l’uomo dalle otto pompe

Scritto da il Catalano il 23 Luglio, 2009
cronache / 4 Commenti

L’altro ieri ho fatto la mia seconda guardia in UCIC. A differenza della prima guardia, questa volta i pazienti erano, come se fosse possibile, ancora più critici. C’erano due intubati, tre avevano un contropulsatore aortico. Gente più di là che di qua, tutti giovani o giovanissimi.
Prima di andare a dormire, sulle 2, faccio un giro per vedere come stanno i pazienti. Finché entro nel Box 2, dov’è ricoverato un uomo di cinquantotto anni (l’età di mio padre), che poco più di ventiquattro ore prima stava tranquillamente guidando la sua auto in un paesotto di provincia, quando di punto in bianco il suo cuore si ferma. Passano i minuti, arriva l’ambulanza medicalizzata, quella per i casi più gravi. Il paziente è in fibrillazione ventricolare: una scossa, niente, due, niente; adrenalina, atropina, amiodarone, dopamina, intubazione orotracheale; tre, quattro, cinque, sei, sette, otto scosse… C’è un ritmo! In tutto sarà stato morto una mezz’ora. Lo portano all’ospedale. Là perde il polso, si sospetta una dissociazione elettromeccanica, altro massaggio cardiaco, adrenalina e noradrenalina. C’è polso.
Nell’ECG un blocco di branca sinistro non conosciuto. All’ecocardiogramma un cuore ridotto a una poltiglia, stordito dall’ischemia, incapace di contrarsi bene. Il paziente è in un ospedale di provincia, Catalogna profonda: emodinamica? figuriamoci! Si fa fibrinolisi e trasferimento urgente al mio ospedale, nella capitale.
Arriva il paziente, è già notte fonda. L’emodinamista reperibile è già arrivato. Nel bel mezzo dell’ordinato caos della preparazione all’angioplastica primaria, trova il tempo, con la fredda professionalità di chi ha compiuto quei gesti migliaia di volte, di includere il paziente in un grande trial che verrà prossimamente pubblicato in un’importante rivista.
All’angiografia si nota che sia la discendente anteriore che la coronaria destra sono severamente ostruite, per cui vengono messi tre stents nella prima e uno nella seconda. Siccome il paziente è in shock cardiogenico, si mette anche un contropulsatore aortico.
Il paziente arriva in UCIC, dove viene ricoverato e stabilizzato. Come complicazione (come se non bastassero già la morte improvvisa e l’infarto massivo con shock cardiogeno), un’emorragia digestiva alta.
Tornando a noi, entro nel Box 2, e mi trovo di fronte una di quelle scene a cui mi dovrò presto abituare: paziente sedato e intubato, nudo, impotente e incosciente della sua condizione, migliaia di lucine lampeggianti, e bip-bip dei vari monitor, pompe di infusione, respiratore e contropulsatore aortico. Sembrava un albero di natale, con tutte quelle pompe appese ai pali. Otto pompe che gli infondevano, con metodica regolarità, la dobutamina, adrenalina, noradrenalina, eparina, pantoprazolo, insulina rapida, soluzione glucosata e midazolam che lo facevano rimanere aggrappato alla vita. Una vita che aveva cercato di sbarazzarsene, ma grazie all’impegno, al sudore e all’incrollabile dedizione di medici e infermieri era stato strappato alla morte e riportato nel mondo dei vivi.
A quel punto, nella mia inesperienza di neo-specializzando del secondo anno, mi sono detto: “ma se succede qualcosa, cosa posso fare io per questa persona?”. Sono andato a dormire, inquieto.
Avevo freddo, così mi sono rifugiato sotto il lenzuolo e la coperta sintetica del letto del medico di guardia, come se potessero difendermi da quella situazione così critica che avevo appena visto.
E mi sono sentito piccolo piccolo, insignificante, di fronte al duro e spietato mondo che c’era là fuori…

il Catalano


storie importanti (3)

Scritto da il guardiano il 14 Luglio, 2009
grandi autori / Nessun Commento

[…] Partendo dal postulato che causa diretta dell’arresto temporaneo o permanete della vita fosse la coagulazione di taluni elementi e composti del protoplasma, aveva isolato le varie sostanze sottoponendole a numerosi esperimenti. Siccome l’arresto temporaneo dell’energia vitale in un organismo porta al coma, e un arresto permanente alla morte, lui riteneva che con mezzi artificiali tale coagulazione del protoplasma si potesse ritardare, prevenire e addirittura vincere nei casi finali della solidificazione. Insomma, accantonando la terminologia tecnica, sosteneva che la morte, qualora non violenta e laddove nessun organo vitale risulti leso, è soltanto energia vitale interrotta; in un caso del genere, adottando i metodi appropriati, si poteva indurre la vita a riprendere le sue funzioni. Questa dunque la sua idea: scoprire il metodo – e verificarne sperimentalmente la possibilità – di restituire l’energia vitale a un organismo che la vita sembrava aver abbandonato.
[…] Una volta che fu tutto pronto, venni ucciso da una massiccia dose di stricnina e lasciato morto per una ventina di ore. Per tutto quel lasso di tempo il mio corpo rimase morto, assolutamente morto. Respirazione e circolazione cessarono del tutto; ma la cosa spaventosa fu che, mentre era in atto la coagulazione protoplasmatica, io ero cosciente, e in grado di studiarla in tutti i suoi raccapriccianti particolari.
L’apparecchio usato per riportarmi in vita era una camera a tenuta d’aria, fatta in modo da contenere il mio corpo. Il meccanismo era semplice: qualche valvola, un albero rotante, una manovella e un motore elettrico. Quando era in funzione, l’atmosfera all’interno era condensata e rarefatta a fasi alterne, consentendo così una respirazione artificiale ai polmoni senza dover ricorrere ai tubi usati in precedenza. Pur con il corpo inerte e, per quel che ne sapevo, ai primi stadi della decomposizione, non mi sfuggiva niente di quanto succedeva. Mi resi conto di quando mi misero nella camera e, pur con i sensi sopiti mi accorsi delle iniezioni ipodermiche a base di un composto fatto per reagire al processo di coagulazione. Poi chiusero la camera e il meccanismo si mise in funzione. Ero in preda all’angoscia: ma la circolazione tornò pian piano normale, i vari organi ripresero a svolgere le rispettive funzioni, e nel giro di un’ora consumavo un lauto pasto.
(da “Le mille e una morte” di Jack London).

il guardiano

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come l’acqua del fiume d’estate

Scritto da Morris il 04 Luglio, 2009
cronache / 2 Commenti

E’ giunto quel momento della notte in cui ci si può chiudere in stanza e pensare di stendersi sul letto a cercare di dormire un poco.
L’attività nei reparti è come congelata, e si sente solo il borbottio dei gorgogliatori dell’ ossigeno, lontano e sommesso. Lontano, forse due piani più sotto, un anziano allettato ripete il suo lamento, ormai, più che disperato, stanco e poco convinto.
Sì, sarebbe bello stendersi, chiudere gli occhi, e dormire di quel sonno profondo che riuscivi a ritagliarti anche nelle notti peggiori quando eri un poco più giovane. Adesso è diventato più difficile. I pensieri si sovrappongono, si intrecciano, idee che magari durante il giorno ricacci in seconda linea nel silenzio della notte affiorano e ti legano a loro, allontanandoti dal sonno.
Allora accendi la televisione, con il volume azzerato, e cominci a scorrere i canali: vecchi film, televendite, una ragazza in body trasparente che risponde a un telefono erotico; ha uno sguardo assonnato e pieno di disincanto, e mi viene da pensare che anche lei in fondo indossa una divisa e sta svolgendo un turno di guardia di notte.
Il telefono che suona, con quel suono che di notte ti sembra ancora più odioso. Medicina, stanza 312, il paziente del letto A è peggiorato.
Una volta in reparto, tardo poco ad accorgermi che la situazione lascia ormai poco spazio di manovra. Carcinoma polmonare con impegno mediastinico e metastasi ossee. Saturazione e pressione in calo. La Medicina tecnologica, con le sue sale operatorie lucenti, i suoi apparati di radioterapia, i suoi chemioterapici da migliaia di euro a fiala ha perso la guerra, e ora si sta ritirando in buon ordine, lasciando il compito delle ultime azioni di retroguardia al nostro piccolo reparto di Medicina geriatrica.
Guardando i suoi dati, mi accorgo che il paziente proviene da un paesino dell’Appennino dove da bambino passavo spesso l’estate.
Probabilmente l’ho anche incrociato allora, in quel piccolo borgo ci si finisce per conoscere tutti. Difficile però riconoscerlo ora in questo volto emaciato e contratto.
Chiedo agli infermieri se ci sono familiari da contattare per informarli del peggioramento. Mi rispondono che Bandini, il nostro paziente, è vedovo e senza figli. Il parente più prossimo è un nipote, che però è “sceso a valle” dall’altro lato dell’ Appennino, e se anche gli telefoniamo, certo non si mette in macchina a quest’ora di notte.
Bene, Bandini, sei venuto qui da noi per combattere, e perdere , la tua ultima battaglia tutto da solo.
Mentre gli appoggio lo stetoscopio sul torace, apre gli occhi e mi guarda, e nel suo sguardo si intuisce, più ancora della sofferenza, la paura. E quella paura lo congela, lo ancora alla sua condizione di agonico, gli impedisce di lasciarsi andare: andare verso un ignoto che gli appare più terrorizzante di quella stretta che lo soffoca, di quel dolore che gli scava le ossa.
Chissà come, in quel momento, mi torna in mente il ricordo di una estate assolata passata nel suo paese.
Di una corsa di bambini lungo un sentiero sterrato, verso il fiume; a un certo punto la strada si perde in mezzo al verde, e precipita giù nel rivale, in una pendenza che ai miei occhi di bambino appare un ostacolo insormontabile. Ci blocchiamo, finché uno di noi non prende la rincorsa e si getta lungo la discesa. Pochi secondi , e poi occhieggiando fra i rami, lo vediamo in fondo al pendio, che si sbraccia per invitarci a seguirlo: “Forza, la discesa non è poi così ripida, e l’acqua qui è freschissima”.
Socchiudo gli occhi, mi lancio anch’io lungo il pendio, trattenendo il fiato, e in un attimo sono alla riva del fiume, e il brivido delizioso dell’acqua ancora fresca di sorgente è il premio del coraggio.
A quel pensiero sorrido.
Lui vede il mio sorriso, senza capirlo, e in quel momento mi viene da pensare :”Lasciati andare, Bandini, non è poi così ripida la discesa, e l’acqua del fiume in fondo è fresca”.
Chissà, forse nel silenzio della notte , in cui un sussurro sembra un grido, un pensiero può essere percepito come un sussurro.
Si, certo, è senz’altro l’effetto della morfina che ha cominciato ad infondere, eppure, quando vedo il suo volto distendersi, e il respiro farsi meno affannoso, mi viene da pensare che Bandini mi abbia sentito, e che ora, chiudendo gli occhi, non più spaventati, sogni di correre verso il fiume della sua e della mia infanzia.
Un ora dopo la solita routine. Tanatogramma, ISTAT, chiusura della cartella, la telefonata al nipote, che mi risponde con una voce assonnata e assai poco coinvolta, le frasi di rito, sempre quelle: “Ha finito di soffrire, è stata una cosa rapida, cosa dice, vuol sapere se se ne è reso conto?” Ma certo , coglione, che se ne è reso conto; ma come, sempre, faremo finta di no, la solita negazione dell’evidenza che mettiamo in scena a beneficio dei pazienti terminali e, soprattutto, dei loro congiunti.
Esco sulla terrazza all’ ultimo piano, per respirare un po’ di aria fresca. Fuori, comincia a trasparire una luce rossastra, in direzione del mare. I monti, all’estremità opposta dell’ orizzonte, rimangono ancora una massa scura, avvolta nell’ombra.

Morris

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il maestro

Scritto da Sun-Tzu il 26 Giugno, 2009
pensieri / 6 Commenti

Se hai fortuna quando cominci questo mestiere hai davanti a te un maestro. E io questa fortuna l’ho avuta.
Un maestro lo riconosci subito. Ti insegna senza clamore. Ti insegna l’etica e l’onestà intellettuale prima di insegnarti la medicina. Ti insegna il rispetto per i pazienti ed i loro cari. Ti insegna un metodo. Ti insegna ad amare questo lavoro, anche quando sei stanco.
Un maestro lo riconosci subito. Sta a te seguirlo. Lui ti insegna con l’esempio.
Un maestro c’è sempre. Anche quando non è in reparto. Un maestro non lo disturbi mai, anche in piena notte. Un maestro non ti lascia mai solo in situazioni difficili. Un maestro accolla su di sé le grane più grosse. Un maestro pretende molto dai suoi allievi. E sa essere severo e giusto.
Un maestro sa molte cose, ma non lo hai mai sentito dire che sa tutto. Ma le volte che non aveva ragione tu non te le ricordi proprio.
Un maestro sa che ci sono altri maestri e lascia che i suoi allievi vadano ad imparare in altre scuole, se lo desiderano. I maestri non sono gelosi della conoscenza.
Un maestro concede all’allievo una progressiva indipendenza, pur rimanendo sempre disponibile al confronto e, se necessario, all’aiuto concreto. Anche quando sei ormai cresciuto.
E in questo mestiere anche quando sei convinto di averne viste tante e di aver maturato una grande esperienza un maestro sa ancora stupirti.
Sfortunatamente i maestri sono pochi. Se non ti riconosci in questo breve racconto, mi dispiace, ma significa che non hai mai incontrato un maestro.

Sun-Tzu

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il cellulare

Scritto da Giro Batol il 18 Giugno, 2009
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Radiologia, 20.15: il turno è iniziato da poco e abbiamo appena terminato la diagnostica per immagini di un giovane signore caduto dal balcone di un secondo piano. La sua vicina uscendo aveva dimenticato le chiavi dentro casa e lui aveva cercato di entrare dal balcone per aprirle la porta, ma la ringhiera aveva ceduto. Era caduto in piedi, non aveva battuto la testa, si era rotto i calcagni, un femore ed una vertebra lombare, ma senza lesioni midollari:
“Tutto sommato gli è ancora andata bene pensavo tra me e me”
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
non è il mio cellulare sarà quello di Laura, l’infermiera del Pronto Soccorso che mi accompagna, ma anche lei mi guarda con aria interrogativa.
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Il suono proviene dal fagotto posto sotto la barella dove raccogliamo generalmente quel che resta degli indumenti personali dei pazienti spesso sbrindellati nelle convulse fasi iniziali di assistenza. Mi chino, vedo il bagliore di un display con una scritta: CASA
Ho quasi una scossa al braccio proteso verso il cellulare e lo sguardo si fa vuoto…

“Tango zero da Tango 85, Tango zero da tango 85”
“Avanti per Tango zero”
“Tango 85 ha scaricato il paziente in Pronto Soccorso a Chivasso ed è di nuovo operativa”
“Mi confermi Tango 85 che siete operativi?”
“Confermo Tango Zero”
“Bene perché abbiamo un nuovo servizio per voi, si tratta di un codice Rosso Uno Sierra, ripeto Rosso Uno Sierra, sull’autostrada Torino-Milano, uscita Chivasso Ovest, direzione Torino. I testimoni parlano di due ragazzi incastrati apparentemente incoscienti, ma vivi. Orario di apertura del servizio ore 03.15”.
“Ricevuto Tango Zero, abbiamo uno stimato di arrivo sul posto di 4 primi, chiudo. Cazzo, Doc, ma quando ci sei tu non si dorme mai!”
Chi aveva tenuto la conversazione con la Centrale Operativa era Luca, 16 anni, volontario della Rossa da due; un armadio di 185 centimetri con due spalle belle larghe; era un ragazzo difficile, senza padre e con amicizie pericolose, aveva appena abbandonato la scuola e iniziato a lavorare come muratore. Preso nel modo giusto era buono come il pane, ma se gli saltava la mosca al naso, come mi raccontava orgoglioso nei pomeriggi in cui cercava disperatamente di insegnarmi a giocare a ping-pong in attesa di un servizio, era capace di scatenare risse furibonde con i malcapitati di turno.
“Dai Luca, capita con tutti…”
“Di andare alle 03.00 di notte, sotto una pioggia della Madonna, in autostrada, su un Rosso Uno Sierra, con due ragazzi incastrati? No, può capitare a tutti, ma poi capita a te porco dinci porco, e io lo so, è per quello che mi faccio mettere in turno con te”.

“Ma smettila, va; occhio che ci siamo quasi”
“Là c’è uno che segnala”, dice Grop, il nostro autista di tante missioni; 50 anni, ben piazzato, uno dei pochi in grado di tenere Luca sotto la propria ala protettrice.
La macchina, una Fiesta nera, è ferma contro il guard rail, ma si deve essere ribaltata un po’ di volte, è tutta accartocciata.
“Tango zero da Tango 85, Tango 85 sul posto” e poi ancora:
“Siamo i primi, metto l’ambulanza a protezione dell’auto, con questa pioggia non si vede niente”.
Grop sapeva il fatto suo: quando arrivi sull’incidente, recitano i manuali, valuta subito la scena, comprendi la dinamica e metti tutti in sicurezza.
Il servizio 118 era partito solo da sei mesi a Chivasso e non avevamo ancora l’infermiere a bordo per cui l’equipaggio era completato da una terza volontaria della Croce Rossa, Ingrid, studentessa in Medicina di origini francesi, brava e pacata, dai modi cortesi, ma risoluti.
“Grop, tu bada alle segnalazioni, io penso ai ragazzi con Luca ed Ingrid”.
La scena era raccapricciante scriverebbe un bravo giornalista, un miscuglio di sangue e lamiere, dolore e morte senza senso o come hanno cercato a lungo di insegnarmi “con un senso imperscrutabile”.
Veloce come un lampo, Luca, che con la freddezza di un veterano ha già esplorato le possibilità di accesso ai ragazzi feriti, estrae le Robin dallo zaino e con qualche colpo ben assestato sfonda il lunotto posteriore unica via praticabile per arrivare ai due ragazzi. Mi incuneo nell’abitacolo con due collari infilati nel braccio e l’immancabile marsupio in vita. Arrivo al quadro ancora acceso e lo spengo. Lui è con il capo riverso sul volante, immobile con lo sguardo vitreo di chi è già andato da un po’. Gli palpo il polso carotideo: assente. Lei ha il capo reclinato all’indietro sullo schienale ed un respiro russante: è viva. Le piazzo il collare, mi faccio passare da Ingrid il saturimetro portatile, la bombola di ossigeno e il kit per l’intubazione.
Nel frattempo è già arrivata la Polstrada ed arrivano anche i Vigili del Fuoco. “Doc, per tirarvi fuori dobbiamo segare il tetto, vi verranno addosso i vetri del parabrezza, usate questo lenzuolo per proteggervi”.
Ingrid si è fatta strada anche lei nell’auto per aiutarmi nel posizionare l’accesso venoso e nel tentativo di praticare l’intubazione orotracheale, che fallisce miseramente. Una decina di intubazioni in sala operatoria non bastano per preparare ad una situazione simile. Possibile che chi mi ha preparato ad affrontare queste situazioni solo con un corso di 300 ore, 150 teoriche e 150 pratiche, non se ne sia reso conto?
“Doc, stenda il lenzuolo sulla ragazza e si metta sotto, stiamo per asportare il tetto del veicolo, i vetri voleranno dappertutto”.
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
mi guardo attorno e da sotto un sedile lampeggia il display di un cellulare,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
la scritta è chiara: CASA, mi si stringe il cuore, ma rimango immobile.
Ingrid mi guarda e poi con i suoi soliti modi decisi:
“Che fai, non rispondi?”
“Rispondo? E poi cosa dico, scusi lei è il padre di un ragazzo di circa vent’anni, alto, magro, bruno di capelli che giace qui accanto a me morto o è invece il genitore di una ragazza esile, bionda forse di 18 anni, forse meno, in coma, che ora stiamo cercando di estricare da una Fiesta nera accartocciata?”
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
“No, Ingrid, non guardarmi così, non saprei davvero cosa dire; al corso di 300 ore non mi hanno parlato dei cellulari, non mi hanno detto che squillano e ti cercano insistenti e impietosi anche quando uno è morto o è in coma…”

Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
Il frastuono del gruppo elettrogeno dei pompieri ha infine il sopravvento sul cellulare e sulla mia coscienza…
“Che fai, non rispondi?”
“Sì, Laura, mi ero solo incantato un attimo, ora rispondo…” ora rispondo anche se ormai è troppo tardi!

“Ehi, voi del corso di 300 ore! non mi avevate detto che anche dopo molti anni quando leggi CASA sul display di un cellulare ti potranno tornare in mente lo sguardo vitreo di un ragazzo morto ed il respiro russante di una ragazza in coma…!”

Giro Batol

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la morte dei vecchi

Scritto da Goldencharlie il 08 Giugno, 2009
pensieri / 30 Commenti

Pur essendo assolutamente contrario filosoficamente, umanamente ed eticamente alla pena di morte, ci sono altre morti che mi colpiscono e mi addolorano maggiormente.
Penso alla morte delle persone anziane. Come muoiono oggi i vecchi? Muoiono in OSPEDALE. Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.
“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”. Io faccio il chirurgo e lavoro da venti anni in ospedale. Mi sono trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una vecchia di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la vecchia ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.
A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo. La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.
All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.
“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.
“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.
Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”. La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.
Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri vecchi che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita. Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.
Ma perché? Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.
Regaliamo ai nostri vecchi un atto di amore, non cacciamoli di casa quando devono morire.

Glodencharlie

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cose turche

Scritto da il guardiano il 29 Maggio, 2009
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Arrivo un quarto d’ora prima. In corridoio non c’è ancora nessuno. La signora delle pulizie sta finendo, e il suo carrello si affaccia un po’ ingombrante dalla porta di un ambulatorio. Mi siedo alla scrivania e guardo l’elenco dei pazienti. E’ breve, solo tre. Ma le visite sono lunghe, quindi non è che farò tanto in fretta. Leggo il primo: Adyle Kezam. Cominciamo bene, penso, chissà chi mi arriva. Così cerco di raccogliere qualche informazione in più. Leggo la scheda. Adyle Kezam, ragazza turca di 28 anni. All’ammisione una emorragia cerebrale da sanguinamento di una malformazione artero-venosa. Dimessa poco più di un anno fa dalla nostra rianimazione in discrete condizioni. Il collega che aveva preso l’appuntamento si era segnato alcune note: “…in Italia per un master in astrofisica al Politecnico. Riparte fra un mese. Parla solo inglese”. Subito non ci faccio caso, poi nel momento in cui rimetto in fila tutte quelle informazioni mi accorgo che risuonano in modo particolare. Le parole “turco”, “emorragia cerebrale”, “rianimazione” e “astrofisica” formano una strana assonanza, o dissonanza, quasi comica. Sembra un film di Woody Allen. O una più semplice candid camera. Da qualche parte c’è una telecamera nascosta, sicuro. Non mi resta che stare alle regole e aspettare la rivelazione finale del gioco. Ma la vera prova da sforzo la farà il mio il mio inglese scalcagnato. Per fortuna al fondo di una cartellina ci sono tutti i test originali (in inglese), potrò limitarmi alle solite frasi di circostanza.
Si affaccia un viso straniero alla porta, un uomo: “Buon giorno… siamo per la visita…” e non finisce la frase. “Kezam?” chiedo. “Sì, mia sorella…”. “Prego, entrate…”. Sono in tre. Adyle, suo fratello, e la madre. Quella dell’inlgese era una bufala, penso. “Parlate italiano?” “No… poche parole… inglese o turco”. E’ il fratello a rispondere. Mi aveva fregato, con quelle frasi piazzate lì al posto giusto. Altro che bufala. La recita è cominciata senza che neanche me ne accorgessi, il sipario si è spalancato all’improvviso e io devo fare la mia parte. Parto con i soliti “nice to meet you…” (piacere di conoscervi) e un bel sorriso. Indico le sedie. Prendiamo tutti posto. Ora mi tocca spiegare la faccenda dell’ambulatorio del follow up, dei test… Che casino. E’ complicato in italiano figuriamoci nel mio inglese! Prendo un po’ di tempo, rileggendomi la storia clinica di Adyle. Poi il silenzio comincia ad essere imbarazzante, ma non mi viene niente di intelligente e soprattutto comprensibile da dire. Allora sollevo lo sguardo e lancio il più banalissimo: “how are you?” (come va?) pensando “adesso si alzano e se ne vanno”. Invece Adyle sorride, e risponde con la massima calma: “fine… now I’m fine…” (bene, adesso bene), sottolineando intensamente quel now, come dire: c’era un prima e c’è un adesso. Poi come per giustificare il grassetto delle sue parole inizia a raccontare. Adesso sta bene, perché ha finito il master. Proprio due giorni fa ha discusso la tesi (ASTROFISICA…!), ma è stato faticoso dare gli ultimi esami. Studiava e non si ricordava niente. Aveva mal di testa. E si ripeteva in continuazione: “sono diventata stupida…!”. Io ascolto, e capisco, capisco tutto, non una parola su dieci, tutto! Adyle parla un inglese morbido e fluente, senza sbavature, senza suoni gutturali, senza arrotolare o aspirare incomprensibilmente le sillabe, con un tono calmo e accogliente. E io capisco. E più capisco, più mi viene da guardarla con attenzione (non l’ho ancora fatto). Muove le mani con leggerezza, disegnando nell’aria piccoli arabeschi (cose turche ovviamente…), muove gli occhi come alla ricerca di immagini, che una volta evocate fissa con grande intensità, sorride (e il sorriso resta sempre, come una musica di sottofondo). Così, quando questa piccola storia finisce, mi sento pieno di cose da dire, da spiegare, e come l’acrobata che è già in cielo nel momento in cui spicca il salto, così anch’io comincio a parlare. Decisamente meno fluente, ma tutto sommato comprensibile. Prima spiego il progetto, poi i test, poi faccio altre domande (ricordi, sogni, operazioni, controlli), rispondo (cosa è successo veramente, come sono andate le cose, cosa le hanno fatto, cicatrici, segni, tubi, sonde…). Il resto è tutto in discesa, macina i test uno dietro l’altro, qualche chiarimento, poi tutto finisce.
Tiro un sospiro. Ce l’ho fatta, sono arrivato alla fine, chi l’avrebbe mai detto. Ci alziamo, ci salutiamo (in inglese, in italiano, in turco). “Ancora una cosa…” dice lei prima di lasciare la stanza “è possibile vedere la rianimazione?”. La mamma non capisce, il fratello traduce (in turco), c’è un po’ di imbarazzo (loro non vogliono: non è il caso, troppe emozioni). Adyle attende la mia risposta. “Ok”, dico solo. Lei sorride di nuovo, di più. Fratello e madre accettano, vedono il sorriso, aspetteranno fuori, dicono. Poi quando la porta si apre la tentazione di guardare dentro è forte, così decidono di entrare tutti. Lei non ricorda niente, loro sì. Il personale si accorge della visita. Sono arrivati i turchi. Molti la ricordano, Adyle, la ragazza turca che faceva il master in astrofisica, molti non c’erano in quei giorni, molti sono arrivati dopo. Madre e fratello piangono. Lei no. Lei mantiene la sua calma, la sua gentilezza. Il suo inglese morbido è come una ninna nanna che seduce e incanta. Adesso si è arricchito di una tonalità nuova, quella dello stupore, e della commozione. Poi di nuovo tutto finisce, tutto precipita verso l’uscita, verso i saluti. Strette di mano. Buon ritorno. Buona fortuna. Grazie di tutto. Torno sui miei passi. La commedia è finita (o era una candid camera?), in un angolo del corridoio scorrono i titoli, nella mia testa parte la sigla. Di fronte all’ambulatorio c’è un altro paziente che aspetta. Mi fermo un istante, attendo il buio e la scritta “fine”.

il guardiano

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stesse stelle

Scritto da Giramondo il 19 Maggio, 2009
cronache / 1 Commento

Cambogia.
Metà Marzo, 2009.
A notte inoltrata mi suona il telefono: è il pronto soccorso dell’ospedale dove lavoro.
Mi riferiscono che è arrivato un ragazzino di 10 anni con un trauma cranico per un incidente stradale di 2 ore prima.
Qui fa sempre molto caldo; il mezzo di locomozione più comune e più economico è il ciclomotore; sopra un sedile di motorino viaggiano sempre dalle 3 alle 6 persone, bambini e neonati compresi.
Caschi, sconosciuti; velocità, almeno 70 km orari; fanali, spesso inesistenti.
Mi alzo, mi vesto, e prima di uscire guardo Aràl, la ragazza che ho conosciuto in questa missione; stiamo percorrendo un tratto di vita insieme; forse le nostre strade saranno condivise per tanto tempo… ma forse, e poi questa è un’altra storia. Le dò un bacio; lei non se ne accorge, continua a dormire.
Arrivo in reparto.
Il bimbo ha una profonda lacerazione del cuoio capelluto in regione temporo-parietale sinistra, GCS 8, midriasi a sinistra ed emiparesi a destra. I parenti mi riferiscono che è stato cosciente per circa un’ora dopo l’incidente e poi ha perso conoscenza.
Ovviamente qui non c’è la TAC.
Decido di eseguire una craniotomia sinistra… e chiedo a Budda che sia un extradurale.
Gli infermieri cambogiani mi aiutano a spiegare a mamma e papà che le condizioni sono gravi, che probabilmente loro figlio non ce la farà, ma che faremo il possibile.
Ci serve il loro consenso per operare.
Mi guardano. Qualche parola in khmer con gli infermieri.
Impronta d’inchiostro sulla cartella: è il consenso.
Il piccolo viene rasato.
Andiamo in sala; il personale di sala trasporta e sistema il malato sul letto operatorio; anestesista internazionale e cambogiano sono pronti.
Inizio.
Cute, teca cranica… ecco, non ci siamo: nessun ematoma extradurale.
Vedo un coagulo al di sotto della dura.
Un ematoma sottodurale; cioè: apro la dura, aspiro l’ematoma, richiudo dura, teca cranica, scalpo.
Sono sicuro che c’è una fonte di emorragia cerebrale che io non posso vedere, che riprenderà a sanguinare.
Sono sicuro che dopo alcune ore di coscienza il piccolo ripomberà in un coma questa volta senza speranza.
Non posso fare altro.
Impotente.
Fuori dalla sala parlo con i genitori, spiego la situazione.
Mi guardano ancora: “Aukun, aukun ” ( grazie, grazie ), sono le loro parole.
Io non ho parole per dire come mi sento.
Devo respirare un po’: esco nel bellissimo giardino del reparto.
Caldo anche di notte; a me piace.
C’e’ odore di fiori; ma anche di fiume e di acqua stagnante.
Guardo in alto: stasera il cielo è terso e senza luna. Nerissimo.
Tutte le stelle mi guardano, interrogative.
Non ho risposte.
Tra qualche ora o tra pochi giorni ci sarà un’altra stella li con voi: un piccolo bimbo cambogiano, accoglietelo con la vostra luce, coccolatelo, tenetelo al caldo, fatelo brillare come voi stanotte.

Afghanistan.
Primi giorni di Aprile, 2009.
Stanotte sono uscito dalla sala operatoria dopo un’urgenza.
Qui fa ancora freddo.
Guardo in alto.
Stesse stelle.
Non posso sapere qual’è, ma sono sicuro che una piccola stella cambogiana brilla anche in questa valle afghana.
E spero che mi protegga. 

Giramondo 

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la Risonanza Magnetica

Scritto da Sun-Tzu il 11 Maggio, 2009
cronache / 2 Commenti

Avere un quoziente intellettivo in perfetto equilibrio con il proprio potassio non è un criterio indispensabile per fare l’anestesista. Però aiuta.
Quando squilla il DECT dell’emergenza l’anestesista sa che la vita di uno sventurato è nelle sue mani. Ed in questo caso sarebbe stato meglio tagliargliele, le mani. Magari prima che potesse usarle per iscriversi a Medicina.
Qualche piano più in basso e pochi corridoi più in là, c’è una signora non più giovanissima ma ancora in buona forma. Sta sdraiata sul lettino della Risonanza Magnetica Nucleare. Fino ad oggi conduceva una vita tranquilla in totale indipendenza. Poi improvvisamente il braccio di sinistra ha cominciato a non funzionare più a dovere.
La signora è agitata. Un po’ è preoccupata e spaventata. Un po’ è maledettamente claustrofobica. A casa sua non prende neanche l’ascensore. E abita al terzo piano.
Non si preoccupi – dice il medico radiologo – le chiamo subito l’anestesista che le fa qualcosa per farla rilassare. Non so se il collega radiologo mantenga una formula di comunicazione nebulosa e vaga per farsi comprendere meglio anche da chi non è del mestiere o se nebulosa e vaga è anche la sua idea su ciò che fa l’anestesista. L’anestesista in risonanza spesso rilassa i malati agitati. Uno psicoterapeuta pret-a-porter. Che il rilassamento a volte avvenga con un curaro ed un anestetico e ci voglia un tubo ed una macchina per respirare bene può sembrare un vezzo.
In questa storia l’anestesista, però, è uno che sta alla calma e alla ragionevolezza come Ibrahimovic sta alla meccanica quantistica.
Partito alla volta della radiologia con lo zaino per l’emergenza intraospedaliera che ci puoi curare tutti i feriti della scorsa Parigi-Dakar e l’immancabile bombola dell’ossigeno, entra nei locali della Risonanza Magnetica con la delicatezza delle squadre speciali d’assalto.
Impossibile fermare l’eroe prescelto. Il cavaliere dell’apocalisse fa solo in tempo a sentire un incredulo tecnico di radiologia che gli urla: ma dove ca……
La signora adesso è ferma. Il cervello è ben ossigenato avendo una bombola di 15 kg di ossigeno puro nei pressi della testa. Non fosse per una frattura affondata della teca cranica si poteva pensare ad un buon lavoro.

Sun-Tsu

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una commissione urgente

Scritto da il guardiano il 03 Maggio, 2009
racconti / Nessun Commento

Quando aprì gli occhi, la signora del letto 9 avvertì immediatamente un grande senso di angoscia. Era convinta che fosse mattino, e che fosse l’ultimo giorno per pagare la bolletta del gas. Cercò di tirarsi su, per alzarsi, vestirsi e correre alla posta, ma subito fili e cateteri si misero a tirare da tutte le parti, facendo scattare gli allarmi. Due infermieri accorsero e la fermarono prima che potesse fare maggiori danni. Le spiegarono (un po’ rudemente, a suo avviso) che non era mattina, e che alla bolletta ci avrebbero pensato i suoi famigliari. Difficile, pensò lei. E poi ormai era tardi per andare alla posta. Loro, gli infermieri, la facevano un po’ troppo semplice ma non conoscevano suo marito, i suoi figli. Sentiva che quella bolletta non sarebbe mai stata pagata, e questo non era per niente un affare da poco. Il fatto è che lei non sapeva che erano capitate cose ben più importanti. Che in quei giorni era stata messa in discussione la sua stessa sopravvivenza. Lei non sapeva di essere stata molto peggio, non sapeva che aveva rischiato la vita. Quell’angoscia l’avevano vissuta i suoi famigliari, è per questo che, quando li vedeva, li trovava piuttosto strani, e, secondo lei, per certi versi ancora meno affidabili. La signora del letto 9 sapeva solo come stava in quel momento e giudicava tutto secondo quelle impressioni lì. Il suo stato di salute non le veniva affatto in mente. Tutt’al più pensava a qualcosa di contingente, di immediato: la fame, il freddo, la sete. In quel momento c’era quella benedetta bolletta che la preoccupava terribilmente, e il non poter nemmeno avvisare suo marito la metteva ancora più in agitazione. Quando arrivarono poi gli stessi infermieri di prima che per ordine del medico le dovevano infilare di nuovo lo scafandro pensò che era ora di ribellarsi una volta per tutte. Lo scafandro era una vera e propria tortura. Lì dentro l’aria circolava ad una velocità pazzesca, e faceva un rumore terribile. Ogni volta che glielo mettevano pensava di impazzire, e quando glielo toglievano cercava di capire se durante quelle dieci ore fosse impazzita o no. Certo era meglio del tubo. Ma almeno quando aveva il tubo era sedata, o in parte sedata. Ricordava ancora quel tubo che le ostruiva la bocca e le impediva di parlare. Temeva che le fosse cresciuto un enorme dente, o che a causa dell’operazione andata male le avessero riempito la bocca di garze. Quando arrivò il medico per convincerla a mettere lo scafandro sentiva che la sua forza di ribellione era già venuta meno. Forse le avevano dato un tranquillante. Pensò che fosse meglio così. Che sedata non avrebbe sentito quel rumore spaventoso. Quando si addormentò sognò di aver rotto due scafandri a forza di muoversi e dibattersi, e nel tardo pomeriggio, quando la liberarono nuovamente, vide suo marito che le sorrideva accanto al letto, ma lei aveva troppo sonno per chiedergli della bolletta, e gli fece solo un gesto come dire: “Non importa…” ma nessuno se ne accorse.

il guardiano