emozioni

Loro

Posted by Pills on Novembre 02, 2011
emozioni / 5 Commenti

Mi hanno chiamato per te.

Qualcuno ha avuto la premura di chiamare il 118 per te. Se per dovere, per genuina preoccupazione perché è un amico, un parente, il tuo partner da poco o da una vita…beh, questo non importa. Hanno chiamato e noi siamo arrivati.

Appariamo come facchini della salute con lo zainone, il monitor, la bombola e il porta-aghi. Carichi come muli.

Hanno chiamato per te. Ti abbiamo trovata nel tuo letto matrimoniale. Eri senza tono muscolare, la bocca cadente da un lato, occhi chiusi, colorito grigiastro. Un odore acre e penetrante ci ha segnalato un rilascio degli sfinteri. Il tuo ECG segnava un battito ogni troppi minuti. Siamo arrivati ma tu non ci hai aspettato.

Tuo marito ci ha detto che alle quattro lo hai svegliato perché non ti sentivi bene e che lui ti ha fatto una camomilla e ti ha portata in bagno.

Io e l’infermiera ti abbiamo lisciato la camicia da notte a fiorellini, ti abbiamo messa dritta e ti abbiamo coperta con la trapunta leggera che avevi, con tutta probabilità, appena tirato fuori dall’armadio. I primi freddi avanzano.

Tu invece hai avuto un infarto. Il terzo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non reagivi ai nostri farmaci. Ti abbiamo dovuto legare le braccia per portarti di peso attraverso i tuoi stretti corridoi fino al tuo letto. Tua moglie era inconsolabile. Non ha voluto le goccine.

Tu, eri un poverino. Sei morto solo su una panchina. L’ultima dose ti è stata fatale. Ti avevano dato il Narcan, ma non l’avevi dietro. Eri rannicchiato, con gli occhiali storti. Te li ho tolti e ti ho schiaffeggiato urlandoti: ”Signore? Signore!!! Mi sente?”. È arrivata la polizia, ti abbiamo coperto con una metallina. Eri in un postaccio. Gli unici che hanno avuto pietà di te rannicchiato sulla panchina sono stati due ragazzi gay che hanno chiamato e hanno vegliato su di te fino a che non abbiamo dichiarato il tuo decesso.

Tu invece, primo di tutti, sei stato il più sfortunato. Eri innocente. Niente droga, né alcool. Eri a casa, magari stavi bagnando le piante dopo mangiato. Ti sei sentito soffocare e hai vomitato. Ma non avevi più aria. Eri solo. Ci ha chiamato la tua “fidanzata”. Ti abbiamo rianimato con RCP, 30:2 e tutto l’iter della MSB. Sei stato il mio primo. Ti ho tenuto la mano anche se era palese che non ci fossi più.

Tutti voi, belle o brutte anime non importa, voi siete i pazienti più temuti dal novellino. Ma il “pivello” sbaglia. Voi siete i più tranquilli, i più bravi. Eppure vi temiamo, vi portiamo molto rispetto, vi “coccoliamo” di più.

Fino a che non lascio casa o il luogo del servizio io so che mi hanno chiamata per voi, voi siete una realtà fisica anche se non più psichica. Siete reali, siete i pazienti e io so che il paziente deve essere il mio unico pensiero e deve ricevere la massima cura anche se puzza, anche se non è proprio “pulito”, anche se è da film dell’orrore.

Vi parlerò chiaro, dato che vi ho pensati tutti in una botta: io vi ho curati come se foste ancora vivi. Non ho risparmiato a nessuno una carezza, una sistematina agli abiti, un’occhiata, una ripulita.

Vi ho curati. Siete stati i miei pazienti.

Mi è molto dispiaciuto per voi.

I morti (perché non sono “mancati”, “volati via”, “chiamati”, “scomparsi”) sono i più grandi insegnanti. Ti plasmano in termini di paure antiche dell’essere umano, ti obbligano ad avere tatto ed empatia.

Nessuno può rimanere indifferente davanti alla morte. Puoi metabolizzare meglio, puoi arrovellarti nel pensiero per più tempo, ma prima o poi la tua mente si ricorderà di quel viso, di quel corpo, di quegli odori.

I tuoi morti sono un monito, un moderno “memento mori”.

Trattali come pazienti, perché è quello che sono, e loro ti daranno sempre qualcosa di arricchente in cambio.

Imparerai a conoscere meglio quel tuo compagno di equipaggio con cui non hai parlato mai tanto, esorcizzerai il terrore dei morti che avevi, imparerai come comportarti, raccoglierai frammenti delle loro vite. Tutto ti si sedimenterà nell’animo e nella mente.

E tornerà a galla in momenti inaspettati. E sarà estremamente utile.

Grazie, miei Morti. Vi ricorderò ogni tanto. Ve lo meritate.

Pills

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Tutto all’aria !

Posted by Magamagò on Ottobre 24, 2011
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Nell’atrio del mio Ospedale c’è un cartello che dice :
SE IL CANCRO BUTTA ALL’ARIA LA TUA VITA …
Lo leggo ogni volta e non lo finisco mai, perchè per me è stato proprio così, ha buttato all’aria la vita di mio marito, chirurgo, in prima persona, ma anche la mia e quella di mia figlia, e quella di chi ci sta e ci è stato intorno.
Però ora, a ripensarci, ora che è passato un pò di tempo e sembra che le cose siano andate bene, forse quel “buttare all’aria” significa in alto nel Cielo, nel vento, che il Padreterno così abbia voluto rimescolare le carte per darci una “mano” migliore, per ridare alla nostra vita una leggerezza nuova, un soffio vitale nuovo, un’occasione per rinfrescare i valori in cui crediamo, il nostro status di medici, di genitori, di figli o compagni, di persone comunque con tanto bene dentro da donare agli altri e tanto cuore per riceverne altrettanto e di più.
Una “mano” migliore per capire il dolore, per essere veramente empatici coi pazienti i quali sapevano bene che il Male, il dolore, aveva colpito anche noi, che le nostre parole non erano finte, che la nostra testimonianza di vittoria, di forza, non era teorica; caspita! lo avevamo provato sulla nostra pelle … e vivere in un posto relativamente piccolo dove ci si conosce tutti, è stato di grande aiuto per noi e per gli altri.
Così, in fondo, è stata un’esperienza positiva, che ci ha rafforzati, che ci ha fatto crescere, una dimostrazione in più, se ce ne fosse bisogno, che c’è chi sa cosa sia meglio per noi, e per questo gliene siamo grati.

Qualche mattina passo per la porta secondaria per non vedere il cartello …

BEH, NESSUNO È PERFETTO !!

Magamagò

Non me lo hai chiesto direttamente… ma io ero lì ugualmente.

Posted by Icy24 on Ottobre 06, 2011
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Premessa: da pochi giorni sono stato assegnato ad un reparto che molti motociclisti ben conoscono: Chirurgia Ortopedica…
Tolto lo stess di dover gestire ventotto pazienti con tre Infermieri (tolti noi studenti che siamo due e per ora poco utili) e un Ausiliare… assurdo… mi sto rendendo conto cosa vuol dire stare dall’altra parte e di quanto, un certo tipo di approccio, faccia davvero la differenza.
Sto anche toccando con mano (è proprio il caso di dirlo) come le persone si rialzino piano piano. Persone che fino a poco tempo fa accompagnavo dal luogo dell’incidente fino al pronto soccorso.
Ecco, se il soccorso è la fase “A”, oggi io vedo la fase “B” (degenza e preparazione all’operazione chirurgica), la fase “C” (L’operazione vera e propria), e la fase “D” il post operatorio con la riabilitazione e, …cavolo!, fa un certo effetto
Qualche giorno fa è entrato in reparto un ragazzo più o meno della mia età: incidente in macchina, aquaplaning e albero preso in pieno;  una gran botta che tra le altre cose ha causato la frattura del bacino all’altezza dell’anca e la frattura di tibia e perone.
È un tipo di soccorso che mi è già capitato e ricordo bene la difficoltà nel gestire il paziente, l’attesa della liberazione dalle lamiere dei vigili del fuoco, la “scarcerazione” del paziente, la stabilizzazione e la corsa in Pronto Soccorso.
È un soccorso che di solito lascia un bel segno, ma che, per come siamo fatti, per come DOBBIAMO fare, una volta consegnato il paziente al DEA la cosa finisce più o meno lì.
E invece no, ora è diverso, perchè “Chicco” (nome di fantasia per un cristiano di almeno una novantina di chili) l’ho visto arrivare e l’ho visto avvicinarsi, giorno dopo giorno alla sala operatoria, ci ho parlato, l’ho visto sorridere e l’ho visto piangere,
L’ho visto scherzare sull’incidente e l’ho visto, stamattina, tornare ad essere piccolo piccolo per la paura dell’operazione che avrebbe affrontato da lì a poche ore. Piccolo e vulnerabile. Così mi son ritrovato a sedermi accanto a un letto e tenere la mano di Chicco mentre si sparava i suoi cinque minuti di paura, lacrime e silenzio. Un silenzio che qui posso rispettare, a differenza dell’ambulanza, dove se il paziente sta zitto troppo tempo, partono le domande per valutarne la coscienza e lo stato di orientamento nello spazio e nel tempo… un silenzio che dice molto, specie sulla paura, che accomuna tutti, di essere “abbandonati” lì dove più si è indifesi.
Un silenzio che oggi, dopo la fine del turno della mattina (06:00/14:00), mi ha spinto a citofonare al blocco delle sale operatorie per chiedere se potevo affacciarmi a vedere come andava l’intervento del bacino (di cinque o sei ore) e della gamba (due ore circa)

E così oggi un Icy che si sentiva MOLTO piccolo è entrato per la prima volta in sala operatoria in una posizione differente da quella sdraiata del paziente; si è messo i calzari, la cuffietta e la mascherina e, una volta varcata la porta della sala, e cercando di assomigliare il più possibile a una delle mattonelle del muro (agli studenti del primo anno non sarebbe concesso entrare in sala operatoria), non ha più levato gli occhi da quell’omone anestetizzato sul quale una bella squadra di chirurghi stava chiudendo l’accesso dell’operazione di ricostruzione del bacino.
Mi hanno pure chiesto di dare una mano nel cambio di lettino operatorio per la successiva operazione alla gamba e mi è stato permesso di assistere da una distanza consona a non disturbare il loro lavoro ma ad apprezzare ogni istante della mia prima operazione chirurgica da spettatore.
Cavolo… ok che al sangue sono abituato, ma è davvero strano vedere come si possa operare su un corpo apparentemente inanimato. Ho sempre saputo che le operazioni ortopediche sono abbastanza cruente e, ad un occhio non avvezzo, anche violente… un paio di volte ho quasi sentito io male al posto suo, che invece se la dormiva alla grande.
E pensare che ho subìto, nel 2002, la stessa operazione…
Comunque, dopo due ore esatte il primario abbandona il campo operatorio e lascia al suo specializzando l’onore e l’onere di chiudere e suturare.
Posso avvicinarmi di più. Sembra così strano che ci sia solo una ferita così piccola, eppure hanno lavorato, internamente, dal ginocchio alla caviglia, con mazzette, trapani, punteruoli, lunghissime punte flessibili. Il corpo di Chicco ha sussultato più volte sotto i colpi di coloro i quali stavano rimettendo a posto quello che l’incidente aveva ferito e menomato. Ma a guardarlo dorme sereno, con respiri spontanei e profondi. È strano…
Lo accompagno verso la rianimazione/terapia intensiva dove lo guardo svegliarsi piano piano. Forse mi vede pure attraverso la vetrata ma tanto domani non ricorderà nulla… io però c’ero, come, con quello scambio di silenzi, mi avevi chiesto…

Esco dal blocco operatorio; levandomi mascherina e cuffietta rifletto su come determinati lavori necessitino per forza di una certa disposizione mentale. Mi affaccio in reparto per andare a cambiarmi e vedo le altre due ragazze del mio corso mentre una cerca di dare un senso al farfugliare di un vecchina che ha tanti di quegli anni da non ricordarselo più nemmeno lei; mentre l’altra cambia per la quarta volta di fila in un ora (mi diranno) la stessa persona senza fare un fiato, anzi, cercando di spiegargli che se avvisa per tempo… basta poco…
Sì… serve proprio qualcosa che si deve avere in dote, altrimenti qui non si resiste più di una settimana!
Non so se continuerò in questo corso di studi… Ortottica mi attende e con lei lo studio di famiglia e un futuro più che sicuro… ma… boh… a me piace questo mondo…
Intanto domani si ricomincia… e ho altri ventisette “Chicco/e” a cui badare insieme agli altri… ventisette storie… ventisette persone… ventisette caratteri… ventisette incazzature e ventisette sorrisi… e uno che ha svalicato la fase “C” per cominciare con la “D”…
Chissà se mi ha visto, dietro a quella vetrata…

The show must go on…

Icy24

Il Direttore

Posted by rem on Agosto 15, 2011
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Il direttore tu lo conoscevi quando era giovane, simpatico, disponibile; oggi sembra che gli abbiano messo una scopa di saggina nel culo e che questo lo irrigidisca un poco.

Deve averne passate di ogni, per avere quell’espressione altezzosa, quasi inebetita da chi guarda dall’alto al basso e non vede comunque. Chissà quante ne ha passate per aver perso ogni parvenza di emotività, nulla che rilevi in lui una non so che di intelligenza dell’animo. No è tutto numeri, statistiche, computo orario, ore dovute, ore fatte, minuti di assistenza. Quanti assistenti occorrono per coprire una unità operativa 24 ore su 24, 365 ore all’anno ? A conti fatti, secondo il Direttore che usa le stime della direzione generale, che a sua volta si rifà alle indicazioni dell’assessore regionale, che a sua volta si rifà al ministro della sanità…

Beh, a conti fatti basta un assistente in buona salute, che non mandi malattia, non vada in ferie, non recuperi le notti e lavori i festivi.

Ma come è possibile timidamente gli chiedi? Possibilissimo, ne basta uno giovane non sposato e precario, non c’è problema e quando si esaurisce lo sostituisci con uno giovane non sposato e precario e così via. Semplice.

C’è un rimedio per tutto, una soluzione si trova sempre, basta avere buona volontà e spirito d’iniziativa, avere in mente la mission e la vision e tutto fila liscio.

Il direttore sospetti non sia umano, è un replicante stile Blade Runner, un clone, un Avatar; è stato mandato con una missione specifica (mission appunto): distruggere tutto ciò che trova sulla sua strada, abbattere dall’interno la Sanità Pubblica come uno 007 infiltrato.

Lo pagano bene e può anche essere che non si renda conto di niente, è un fine esecutore di disegni altrui, un fumettista, un artista di second’ordine. Lui ci mette la compostezza, lo stile, il savoir-faire imparato in tutti questi anni.

Ci mette anche la faccia da culo e il culo vero e proprio in cambio di un buono stipendio e qualche soldo sotto banco, ma innanzitutto nutre la sua personalità voracemente vanesia, bramosa di riconoscimento, rispetto, venerazione, ammirazione.

Lui è il capo indiscusso. Se gli capitasse di allargare lo sguardo, di vedere tutto il mondo là fuori che se ne fotte, ne trasalirebbe, ma non un barlume di dubbio si affaccia sui campi desolati della sua sconfinata autostima. Si stima, si piace, vorrebbe baciarsi sulla bocca con la lingua se potesse. Ma capisce anche lui che l’anatomia umana ha delle pecche, dei limiti invalicabili e non può.

rem

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mani

Posted by Giramondo on Dicembre 14, 2009
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Mani, in Afghanistan.

Mani portate al cuore per augurare “Salam aleikum”, che la pace sia con te, in segno di saluto.
Mani di uomini anziani indurite dal lavoro dei campi.
Mani di donne dipinte a disegni floreali con Hennea nero sui palmi, per i giorni di festa e per i matrimoni.
Mani grasse e ricolme di anelli delle popolazioni dei nomadi Kuci.
Mani che si stringono per dimostrare amicizia e rispetto.
Mani che scrivono segni per me incomprensibili, e al contrario, cioè da destra verso sinistra; (ma i numeri sono uguali!)
Mani ad indicare aerei ed elicotteri militari in volo.
Mani di bambini alzate in cielo a far girare gli aquiloni.
Mani tese con il bicchiere di “Chai” (tea) verde, con tanto zucchero, nei momenti di pausa, seduti a chiacchierare, ad informarsi delle rispettive famiglie, a chiedere come si vive nelle loro case ed a riferire come si vive a casa mia.
Mani di macellai che sgozzano capre secondo il dettato islamico.
Mani rosse di freddo che trasportano secchi d’acqua.
Mani che spezzano e portano alla bocca il “naan” caldo (il pane afghano non fermentato, piatto e rotondo o a forma di rombo)
Mani di soldati e poliziotti che imbracciano Kalashnikov.
Mani di madri che sorreggono figli.
Mani di ragazzine che afferrano la corda al collo della mucca o dell’asino portati al pascolo.
Mani di scolari piene di libri (zaini e cartelle non ci sono o costano troppo…)
Mani portate al volto e poi appoggiate a terra, durante la preghiera ad Allah.

Mani che visitano Pazienti.
Mani di partorienti aggrappate al lettino accompagnate dal dolore della nuova vita che arriva in questa terra.
Mani minuscole di neonati che si muovono nell’aria, cercando istintivamente un appiglio, alla ricerca del seno che li nutrirà.
Mani in urgenza che afferrano laringoscopio, bisturi, fonendo, agocannule, garze.
Le mie mani magre tagliate dai fili chirurgici tirati per stringere i nodi di sutura.

Mani di bambini e di bambine che non ci sono piu’, portate via per sempre da una mina.

Giramondo

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notti di guardia

Posted by joyce on Marzo 07, 2009
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Frammenti del mio io
Frammenti del mio giorno
Un giorno come tanti passato in ospedale
Tra mille suoni
Tra mille allarmi
Tra mille richieste
Tra mille esami da guardare
Tra pazienti da scrutare con le tue mani, con i tuoi prelievi, con le Tac
Per cercare di non lasciare niente di intentato,
niente di non esplorato
e allora ti immergi tra le cose
con la tua conoscenza che a volte vacilla
con la tua sicurezza che a volte tentenna
domande affiorano mentre ti muovi
se era corretto il tuo percorso
il filo del tuo pensiero
l’intuizione avuta
ciò che hai scritto su quel foglio prima così bianco
e poi pieno di segni, carico di termini, a volte complessi
se valeva la pena litigare con i tuoi colleghi sul senso di un tuo gesto
di una tua immagine

poi , dopo aver lasciato i tuoi dubbi in mano al tuo collega della notte
fai scorrere la porta della tua rianimazione dietro di te
come una coperta calda la stanchezza ti avvolge
e a mano a mano che scendi le scale , attraversi l’atrio e vai verso la macchina
il filo dei tuoi pensieri continua a seguirti e ti chiedi se sia stato giusto correre per tutto il giorno tra le pagine dei libri che hai studiato all’università

esci in questo giorno che odora di pioggia
con un sorriso guardi le facce che popolano il parcheggio
e poi ti fai un’altra domanda ti compare davanti
se a volte non sia giusto cercare di scrutare e indagare un po’ anche te stesso
per capire dove stai andando

accendi l’auto, ti meriti la tua canzone preferita del momento
Ben Harper sottovoce continua a ripetere sun is burning
improvvisamente senti un po’ di più il freddo di questo inverno pungente
e vorresti essere nei posti di quando eri bambina
ma questo è il filo di un altro pensiero

buonanotte

joyce

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la luce delle stelle

Posted by Pentothal on Gennaio 29, 2009
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Come un rito, a fine guardia, ti avvicini al lavabo e ti lavi via la notte dalla faccia, uno sguardo allo specchio una carezza alle occhiaie e sei fuori, la luce appare irreale e morbida ma sempre troppo forte per i tuoi occhi rossi.

Le ruote della macchina fischiano sul cemento liscio del parcheggio sotterraneo che mi aspetta dopo due notti e due giorni di lavoro. Sistemo la macchina quasi senza sforzo. Di inerzia e consuetudine, a volte, ne vivono anche i motori e le apparecchiature elettroniche. Come i tasti del computer che sono leggermente più consumati su lettere che indicano certe parole. Come liberta’ pace e pane.

Le stelle vibrano stanotte. Un cielo terso, limpido. La luna piena rende più azzurro tutto lo spazio sopra la città di pietra. Altrove nello spazio, che sia la notte nera.
Qui tutto brilla. Emette bagliori. Forse le esplosioni di gas, le scariche di energia e le forze oscure che regolano l’universo. Ma ogni cosa traspare armonia, in questo viaggio fra un tramonto arancione ed un’alba che si prospetta viola e porpora, in una notte un po’ speciale.

Difficile essere freddi di fronte a quello che tu hai vissuto, che il pianeta ha vissuto, l’affermazione tangibile di un miracolo laico. Generare vite da una spezzata, mantenerne solo il soffio con la conoscenza, migliorarne altre con la virtù, l’attitudine.

Devi vivere, convivere con la faccia che hai, nelle mattine di crisi e di euforia, entrambe ingiustificate emozioni in una visione di lungo periodo.

E devi conviverci, con questa impressione di inizio anno che
c’e’ sempre un grumo di foglie che blocca i binari per ritardi abissali,
c’e’ sempre un grumo che blocca un catetere per un viaggio senza ritorno
c’e’ sempre un frammento del tuo volto che non riconosci mai, che scopri in un alba invernale e
c’è sempre all’improvviso una luce siderale notturna che ti fa fermare ad osservare l’intorno che diventa sereno e placido, anche dalle finestre di una Terapia Intensiva.

Ci sara’ sempre un intoppo ad un piano ben delineato e programmato.
Il capo che si preoccupa per qualcosa che doveva essere fatto ieri e l’ha saputo solo stamani, l’infermiera che ti corre incontro urlando selve di consonanti e di vocali, acronimi di tragedie dove mettere la testa e le mani, IMA EPA FV IRC IPPV BLS SHOCK… Ti interroghi un attimo sul paradosso e subito dopo devi muoverti, correre, ansimare sulle scale del mondo della scienza, inventarti astrazioni e cose sensate da dire, fare, baciare, lettera e testamento.

esercirtare la professione come una virtu’
La virtu’ che si genera dall’improvvisazione e dalla conoscenza, per lanciarsi nelle giornate in un giro di blues senza protezione, senza spavento, con misura. La virtu’ che nasce dalla passione, dal metodo che diventa follia pura, fieramente antagonista rispetto al mondo ed al suo corso.

E rimboccarsi le maniche per sentirsi parte di un unicum. Che ti manca, ti manca nelle cose del tuo lavoro come in quelle del tuo Paese. Quel senso di unita’ e di amore al destino dell’altro, che hai trovato nello sguardo fiero e lacerato di una madre che saluta la vita che ha generato

Cerchi un attimo di silenzio, nelle emorragie cerebrali che accadono tutt’attorno. Nelle tragedie che accadono. Nei terremoti umani ed in una serie di sguardi, volti, che, ancora una volta, devi fronteggiare. Con coraggio.

Poi, torni ad osservare quel volto nello specchio e ti si ripropone quel
dilemma di una vita che non vuol rallentare mai, nonostante la crisi.

E piangi, come una fontana rotta, senza imbarazzo.
senti il senso della tua professione ravvivavato da una storia che e’ arrivata a destinazione per ripartire ancora una volta.
Energia che ricade sulla Terra, che vive ancora l’assurdità della guerra, sulle zolle appena girate sulle vigne con i frutti ancora appesi. Energia, veleno, amore e vita nei giorni iracondi e sedati che si susseguono.

E leggi rassegne stampa che dicono ma non sanno raccontare, parlano di fegato reni e cornee, dimenticando che il cuore , quello, lo abbiamo messo noi.

E non c’e’ rimedio se non cantare ancora un’altra canzone. Di protesta. O delirantemente sentimentale, dedicata a Giuseppina assorta a guardare le stelle dall’altro versante delle cose

Pentothal

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2 giorni 28 ore 1680 minuti

Posted by Piuma on Settembre 23, 2008
emozioni / 1 Commento

attaccata a quel letto
le narici impregnate di odore di morte
gli occhi fissi sul paziente e poi sul monitor…

poi ancora sul paziente e poi sul monitor…

ce ne fosse uno solo di monitor, ma poi diventano 2,3,4…
le orecchie tese in ascolto dei suoni degli allarmi che modificano tonalità se a scendere è la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa, la PIC o la saturazione di ossigeno
la voce che alla fine della seconda giornata esce roca, rotta dalla stanchezza, dalla sensazione sempre più forte e più netta di aver lavorato duro per un risultato assente…
mi rimane solo il silenzio…

assordante dentro di me…

vale la pena tutto questo?
le lacrime bagnano il viso e offuscano la vista mentre torno a casa…

nebbia

una luce in fondo: non sono io, non siamo noi ad avere l’ultima parola

Piuma

dov’è finito Babbo Natale?

Posted by Gus on Settembre 10, 2008
emozioni / 2 Commenti

Sono un’anima persa che vaga senza un Dio.
Sono anestetizzata, mente e corpo, avvolti nel coma farmacologico del consumismo.
Non ho più un’etica.
Non ho più una ragione.
Ho il cuore così vuoto e gli occhi incapaci di sorridere.
Aridità è il mio nuovo nome: Aridità di idee, azioni, emozioni.
IO, centro del nulla, girovago in un vortice di fatti, persone, date e luoghi.
Spazio e tempo sono diventati solo rimpianto e rammarico; rimpianto di un tempo che fu, rimpianto di luoghi abbandonati, rammarico di mille cose decise e mai fatte. La mia incapacità di essere felice mi ha reso l’anima sterile, neppure più spinta da fremiti ambiziosi ed egoistici.
Aridità è il mio nome.
Marco muore.
Guido non è più in coma.
Rosaria non cammina più
E’ morto lo zio.
Carlo ha perso la casa ed il lavoro.
Che cosa devo provare?
Queste infinite tragedie che si svolgono ogni giorno davanti ai miei occhi mi hanno anestetizzato l’anima.
Dio dove sei? Dio ci sei?
Io ti ho abbandonato. Io ho riposto la mia fede, la mia devozione ed il mio cuore è diventato incapace di pregare.

Gus

 

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