c’è niente di tutto questo, ma non importa. C’è Babette, e lei saprà ricostruirsi il suo mondo.

il guardiano

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un contropulsatore aortico, con parole vostre…

Posted by il guardiano on Agosto 19, 2008
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Notte in emodinamica.
Non invidio il collega cardiologo: ma come si fa a spiegare cos’è un contropulsatore aortico? Ai parenti ovviamente. Al paziente non è stato necessario: l’ho intubato al secondo giro di fibrillazione ventricolare.
E’ cominciato tutto così: 180 di frequenza. “Pasquale! Pasquale! Tutto bene?” e Pasquale mugugna un “Sì”, poi gira gli occhi e via, FV. Bum, scarica a 200 J. Riparte. “Pasquale!” “Pasquale!”. Riemerge.
E sembra proprio riemergere. Ma da dove? Dall’aldilà, ovviamente. Da quell’ultramondo fatto di luce, musiche celestiali e anime morte che lo accolgono… Poi una mano tesa oltrepassa il limite e lo acciuffa per la giacca. Un soffio di vita nuova sibila attraverso le labbra socchiuse e il cuore ricomincia a battere: il paradiso può attendere, per ora.

Per me è facile spiegare. Alla fine della fiera la questione è che Pasquale è un po’ come sotto anestesia – e tutti a sentir parlare di anestesia una loro idea su che cosa sia ce l’hanno. Ma spiegare che: l’IVA era chiusa, che cercando di riaprirla si è chiuso tutto il tronco comune (che si è pure dissecato), che alla fine non c’era uno stent medicato che fosse uno che passasse… che pure la destra faceva schifo, anzi era completamente stenotica… e che nonostante le amine la pressione stava sotto i piedi, per cui è stato necessario contropulsarlo… Be’ è tutta un’altra storia…
Anche se poi, alla fine, qualsiasi cosa dici, da quello che dici, cercano solo di capire se ce la farà o no, se, secondo te, c’è qualche possibilità oppure no. Guardano la tua faccia a caccia di un po’ di speranza.
Be’ cari parenti di Pasquale, sono le cinque del mattino, ed è tutta la notte che balliamo. Forse non ci sono cose da scommettere, ma il nostro lavoro, la nostra fatica, la nostra stanchezza sono tutte lì, messe in gioco, e, per quel che valgono, sono tutte per lui.

il guardiano

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