Finalmente una notte feriale… la sognavo da tempo, per non dover combattere nuovamente con corpi estratti da macerie di automobili trasformate per attimi in shuttle dalla magia dei fumi dell’alcool…
Tranquilla fino alle ore 5.00, quando il magico tic tac del conto alla rovescia delle 12 ore di guardia pulsa ormai forte e deciso nelle orecchie e nel cervello.
Io e il mio compagno di turno decidiamo di dividerci e lo spedisco in branda mossa a pietà dai suoi racconti di notti insonni grazie alle ripetute coliche del suo bimbo di neanche un mese e dall’adrenalina che ancora mi pervade nonostante si intravedano le luci dell’alba.
Rimaniamo io e i miei infermieri, a pensare alla colazione e a sbirciare dalla finestra, sperando che la neve non attacchi e ci permetta di raggiungere in fretta i nostri giacigli.
“C’è un giallo” risuona una voce stanca “dolore toracico”
“Portiamolo dentro… il solito ragazzi” che sta per ECG e prelievi, mentre io guardo la documentazione clinica e mi preparo psicologicamente a ricevere le informazioni del caso
“guarda Doc…” butto un occhio sul tracciato e lo vedo subito, ma sono al contrario e per un attimo mi sembra sottoslivellato, poi realizzo: “chiamami il cardio sul cicalino” e intanto il giovane signore, che visto da vicino è proprio sofferente, mi dice che il dolore gli pare proprio lo stesso del 2006 quando “ha fatto l’infarto e poi la plastica con il palloncino”
Suona il telefono e il mio Collega Cardiologo mi risponde con una voce proveniente diretta dall’oltretomba.
“Abbiamo un IMA” “E io questo dove lo metto?” risponde “Va beh, scendo”
Il Cardio arriva, getta un occhio cerchiato sull’ECG e prende il telefono, sbuffando bofonchia: “Dobbiamo portarlo su”
Mentre attacchiamo il monitor per il trasporto in Reparto ecco il suono: linea diretta con il 118. Squilli dall’Inferno e penso che è mercoledì sera, ne sono certa, e di tamponamento ce n’è già stato uno verso le 2.00, che c’è ora?
“Questo è rosso, un’emiparesi. 5 minuti, arrivano dal centro città”
Pensavo peggio, rifletto un secondo se preallertare la Stroke Unit e poi penso che prima me lo guardo io, che ho tempo.
Arriva. Ha un emilato in una posizione innaturale e mi dice che è perché è caduto dal letto, che sciocco, ma io leggo nei suoi occhi che oltre a mentire a me mente anche a se stesso.
Lo valuto rapida e poi parlo con la moglie, una bella signora sui 50 anni, seguita da un ragazzo alto alto, che cammina un poco curvo, una zazzera di capelli spettinati sopra gli occhiali dalla montatura spessa.
Lei mi dice che non è riuscita a sollevarlo da terra, che non è mai stato in ospedale prima, che non sa come funziona. Mi chiede fra quanto lo manderemo a casa.
Io le spiego che i sintomi del marito mi preoccupano, che probabilmente è successo qualcosa a livello cerebrale, che sicuramente questa sera non andrà a casa, lo devo ricoverare, ma prima facciamo degli accertamenti, voglio vederci chiaro. Non pronuncio la parola “ictus”, non ancora, tento di farle capire la gravità piano piano, poi le chiedo di accomodarsi in sala d’attesa perché arriva il Collega Neurologo ed inizia a valutare a voce alta se è il caso di trombolisare oppure no. Magari ci sanguina, bisogna avere più informazioni, preferisco che lei non senta. Non subito quantomeno.
Mando il paziente a fare la TC, accompagnato dal Neurologo, mentre io accolgo un nuovo dolore toracico e, di nuovo, chiamo lo “sbuffatore professionista” che, questa volta ormai ben sveglio, quasi non ci crede quando gli dico che ho un altro IMA ST-sopra a distanza di soli 20 minuti dal precedente. Però non brontola più e mi raggiunge anche più rapidamente.
Di nuovo il telefono, questa volta il mio, è il Neurologo dalla TC che mi dice di chiamare il Collega Neurochirurgo perché il paziente è emorragico e che la linea cerebrale mediana quasi non si vede più, tanto è schiacciata da un lato.
Lo aspetto e torniamo dalla moglie, questa volta in una stanza separata. Io più che provata, il Collega preoccupato, il figlio-zazzera e la signora. Le spieghiamo cosa abbiamo visto con la TC, che tutto quel sangue sarà difficilmente raggiungibile chirurgicamente e che preme proprio sopra i centri del respiro, che può peggiorare da un momento all’altro.
Il figlio si siede. Il colorito bianco-verdastro. Improvvisamente lo vedo invecchiare di almeno 10 anni. Lo sbircio cautamente per controllare che dalla sedia non crolli a terra, non sarebbe la prima volta.
Lei no, la consapevolezza della gravità non la raggiunge subito. Inizia a parlare a raffica, del marito, di come sia sempre stato bene, del fatto che non abbia ancora voluto andare in pensione, di sua madre morta a 97 anni (“sono geneticamente forti, mai visto un medico”) all’inizio usa il presente, poi inizia a parlare del marito al passato. Capisco che non siamo più davanti ai suoi occhi, che il dialogo è per se stessa, per poter accettare quella terribile verità che le abbiamo detto che ancora non riesce a farsi completamente strada nella sua mente.
E mi chiedo chi sono io per distruggere le sue illusioni? Che diritto ho di portarla bruscamente con i piedi per terra? Di farle ingoiare questa terribile e fredda realtà?
Ma poi penso che non ho nemmeno il diritto di lasciarle credere che andrà tutto bene, perchè quando la consapevolezza arriverà sarà uno schiaffo forte e secco e le farà troppo male.
Riprendo piano piano le redini del discorso, ripeto cose già dette, più lentamente, la guardo dritta negli occhi e finalmente la vedo, vedo spegnersi una luce nei suoi occhi verdi, le labbra tirarsi e scomparire. Sono pronta a sorreggerla, invece: “Grazie, dottoressa. Ora ho capito” sono le parole che sento. Le stringo la mano e il Neurologo le dice che se ha qualcuno da pregare quello è il momento per farlo. Sono belle parole, io non ne sarei stata in grado.
Ci allontaniamo da loro e continuiamo il nostro lavoro. Guardo l’ora: le 6.45. Mi metto mascherina e guanti puliti – non posso permettermi il lusso di fermarmi – saluto il signor Riccardo, che con la rima buccale deviata, riesce comunque a farmi un sorriso. Ancora stabile nonostante il caos regni sovrano nel suo cranio e per un attimo è lui a fare coraggio a me.
DEA
Un giorno, quando sarò da sola davanti ai miei pazienti, e non ci saranno più medici e specializzandi “a tenermi la mano”, beh spero di avere un po’ di ognuno di voi che raccontate sempre storie di grande umanità