i tre ragazzi

Scritto da Herbert Asch il 25 Aprile, 2009
cronache / 2 Commenti

I tre ragazzi sono evidentemente alle prime armi. Si vede subito.
Così come si vede subito che sono sversi tutti e tre, per aver visto il loro primo morto, che gli è morto quasi, letteralmente, nelle braccia…
Non mi ero accorto subito di loro, la chiamata indirizzava su un paziente in una stanza della medicina all’ultimo piano.
Ma già era sospetto il fatto che il paziente fosse su una barella d’ambulanza, dove peraltro, veniva correttamente massaggiato e ventilato da due infermiere.
La collega del reparto mi spiega brevemente il caso: broncopneumopatico, fumatore incallito, con diagnosi di tumore alla vescica, metastatizzato ad ossa e fegato, che andava ad un ospedale vicino, come le precedenti tre settimane, per fare un ciclo di radioterapia.
Era un uomo corpulento d’aspetto piuttosto trasandato, i vestiti stazzonati, la barba da fare, le mani rinsecchite, con le unghie non curate, le dita marroni di fumo.
Per il paziente era subito stato chiaro che non c’era più niente da fare, anzi, l’improvviso coccolone aveva messo fine sicuramente ad un calvario di sofferenze difficilmente sopportabile.
Ora era arrivato al capolinea, anzi, più precisamente aveva trovato questo capolinea appena uscito dall’ascensore al pianterreno, sul percorso che lo portava in ambulanza.
E gli ambulanzieri, appena visto che non parlava più, avevano ripreso la strada al contrario e l’avevano precipitato nuovamente indietro in reparto, nella sua stanza. Dove aveva anche cessato di respirare ed erano iniziate le manovre rianimatorie.
Manovre che avevamo poi interrotte una volta constatatane l’inutilità.
Il nostro povero paziente aveva finalmente trovato la strada giusta per l’uscita, probabilmente anche con sua intima soddisfazione, visto la terapia antalgica che gli avevano impostata. Le metastasi ossee danno spesso dolori difficilmente controllabili, in questi tumori. Amen.
Pertanto ora che le manovre rianimatorie si erano esaurite, si trattava di riprenderlo dalla barella autocaricante della lettiga, abbassata a livello pavimento per le manovre, e passarlo sul suo letto, in attesa del tanatogramma e dei vari adempimenti burocratici.
– Facciamoci dare una mano dagli ambulanzieri! – propongo. – Falli entrare! A questo punto sono comparsi sulla porta i tre, due ragazzi e una ragazza, infagottati nelle divise arancione dei soccorritori, vent’anni scarsi a testa, pallidi anzichenò, con le facce stravolte. Hanno realizzato che il loro paziente è morto, più precisamente gli è morto sotto gli occhi, proprio in quei momenti lì quando lo riportavano in reparto.
Capisco subito che ho avuto una pessima idea a farli entrare in gioco. In fondo c’era gente e non c’era così bisogno.
Attimo di incertezza.
Incrocio lo sguardo con la Caposala, infermiera di gran buonsenso ed esperienza, che conosco da tempo.
– Forse è meglio offrirgli un caffè! – dico, correggendo il tiro.
– Certo! venite che ve lo metto su – risponde lei rivolta ai tre – qui lasciate stare che ci pensa il personale di reparto! – Ci siamo intesi al volo.
– Si, certo, così vengo anch’io, un caffè lo prendo volentieri. Venite – Ne prendo uno sottobraccio.
E ce li portiamo in cucina, mentre il personale di reparto sistema la stanza..

Il debriefing non è semplice, sono tutti e tre molto scossi, uno non vuole stare comunque, esce a fumare.
Gli altri due si siedono, ma ci va un attimo prima che riprendano un filo del discorso, prima che diano retta a chicchessia.
Prima cerco di buttarla sul tecnico: avete visto la classica situazione dell’arresto cardiaco, è proprio in questi casi che si applicano i gesti che vi spiegano ai corsi di Primo Soccorso… anche se in alcuni casi c’è poi il giudizio del medico… Cerco di dire qualcosa, spiego che hanno fatto tutto quel che c’era da fare, che hanno fatto nel modo migliore, che la storia non poteva concludersi che così, per quel signore, è stato solo un caso che loro si siano trovati in mezzo…
Ma loro sono giovani che si sono trovati improvvisamente vicino alla Morte, non la loro, per fortuna, ma l’han vista da vicino, su uno che un po’ avevano imparato a conoscere:
– Si nascondeva sempre la sigaretta in tasca e la tirava fuori quando usciva dall’ospedale… – ricordava uno di loro.
E poi, adesso, improvvisamente, zot! finito, schiodato lì.

E a me veniva in mente la mia, di storia.
Ho fatto questo lavoro per più di vent’anni, comincio adesso (e forse mi sbaglio) ad essere un po’ più sicuro e meno incerto, avendo sviluppato quel sesto senso che ti viene dall’esperienza di essere chiamato a qualunque ora del giorno e della notte a cercare di capire quel che altri non han risolto, di salvare quel che forse è già perso… io, proprio io che da ragazzino avevo paura dei morti, che odio prendere decisioni irrevocabili proprio tanto quanto amo ricercare le infinite variegature delle possibili soluzioni…
E questa mia pretesa sicurezza l’ho pagata cara, perchè non è semplice passare indenni e mantenere la testa fredda quando sei in situazioni critiche, dove devi capire, prendere decisioni, fare cose, da cui dipende (letteralmente e senza retorica) la vita altrui.
Vedendo magari spettacoli da Gran Guignol con gente incastrata tra le lamiere, con il corpo lacerato, istupidita dal dolore o dalla violenza che ha appena subito.
Diventi poco a poco più sicuro, ma, necessariamente più insensibile; e questa insensibilità te la porti dietro anche nella vita, alla fine non ti diverti più fino in fondo, non ridi più di gusto nè piangi da sfogarti.
Non scrivi più lettere, poesie e forse a volte è anche meglio non pensare.

E allora, io, che cazzo gli posso dire io a questi qui?.

Che sono sfigati, che si son trovati in mezzo e non è colpa di nessuno, che quando finiscono il turno si lavino bene le mani e sciacquino tutte le miserie che hanno visto e le lascino lì nel lavandino, che la vita fuori, per fortuna è diversa, che vadano a divertirsi, che pensino ad altro, che la loro parte l’han fatta…
Poi non dico niente e lascio concludere alla Caposala, che forse è un po’ teatrale, ma è sicuramente efficace:
– Datemi retta, lo conoscevamo bene, qui. Era un buon uomo ed ha sofferto tanto. Ora sono sicura che lui di lassù adesso è contento, finalmente, ed è tranquillo.

E pace all’anima sua.

Herbert Asch

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una mattina come tante

Scritto da tartaruga il 18 Aprile, 2009
cronache / Nessun Commento

C’è un solo responso, un solo e unico NO… nella frenesia di una mattina come tante, tre persone si fermano accanto al letto di un paziente… un paziente come ne abbiamo visti passare molti altri e a suo modo unico… tutto quello che avevamo pensato per lui non si può fare e non lo si farà… lo svolgersi degli avvenimenti e le decisioni assunte forse non sempre possono lasciarci del tutto appagati. Il succedersi di pazienti su questo stesso letto attorno a cui ci troviamo mi ha insegnato che non sempre le situazioni sono tutte bianche o nere, ho dovuto imparare a cogliere quella infinità di grigi, senza i quali sarebbe impossibile resistere.
Un gusto amaro ci pervade la bocca, un sottile lampo di perplessità ci attraversa gli occhi… lo sappiamo noi tre, lo vedi negli occhi di chi ti sta intorno nella sala emergenza, lo vedi nei volti della famiglia con cui parlerai, lo vedi nella neve che cade sciogliendosi sul vetro della macchina, mentre lasci l’ospedale per riprendere la tua vita all’esterno.
Io non lo so cosa sarebbe stato meglio in questo caso… so che noi ci abbiamo provato… e questo è sufficiente per entrare domani in sala emergenza, sfoderare il mio solito sorriso e dire: “Allora, che si fa?”, e so che per voi due sarà lo stesso…

Tartaruga

primanotte

Scritto da Ania il 12 Aprile, 2009
cronache / 3 Commenti

Sono le ventuno, avevo avvisato che sarei arrivata un po’ più tardi, tutina blu elettrico , zoccoletti azzurri e camice bianco , tutto stirato alla perfezione e tutto col profumo che solo le mamme sanno dare al bucato, eppure anche io uso gli stessi detersivi, ah si… ma questa è un’altra storia.
Metto sul taschino tre penne, tutte griffate con il nome dei farmaci, con i colleghi facciamo a gara a chi riesce ad averne di più, metto in tasca una calcolatrice, un prontuario un blocchetto per gli appunti e il fonendoscopio al collo, Littman naturamente, però in effetti messo così attorno al collo sa tanto di E.R. o di Grey’s Anatomy, magari poi sembro ridicola e un po’ convinta, ma si dai, mettiamolo in tasca, anche se poi mi si impiglierà ovunque, ora attacco il cartellino che dice “Dottoressa… medico tirocinante”.
Io medico?? Stamattina mi hanno chiamato e mi hanno confermato l’iscrizione all’ordine, mamma mia, ma se fino a qualche mese fa mi disperavo per l’esame di neurologia!
Mah che dire, ecco, sta pure arrivando un’ambulanza, va bene, la vestizione è finita, leghiamo i capelli e andiamo: ora non ho più scuse e poi ho sempre sognato di essere qui.
Arrivo al piano superiore di fronte alla saletta delle emergenze, ecco la mia tutor, non si è accorta che sono arrivata, tutti si affannano attorno al paziente, il medico del 118 che parla di infarto e tutti che si adoperano, aghi, aghetti, monitor, ossigeno, provette, mi infilo nella stanza e mi metto in un angolino da cui posso vedere tutto senza essere d’intralcio, ognuno fa qualcosa, l’uno perfettamente coordinato all’altro, come una danza provata mille volte, quasi a ritmo di musica, io mi stringo nel camice che sa di ammorbidente impaurita, quasi a trovare coraggio nel profumo che solo i panni lavati dalla mamma hanno. Sollevo lo sguardo sono passati già 15 minuti, che strano, ma siamo sicuri? Magari l’orologio corre troppo in fretta. Ora il paziente è stabile, l’infermiera avvisa i cardiologi, adesso bisogna portarlo al quarto piano. Ecco la tutor si è accorta di me, mi sorride e mi chiede se sto bene ” Sì sì – dico io – sono sempre cosi pallida”.
Non le dico che il cuore sta per saltarmi via dal petto, mi sorride ancora e mi dice: “Vieni lo portiamo su in cardiologia, prendi lo zainetto di emergenza e chiama l’ascensore. Sei pronta per la tua prima notte dottoressa ? ”

aspirante anestesista

un gelato per Chanta

Scritto da Rachele il 04 Aprile, 2009
cronache / 1 Commento

Un giorno come un altro, una famiglia di contadini come tante qui in Cambogia si sta recando al lavoro nei campi con il carretto trainato dai buoi, sopra ci sono un padre, una madre con una piccolina di 6 anni in braccio e altri 3 fratelli più grandicelli, davanti al carretto cammina la sorella più grande di 17 anni. La ruota del carro fa pressione su quella mina anticarro che chissà da quanto tempo era lì sotto, il boato è forte e improvviso, la sorella più grande si gira e nel tempo di un respiro ha perso metà della sua famiglia… il padre e tre fratelli muoiono sul colpo e la madre con la figlioletta più piccola sono scaraventate a terra… Vengono portate all’ambulatorio più vicino dove la bimba appare subito in condizioni molto gravi, respira male e si lamenta di dolori addominali… La caricano su un ambulanza e via verso l’ospedale che dista 3 ore di auto… E’ sera quando l’ambulanza che porta la piccola Chanta arriva al nostro pronto soccorso, la visitiamo, la studiamo con le radiografie del torace ma nulla è chiaro… siamo perplessi perchè le condizioni sembrano stabili anche se quel respiro e quel addome non ci convincono e poi è così piccola, ha 6 anni ma pesa solo 13 kg…

Decidiamo di farle una tac torace e addome: ha contusioni polmonari bilaterali e un immagine molto dubbia di sanguinamento sul fegato, le controlliamo l’emoglobina ogni ora… scende di 1 grammo e poi un altro… decidiamo di portarla in sala…

E’ sulla barella con un pupazzetto rosso tra le mani, una infermiera le chiede se ha mai mangiato un gelato… lei dice che non le piace poi ci pensa un po’ e ci dice che lo vorrebbe proprio tanto un gelato… l’infermiera la guarda e le sussurra: “te lo prometto Chanta, lo mangerai quel gelato…”

Nell’addome c’è sangue… ci guardiamo con il chirurgo e pensiamo la stessa cosa, Dio fa che non sia il fegato… e invece ha proprio una lesione epatica molto grave… lo staff della sala si mobilita… comincia l’ennesima battaglia per la vita al di qua e al di là dei teli verdi… noi anestesisti che speriamo che il chirurgo faccia il più in fretta possibile per arrestare l’emorragia e guardiamo i bottiglioni dell’aspiratore con angoscia… ci affanniamo a trovare le vene, a trasfondere, a ventilare la paziente, non ci sono ventilatori pediatrici… né infusori per bimbi così piccoli… L’emostasi riesce e il chirurgo chiude l’addome lasciando un packing di garze… ma le condizione respiratorie sono brutte… ci vuole più di un ora per estubare la bimba e non è brillante… passa la notte nella terapia intensiva ma la mattina successiva ha 50 di frequenza respiratoria, broncospasmo, un respiro superficiale, piena di secrezioni e poi comincia ad avere delle apnee… In queste condizioni – dico allo staff- non ce la farà, presto andrà in arresto respiratorio e non possiamo aiutarla, non abbiamo i ventilatori… non c’è modo… Gli infermieri mi guardano, la loro responsabile, che è anche l’infermiera più esperta dell’ospedale, mi dice che se la intubiamo, la ventilano loro a costo di stare lì 24 ore… Penso ma come fanno a non rendersi che non è possibile! Se non si danno per vinti loro allora va bene, ci proviamo… Ogni volta che va in apnea – spiego- la aspirate dal naso così lei si sveglia comincia a tossire, migliora la saturazione… ma dovete andare avanti così tutta la notte… ve la sentite? Mi rispondono che ci sarà un infermiere solo per la piccola Chanta per tentare di farla arrivare viva al mattino dopo quando la riopereremo per toglierle le garze…

Il mattino è arrivato, sono passate 48 ore. Ci serve sangue fresco per i fattori della coagulazione e le piastrine… non c’è problema, mi dicono, ci sono due donatori compatibili pronti a donare il mattino dell’intervento: una è la sorella e l’altro è il nostro amministratore… Ormai c’è tutto lo staff che fa il tifo per Chanta… Si va in sala… l’emostasi ha tenuto, il packing rimosso e ora la piccola deve respirare… Ce la teniamo 2 ore in sala, sulla barella… guardo l’infermiera che la assiste e che le dice con tenerezza: “su Chanta, respira piccolina, ricorda che devi mangiare il gelato…”.

Sono passati alcuni giorni, Chanta con quelle misteriose risorse che solo i bimbi hanno, ce l’ha fatta, tornerà a correre con gli altri 5 fratellini. Chiedo alla sorella più grande se è contenta… è stata al suo capezzale nei giorni più critici… Non sorride, non è felice, pensa al padre morto, l’unica fonte di sostentamento della sua numerosa famiglia non c’è più… mi dice che non sa ora come faranno a tirare avanti, non si possono sfamare 6 bambini solo raccogliendo legna, lei è la più grande e si sente responsabile per tutti, lei non sa neanche cosa è una scuola ma sa cosa è la fame e sa che dovrà tornare presto in quei campi maledetti che le hanno distrutto la famiglia, sperando di non finire su altra mina.

Rachele

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di notte

Scritto da Woland il 27 Marzo, 2009
testimonianze / 1 Commento

Ogni Rianimazione è unica. Non solo è diversa dalle altre, è diversa anche da se stessa, se la osserviamo in momenti diversi, con persone diverse, o a distanza di qualche anno.
Il giorno è diverso dalla notte. Così come una notte tranquilla è diversa da una notte di tragedia, come una notte qualunque è diversa da quella di Natale o Capodanno, che ti ricordano da un lato cosa voglia dire lavorare 365 giorni all’anno 24 ore su 24, ma ti ricordano anche quanto poco basti per rendere un luogo di lavoro accogliente quasi quanto una casa.
Alcune differenze le ho notate soltanto quando ho cominciato a fotografare la Terapia Intensiva e a riguardare le fotografie a distanza di tempo. Non sono il solo a fotografare in reparto.
Se è vero che una fotografia è sempre un atto a doppio senso, in cui resta fissato non solo il soggetto ma anche lo sguardo di chi lo inquadra, così molti dettagli sono venuti alla luce passando le notti (quelle tranquille) a curiosare per la Rianimazione e i dintorni. Allo stesso modo sono emersi gli sguardi di ciascuno, di chi cerca i dettagli, chi cerca i volti, chi gli spazi vuoti.
Di giorno non sarebbe possibile, c’è troppa frenesia.
Di notte il lavoro può essere anche più pesante, ma te lo distribuisci come vuoi, basta che sia finito prima del mattino.
La notte inizia con le consegne. Di solito rapide, perché i colleghi hanno diritto di essere stanchi e di aver voglia di andare a casa. Quasi sempre dopo c’è una pizza, spesso mangiata fredda perché se la ordini troppo presto il ragazzo della pizzeria te la porta durante le consegne e la pizza si raffredda, se invece aspetti un’ora, non appena te la porta regolarmente chiamano dal pronto soccorso e quando ritorni 2 ore dopo la pizza è fredda di nuovo.
Di giorno gli allarmi quasi non li senti, di notte ti rimbombano in testa.
Di giorno le decisioni sono condivise, di notte spesso le prendi da solo, al massimo in due, per difendersi a vicenda dalle possibili osservazioni dei colleghi al giro del mattino.
Di notte in cucina è più facile assaggiare un dolce romeno, è più facile scoprire che un collega si sta per sposare o che ha avuto un lutto in famiglia.
Di notte se un parente si ferma fino quasi al mattino al letto di un paziente, la Terapia Intensiva è più aperta di quanto potrà mai esserlo di giorno.

Woland

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il sergente Gunny

Scritto da Giro Batol il 21 Marzo, 2009
racconti / 1 Commento

Il paziente della Rianimazione che ho accompagnato in Radiologia sta per iniziare le scansioni Tac. Driiin, Driiin: “Ciao,dal Pronto, abbiamo un signore di 88 anni, con un’infarto ed un quadro di edema polmonare,è bruttino, è meglio se quando ti liberi vieni a dargli un occhiata, c’è già la cardiologa che lo sta valutando per l’angioplastica.”
Il paziente della Rianimazione ha appena terminato le scansioni Tac. Driiin, Driiin: “E’ meglio se vieni subito perché è ulteriormente peggiorato, desatura ed è molto agitato”.
“Raga, chiamate in Ria per farvi venire a prendere, devo scappare in Pronto.” E poi mentre affretto il passo tra me e me: “Tanto non lo intuberò mai, ha 88 anni, sarà tutto malandato, al massimo gli metto una CPAP, ma non lo intubo di sicuro.”
Arrivo, cardiologa, urgentista ed infermieri di sala emergenza si stanno affannando attorno al mio vecchiettino: beh, vecchiettino si fa per dire, sarà alto un metro e ottantacinque ed ha una muscolatura ben più tonica della mia: ma non lo intuberò mai.
Il raccordo anamnestico è breve e preciso: “Ha un infarto inferiore ed è andato in edema polmonare nel giro di dieci minuti, mentre lo visitavo, una marea montante, pensa che è arrivato qui con le sue gambe lamentando solo un fastidio al torace, ma è evoluto con una tale rapidità che ho raccolto solo un’anamnesi sommaria”. Non lo intuberò mai.
Pressione arteriosa 130/70 mmHg, frequenza cardiaca 96 al minuto, ritmico, saturazione d’ossigeno 78% con il reservoire. Non lo intuberò mai.
“Ok, ma le comorbidità? E’ diabetico, iperteso, dislipidemico, ha un’anamnesi positiva per patologia tumorale, un quadro di involuzione cerebrale senile, è un bronchitico cronico avanzato?”
“No guarda, è un ex sergente dell’esercito, in buona forma psico-fisica fino all’evento di oggi: ha negato interventi chirurgici ed assunzione di farmaci a casa. Dovevi vederlo quando è arrivato: ha rifiutato il nostro aiuto per salire sul lettino, davvero un tipo tosto”.
E’ incredibile, penso mentre connetto il “va e vieni”. Allora lo intubo.
“Aspirati per favore midazolam, fentanest e rocuronio: andiamo in sequenza rapida con un tubo N°8.
Finalmente in questa agitazione trovo il contatto con gli occhi del sergente: sembrano presenti all’ambiente e mi fissano spalancati, quasi attoniti: “tranquillo sergente, non abbia paura, adesso la facciamo dormire un po’, ma quando si sveglierà starà meglio”. Ma i suoi occhi continuano a fissarmi con le pupille dilatate, al tempo stesso indagatori ed increduli per quello che sta avvenendo. “Non abbia paura, sergente, stia tranquillo.” “Sono senz’altro gli occhi di chi è terrorizzato dalla paura di morire” penso trovando una troppo facile risposta. Non me lo sarei aspettato da un duro come il mio Sergente Gunny. Certo che quegli occhi…

Due giorni dopo in Rianimazione: “Ciao Paola, come sta il Sergente?” “Mah, così, così poverino, non è più contropulsato… certo però che è proprio un brutto momento per lui; mi ha detto suo figlio che tre, quattro mesi fa gli è morta la moglie e da allora non ha più interesse per la vita, anzi ha espresso più volte il desiderio di morire anche lui”.
Accidenti che pugno nello stomaco, ecco cos’erano quegli occhi: altro che paura, erano l’estremo tentativo di ribellione a ciò che stavi per subire: mi spiace Sergente Gunny, non ti sei mai piegato al volere altrui finché non ti hanno spezzato i sonniferi che ti ho somministrato, ma non conoscevo la tua volontà e l’arroganza di chi vede la realtà solo dal proprio punto di vista mi ha impedito di intuirla!

Porterò sempre con me quel tuo sguardo sgomento sperando che mi aiuti a ricordare come non esista solo la mia verità e come vada rispettata anche quella degli altri.
Dieci giorni dopo il cuore del Sergente Gunny si ferma, senz’altro purificato da quelle interminabili ore di agonia, come potrebbe dire chi è pieno solo della sua verità.

Giro Batol

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perché l’ho fatto

Scritto da Giramondo il 16 Marzo, 2009
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Sono quasi 3 anni che lavoro come chirurgo nei paesi in via di sviluppo.
Molte persone, amici o semplici conoscenti, mi hanno spesso chiesto perche’ ho fatto questa scelta di vita non certo semplice ( in apparenza ).
Difficile rispondere.
Ho provato a pensarci.
Ovviamente non esiste una sola motivazione, una sola risposta.
Forse bisogna partire dall’inizio, dal desiderio che mi ha spinto ad essere medico prima ed a specializzarmi in chirurgia poi.
Il desiderio: essere utile alle persone che ne hanno bisogno.
Banale ? Illusorio ? Infantile ? Sì, sì… banale, illusorio ed anche infantile; ma questa e’ la mia vita, ed io volevo viverla con la banale illusione infantile di essere utile al prossimo.
Essere utile con le mie conoscenze; essere utile con le mie mani mosse dalla testa;
essere utile con le mie parole quando testa e mani non hanno piu’ nessun potere sulla malattia.
Ecco, questo il progetto iniziale. La realta’ lavorativa mi ha mostrato poi che nei vari ospedali italiani dove sono stato (sia pubblici che privati, nessuna differenza) spesso i rapporti umani sono inesistenti, aridi, governati da interessi economici o di potere; l’invidia e la maldicenza diffuse a tutti i livelli; l’arroganza eretta a sistema.
“Dottore, io da quel suo collega macellaio non mi farei nemmeno sfiorare” e’ una frase che mi e’ stata ripetuta svariate volte, riferita peraltro a colleghi da me molto stimati…
“Dottore, ma guardi che brutta cicatrice che mi ha lasciato sulla pancia”. “Cara signora, per rimuovere li tumore che aveva questa era l’unica possibilita’… comunque adesso e’ guarita ! ”

Dopo dieci anni ho cominciato a chiedermi: ma sono queste le persone che hanno bisogno del mio lavoro ? Sono queste le persone per le quali ho studiato con passione per mettermi al servizio ?
A chi sono utile io, come medico, in questo sistema, in questo paese piccolo piccolo di grande fratello, sanremo, paparazzi-modelle-calciatori ?
Domande pericolose, domande che ti portano a prendere strade che portano lontano.

Basta.
Basta.
Basta.

Aria nuova; persone nuove; posti nuovi.

Nuovi rapporti con la gente; tornare a parlare con i pazienti; tornare a parlare con i parenti; tornare a parlare con i colleghi, con gli infermieri, con il personale ospedaliero.
Tornare a svolgere la professione di medico con gioia e con impegno, con la testa e con le mani.
Ridere o piangere insieme ai malati, stringersi le mani, guardarsi negli occhi per dire grazie senza parole.

Ecco, adesso quando esco dalla mia stanza, di giorno e spesso anche di notte, sono felice;
adesso, la mia vita ha un senso: in Afghanistan, Cambogia, Kurdistan, Congo …..

Tornare al sogno di sentirmi utile con il mio lavoro.
Questa e’ la risposta.
Semplice, banale… forse anche infantile.

Giramondo

l’emergenza e il territorio

Scritto da Sun-Tzu il 11 Marzo, 2009
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Ci sono posti che sono delle sacche di resistenza organizzata alla divulgazione della cultura medica.
Sono roccaforti inespugnabili di obbiettori di coscienza nei confronti del pensiero scientifico e della pratica clinica più elementare. Qui si nascondono anche pochi, isolati entusiasti cultori della emergenza extraospedaliera ortodossa. Sono una minoranza, probabilmente destinata all’estinzione. Travolti da uno tzunami di inoperosi affacendamenti più prossimi allo sciamanesimo che alla medicina moderna.
Capisco che sia necessaria una frequentazione, almeno occasionale, di un corso di medicina per sapere che Glasgow non è solo una ridente località della Scozia ma, che, quando associata a Coma Scale indica diversi livelli di stato di coscienza.
Mi rendo conto che vien difficile ricordarsela come la maestra ci ricordava i vari tratti delle Alpi. Mica c’è una filastrocca in rima per il coma.
Vien da se che ogni regione o paese ne elabora una con leggere modifiche. Così che ci possa essere l’Omegna Coma Scale e con pari dignità anche la variante di Cuggiono.
Per i linguisti più puri, poco inclini all’uso dei numeri, sono disponibili scale locali più descrittive in cui il coma può essere duro o grave, ma anche barzotto, utilizzando una terminologia con licenza da classificazioni più prosaiche.
Non volendo inopinatamente insistere su argomentazioni di carattere nozionistico affronterei con slancio la prima pruriginosa questione: L’intubazione oro-tracheale al di fuori dell’Ospedale per i pazienti in coma (indipendentemente dalla scala utilizzata) può comportare il malocchio persistente per l’operatore? Apparentemente si. Solo pochi sventurati hanno ricevuto questo privilegio. Da dati recenti sembra che gli operatori avessero Urano nel Leone. Una condizione estremamente favorevole.
Inoltre se allo stato di coma si associa quello di shoch emorragico è noto dal cofanetto deluxe della prima serie di E.R. che la questione si complica.
Era inoltre propedeutico alla formazione in emergenza ed urgenza sul territorio la visione di almeno uno (meglio due) epici film con John Wayne. Qui a fronte di un copioso sanguinamento da una ferita da taglio il posizionamento di una cintura stretta a monte della ferita stessa risultava di notevole aiuto. Il sorso di whyskey pare a tutt’oggi opzionale.
Sfortunatamente il nostro soccorittore aveva privilegiato Tom e Jerry per la sua formazione. Secondo questa diversa corrente di pensiero anche gli approcci più fatalisti spesso si risolvono con voluminosi ma benigni bernoccoli, uccellini che cinguettano e qualche stellina che ruota sul cranio.
Uno dei problemi della medicina moderna è, inoltre, la superspecializzazione. Una competenza universale per un particolare. Nel nostro caso il soccorritore era da generazioni un profondo conoscitore della storia e dello sviluppo del futon. Lo sventurato, è vero, non aveva una protezione delle vie aree, respirava a stento, sanguinava come un vitello sgozzato ed aveva una pressione arteriosa non pervenuta come la temperatura di Vladivostock. Ma era posizionato sulla sua tavola spinale che lo potevi fotografare. Un capolavoro di simmetria assiale. Ogni singola cinghia del ragno era tesa alla perfezione. Accordate come le corde di un pianoforte; se le sfioravi nella sequenza giusta ottenevi la sigla del Dottor Kildare.
Insistere sul razionale di tale scelta si è rivelato dirompente. Una critica all’estro del singolo. Una inopportuna limitazione della libertà del soccorritore cui venivano tarpate le ali della fantasia creativa costringendolo ad ammettere che no, lo sventurato non aveva subito traumi da precipitazione; no non era lecito chiedersi se l’asse spinale avesse una funzione. Era come chiedere a Dechamp se la ruota sullo sgabello avesse un fine pratico. Una domanda inopportuna e fastidiosa. Posta da chi certe raffinatezze non le può mica capire. Lo sventurato era lì, ora ed adesso, per volere dell’artista. E se proprio vuoi una ragione qesta è che lo sventurato sanguina. E se uno sanguina si mette sulla spinale. Pragmatismo dogmatico. Non si discute.
Andava capito subito che il tempo delle domande era finito. I frequentatori delle roccaforti del negazionismo scientifico sono persone di poche parole. Spesso anche scoordinate. Ma soprattutto poche.
Devono fuggire. All’interno degli Ospedali hanno pochi minuti di vita. Si teme che nano particelle di pensieroscientifico disciolto nell’aria associate alla pratica clinica elementare possano irrimediabilmente contagiarli. Sarebbe sufficiente ascoltare qualche stralcio di discorso tra operatori sanitari a vaporizzarli. Solo alcuni di loro, praticanti la mesmerizzazione trisettimanale, possono prolungare la permanenza. Sfortunatamente non era il caso del nostro. La sfrontatezza con cui si soleva proprio capire quale meccanimo avesse prodotto una tale lesione era insopportabile. Dopo che lui aveva con solerzia e precisione consentito che il male presente nelle vene e nelle arterie dello sventurato fluisse libero sul pavimento liberandolo e purificandolo, che altro ancora si poteva volere da lui. Piccinerie di noi menti semplici. Condannati a sapere se dover redigere una comunicazione alla Procura della Repubblica oppure no.
E’ noto, infine, che gli appartenenti a queste congregazioni di negazionisti della medicina tradizionale sottoposti a stressanti interrogatori inerenti il loro operato divengono violenti. Unendo così la peculiare caratteristica di un eloquio colorito, seppur difficilmente comprensibile, ad atteggiamenti aggressivi.
Si profila così un quadro completo composto da una popolazione piuttosto omogenea e diffusa sul territorio nazionale di individui legittimati a scegliere per la salute di alcuni sventurati in accordo a leggi non governate dal pensiero scientifico ma dall’estro o dal caso, accompagnate dalla presunzione e dalla supponenza di chi sa. Data la precisa localizzazioni geografica di tali congregazioni taluni auspicano, come per i dinosauri, l’avvento prodigioso degli asteroidi.

Sun-Tzu

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notti di guardia

Scritto da joyce il 07 Marzo, 2009
emozioni / Nessun Commento

Frammenti del mio io
Frammenti del mio giorno
Un giorno come tanti passato in ospedale
Tra mille suoni
Tra mille allarmi
Tra mille richieste
Tra mille esami da guardare
Tra pazienti da scrutare con le tue mani, con i tuoi prelievi, con le Tac
Per cercare di non lasciare niente di intentato,
niente di non esplorato
e allora ti immergi tra le cose
con la tua conoscenza che a volte vacilla
con la tua sicurezza che a volte tentenna
domande affiorano mentre ti muovi
se era corretto il tuo percorso
il filo del tuo pensiero
l’intuizione avuta
ciò che hai scritto su quel foglio prima così bianco
e poi pieno di segni, carico di termini, a volte complessi
se valeva la pena litigare con i tuoi colleghi sul senso di un tuo gesto
di una tua immagine

poi , dopo aver lasciato i tuoi dubbi in mano al tuo collega della notte
fai scorrere la porta della tua rianimazione dietro di te
come una coperta calda la stanchezza ti avvolge
e a mano a mano che scendi le scale , attraversi l’atrio e vai verso la macchina
il filo dei tuoi pensieri continua a seguirti e ti chiedi se sia stato giusto correre per tutto il giorno tra le pagine dei libri che hai studiato all’università

esci in questo giorno che odora di pioggia
con un sorriso guardi le facce che popolano il parcheggio
e poi ti fai un’altra domanda ti compare davanti
se a volte non sia giusto cercare di scrutare e indagare un po’ anche te stesso
per capire dove stai andando

accendi l’auto, ti meriti la tua canzone preferita del momento
Ben Harper sottovoce continua a ripetere sun is burning
improvvisamente senti un po’ di più il freddo di questo inverno pungente
e vorresti essere nei posti di quando eri bambina
ma questo è il filo di un altro pensiero

buonanotte

joyce

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candle in the wind

Scritto da OSS il 02 Marzo, 2009
cronache / Nessun Commento

Inizio il turno del pomeriggio… sembra tranquillo oggi. Poche consegne, solite cose: il fibroscopio da ritirare, un trasferimento, una tac e due probabili ricoveri, ma ancora non si sa nulla, devono chiamare dalla sala. Bene, allora subito caffè e poi si aprono le danze.
Ma come, abbiamo aperto 13° letto? Non l’avevo visto… Mi avvicino: noooooo, ma non l’evamo dimessa ieri? E’ di nuovo qui? Ma se era uscita dal reparto leggendo il giornale? Boh…
Oggi il caffè è particolarmente buono… ma si porta dietro il solito richiamo: “C’è un oss? Corri!”. Mollo tutto, caffè e compagnia, esco dalla tisaneria e cerco di capire da dove arriva la voce… letto 13 (l’ospite in più), prona e 5 infermieri intorno.
Che c’è? Chiama un medico, è in arresto.
COSAAAAAA?
Tutti intorno, dobbiamo supinarla e iniziare il massaggio…
Porta il defibrillatore… carica… via tutti… scarica! Ancora e ancora… Dammi un filtro nuovo, questo è pieno di sangue… aspira… adrenalina… presto…
Sono passate quasi due ore e siamo ancora lì: il primario, la caposala, due rianimatori, tre infermieri ed io…
Sembrava un film. Proprio E.R, non quelle stupide fiction italiane sugli ospedali, no no. Ma purtroppo era tutto vero.
Quella signora che ieri mi ha salutato col sorriso ci stava lasciando. Ogni sforzo sembrava inutile… Eravamo tutti impotenti di fronte a tutto ciò che succedeva.
Fuori, nel corridoio, le figlie in lacrime. Sentivamo le urla della disperazione.
La caposala corre fuori, prova a consolarle, ma tutto è difficile, il momento e la lingua. Già, la lingua… le ragazze parlavano un italiano stentato e la caposala non parla il rumeno. In questi momenti le parole non sono tutto, ma aiutano…
Intanto dentro il delirio. Consumati dalla fatica ci arrendiamo all’evidenza. Ora del decesso 17.45.
Ci guardiamo demoralizzati, delusi, tristi e sfiancati…
Dov’è l’oss?
Sono qui capa. Dimmi…
Non c’è tempo da perdere, bisogna sistemare la signora subito, le figlie vogliono entrare…
Ti prego capa, un attimo di respiro, non ce la facciamo più!
Nessun respiro, muovetevi, subito… E poi manca una cosa fondamentale.
Cosa?
Come, cosa? Lo sai che loro vengono dalla Romania?
Certo che lo so, quindi?
Quindi sono ortodossi…
E allora?
Basta con le domande! Corri a prendere una candela, accendila e mettila ai piedi del letto.
Come scusa? Cosa devo prendere? Una candela? E dove la trovo?
Non mi interessa dove. Vai a rubarla in Chiesa!
Non ci posso credere. Dopo tutto quello che è successo anche questa! Per un attimo ho avuto la visione: io, incappucciata, al settimo piano che mi infilo con passo furtivo nella cappella dell’ospedale, rubo una candela e scappo. Poi torno in me, chiamo il sacerdote al telefono e gli chiedo gentilmente di portarne giù una.

Gli ortodossi, decisamente, hanno ragione. La candela è un simbolo che descrive esattamente quella che è la nostra vita: accesa dalla fiamma della passione, dona luce e calore, ma è sufficiente un alito di vento…

OSS

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