parto

La solitudine del pediatra

Posted by massimolegnani on ottobre 06, 2013
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foto di HA

foto di HA

L’ospedale è arroccato su uno sperone roccioso che lo innalza sopra la città vecchia, come fosse un castello. Forse per questo, quando faccio il turno di notte, non mi sento diverso da una sentinella di guardia al forte. Stanotte poi, fuori è notte di baldoria. Il carnevale, la musica e le grida salgono fin quassù, a farmi sentire estraneo. Non che se fossi libero andrei in giro in maschera. No, non fa per me travestirmi una volta all’anno, non so ridere a comando e fare il pagliaccio tra la gente. Io mi maschero ogni giorno al chiuso, magliette sciocche e un pupazzo appeso al collo, che poi ai bambini non importa molto, loro il dottore lo fiutano a distanza, anche se fossi nudo con le pinne ai piedi non si farebbero fregare. Mica scemi i bambini, i genitori invece sì, nel senso che loro abboccano alla messa in scena, si sentono tranquilli con uno un po’ coglione che smitizza il ruolo.

Ruolo, collega, senso del dovere, che parole inguardabili! Puzzano di falso ed anche di carogna. Da qualche parte devo averla conservata la lettera del Direttore Sanitario che mi rammenta con un’educazione infastidita che l’unico abbigliamento ammesso in ospedale è costituito da casacca, pantaloni verdi e sopra questi il camice bianco. Bella lettera, in due righe le usa e le ripete tutte, quelle tre parole lì.
E intanto stasera ho già assistito a due parti. Ho finto di essere indispensabile, ma quelli sarebbero nati lo stesso e bene, la mia è una presenza che non aggiunge niente. Come la sentinella al nulla.
E aumentano le grida dalle strade, la città impazza e tra un po’ sarà l’ora degli ubriachi. Arriverà fin qua qualche ragazzetto ancora in età pediatrica alla prima sbronza. Vomiterà anche l’anima mandandoci a fanculo, io ripenserò a mia figlia che c’è passata e mi verrà da ridere a questo loro mostrar muscoli deboli.
Nessuno e niente che mi sappia distrarre dall’attesa, il reparto è in stallo nelle sue piccole sofferenze e ancora non arrivano gli ubriachi.

Io, un caffè, la musica ossessiva, qualche lavoro, aspetto, come la sentinella, che venga giorno.

massimolegnani

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Mi hanno detto di prepararmi

Posted by the intensivist on febbraio 05, 2013
cronache / 4 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

Mi hanno detto di prepararmi, ma non pensavo così presto… e ho seguito la marea.

Chiuso nel mio sottomarino agganciato alla nave-madre, avevo capito che c’era qualcosa che andava storto… era nell’aria questa sensazione, già da alcuni giorni.

Infatti la “nave-madre”, usciva più volte dal suo golfo e andava a trovare l’equipe di tecnici che , con una sonda ad ultrasuoni, scandagliava l’abisso nel quale ero immerso e navigavo da ormai 190 giorni: e cominciava allora la verifica della pompa propulsiva, delle paratie stagne e delle condutture idrauliche per verificare il mio stato di salute e la mia reattività.

E’ vero, mi avevano detto al corso PNFL (Pre Natal Fetal Life) che ad un certo punto, dopo circa 290 giorni di addestramento, avrei dovuto lasciare il mio ambiente e cercarmi nuovi lidi di approdo; ma adesso il contagiri mi diceva che ero giunto al count-down con largo anticipo… La mia nave-madre mi portava spesso da giorni, in un bacino di carenaggio, dove per effetto della sonda ad ultrasuoni, sentivo rumori e intravedevo luci attraverso il coperchio del piccolo sommergibile under-water, nel quale mi avevano introdotto, dopo avermi assemblato con cura e dovizia nel corso di lunghe settimane di navigazione.

Non ho grandi ricordi dell’inizio, ma nel manuale di istruzioni del corso PNFL, attraverso delle bellissime immagini, avevo “intravisto”, giorno per giorno, mese per mese, quello che era già capitato a milioni di altri cadetti prima di me.

La mia nave-madre negli ultimi giorni, non filava più liscia come prima: si scuoteva di frequente, riducendo virtualmente le pareti del mio sommergibile e dando delle variazioni di portata del “cordone” attraverso il quale passavano le derrate alimentari e le scorte idriche, creando spesso una accelerazione reattiva del mio contagiri .

Mi guardavo allo specchio, appeso alla paratia stagna e sembravo smagrito, un po’ provato…forse era giunta veramente l’ora di iniziare l’ultimo grande viaggio.

Ho fatto mente locale e ho raccolto le mie cose… anzi solo le mie idee, perché in realtà di bagaglio i cadetti-diplomati ne devono avere solo poco con sé, per essere più agili nello scatto e nell’avanzamento in zona nemica… o comunque straniera.

Speravo almeno di lasciare il sommergibile indossando la bellissima uniforme bianca di “vernice” che avevo invidiato ai miei colleghi di corso più anziani che erano riusciti ad arrivare al “termine” del PNFL… ma la divisa la consegnano solo dopo almeno 270-280 giorni di studio e tirocinio, prima delle ultime 2 settimane, in cui.. ogni momento è buono per uscire allo “scoperto”.

Credo proprio che dobbiamo abbandonare il nostro mezzo “under-water”: le scosse sono sempre più frequenti e prolungate, le pareti della nave-madre tendono minacciosamente a pressarmi, tanto che ora non riesco più a fare la mia quotidiana oretta di reazione fisica a base di capriole e flessioni su mani e braccia; faccio fatica anche a controllare il mio “cordone” che mi hanno spiegato non devo mai attorcigliare e devo cercare di tenere dietro di me e non davanti a me, per evitare di rimanere senza rifornimenti. Anche il mare nel quale ho navigato, ha cambiato aspetto: è meno limpido e soprattutto è meno profondo… forse si è aperta l’insenatura stretta del golfo avanti a me.

È l’imbocco del canale, quello da cui mi hanno spiegato al corso, io partirò per l’ultimo grande viaggio verso il “nuovo mondo”.

Ho un po’ paura… non ero ancora pronto, sono piccolo… e un po’ smagrito: ce la farò ? So che non tutti gli allievi arrivano alla fine del corso e qualcuno non ce la fa a vedere il nuovo mondo o qualcuno lo intravede solo per un po’, ma poi… torna il buio e non so se sia dolce o amaro questo buio.

Nessuno è tornato indietro a raccontarlo. Forse il PNFL, tra le sue lezioni, dovrebbe anche annoverare qualche ora da dedicare a quelli che non superano l’esame alla fine della sessione.

Ragazzi, è proprio l’ora… il livello del mare scende, le pareti della nave-madre vibrando con forza si avvicinano e allontanano tra di loro in maniera ormai ritmica (ne conto almeno 10-15 all’ora di vibrazioni).

L’acqua del mare è anche più calda… trasmette calore al mio sommergibile… mi sento la febbre. Mi hanno detto di preparami… Saluto con fretta la stanza che mi ha accolto lungo questi mesi, sistemo il cordone dietro di me, assumo la posizione “fetale” con la testa in avanti e… anche se non pensavo così presto… seguo la marea.

Comincio a nuotare e grazie al cielo che sono piccolo (ma allora è una fortuna !!), passo attraverso il “canale” e sempre spinto in avanti dalle vibrazioni prodotte dalla nave (che si comporta sempre da nave-madre, è premurosa con me!) finisco per intravedere l’uscita, anche se con gli occhi e la bocca serrati, come gli istruttori PNFL mi avevano ripetuto sino alla noia nei giorni passati, prima di approdare, una volta fuori dagli abissi.

Ecco la sommità del mare… sono accecato dalla luce che fino allora avevo intravisto filtrata dalle pareti della mia stanza… che freddo che fa…

– ehi, piano, voi della NICU (Neonatal Intensive Care Unit) anche se siete notoriamente bravi e famosi, non tirate così e… ohi, mettetemi giù, soffro le vertigini ! –

Dove è il mio cordone ?… sento che me lo tirano e…

– ragazzi qui non arriva più flusso! –

Improvvisamente sento la necessità di aprire la bocca e di urlare al nuovo mondo che ci sono anche io… urlo, urlo, sempre più forte… con dolore, perché nel mio petto è entrata una folata di aria fredda che non conoscevo e che, quasi mi fa male…

però se dapprima mi era estranea e fastidiosa, lentamente diventa una brezza sempre più calda e gradevole… mi sembra di respirare una nuova vita.

Uno del team della NICU mi friziona il corpo e un altro con una maschera gigante , mi aiuta a fare entrare il vento (sembra il Ghibli) della vita , lungo le mie condutture aeree… funziona! eh sì che funziona, perché il mio contagiri, inizialmente impazzito, ora ritmicamente batte ad una velocità oraria di 150-170 al minuto.

Mi controllano il peso: sono 1250 grammi… 1250 ho capito bene ? Ma mi avevano detto che di solito si è oltre i 3000 grammi alla fine del corso ? Ah, è vero, sono dovuto uscire prima, perché non era più cosa per me stare under-water… dovevo diventare un terrestre…

Lasciano delle belle pezze calde e morbide sul mio piccolo corpicino e , sempre con una mascherina che mi aiuta a portare il vento nei miei stantuffi, mi sostituiscono il cordone, ormai ridotto ad un piccolo spago, con delle tubature nuove di materiale “sintetico” che gli specialisti della NICU fanno passare attraverso il mio sportellino/ombelico, per far scorrere carburante per tutte le mie turbine.

Comincio proprio a sentirmi bene… non è poi così male questo posto pieno di luce, rumori e esseri terrestri , enormi che mi assomigliano, ma che sono di un tonnellaggio 20-30 volte il mio.

Adesso gli specialisti della NICU, con cappellini, guanti e mascherine (sono proprio come me li avevano descritti), mi adagiano in una nuova navicella, che anche se faccio fatica a vedere bene, ha delle pareti trasparenti, calde e umide con un rumore di fondo… sempre con una sorta di boccaglio-respiratore che tengono vicino al mio naso per darmi una miscela gassosa che comincia proprio a piacermi.

E’ passata solo una mezz’oretta, ma quelli che mi aspettavano sulla riva, sono proprio stati bravi… Guardo o meglio cerco di aprire un po’ i miei occhietti e , fuori dalle pareti della mia nuova casa, vedo un essere, senza mascherina e guanti, che mi è familiare: la faccia non la conosco, ma i suoni che provengono da lei e anche il calore e il profumo della pelle delle sue mani, non mi sono estranee… perchè mi ricordano gli odori, i sapori e le sensazioni del mare in cui mi cullavo… ma sì!: è la mia nave-scuola , ma come potevo dimenticarmi di lei o meglio come potevo pensare che “lei” potesse dimenticarsi di me, anche se l’avevano messa per un po’ di tempo in un bacino di carenaggio !!

La nave-madre… ci tiene proprio al suo incursore sottomarino… o meglio gli vuole proprio bene… si dice così anche tra compagni di corso o meglio tra insegnati e allievi, come me.

Ora rassicurato che il nuovo mondo non è poi così male e la nave-scuola è ancora con me, anche se le paure restano, provo a schiacciare un pisolino , perché, ora ricordo bene ripensando alle pagine del testo PNFL che, se l’avventura inizia prima… è lunga, tanto lunga e per affrontarla bene, c’è bisogno di tanto riposo e energie.

– Oh, voi lì fuori, spegnete la luce, ma continuate a controllare il mio contagiri e che tutto funzioni bene! –

Per ora va bene così, domani è un altro giorno; i ricordi dei tempi passati con gli altri compagni di corso affollano i miei pensieri, ma ora è tempo di concentrarsi per crescere e, con l’aiuto della mia nave-scuola, e dei tecnici della nuova mia navicella, so che ce la posso fare… o almeno provare a farcela!

the intensivist

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Non svegliare il can che dorme

Posted by massimolegnani on gennaio 27, 2013
racconti / 10 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

Me, non mi devono svegliare nel cuore della notte, che poi resto sfasato un bel tot di ore. Il meglio lo do fino alle tre del mattino, saltabecco qui e là con la freschezza di un cameriere a inizio turno, viaggio veloce per le scale come avessi una pila duracell e mi destreggio tra barelle e culle con la lucidità di un campione di scacchi che gioca una simultanea contro quindici avversari.

Ma dopo quell’ora è nebbia in val padana.
I miei colleghi ormai lo sanno e rinunciano ad un aiuto che sarebbe solo sulla carta. Se la cavano da soli, maledicendomi in silenzio e io nel sonno m’impegno a registrare una lieve irrequietezza, un doveroso sprazzo d’incubo partecipe dell’affanno altrui.
Ma ogni tanto c’è qualcuno nuovo che non sa come gira il nostro mondo e chiama. E allora son dolori. Non che io faccia sfracelli con l’incauto, è che faccio pasticci con chi non c’entra.
Come due ore fa, quando mi hanno scaraventato giù dal letto che erano le quattro del mattino.
Corro a sciacquarmi la faccia e a mettermi le lenti e mi precipito in sala parto. Mi precipito per modo di dire perché ho difficoltà a mantenere il pavimento in piano, mi sembra disassato, come anche tutto il resto: è come se vedessi da una parte le cose troppo vicine e dall’altra assai lontane. Penso ad una dispercezione legata al sonno e mi arrabatto a camminare storto con la testa tutta sbilenca per compensare in qualche modo la visione asimmetrica.
Quando, rasentando il muro a palmi aperti, entro in sala parto, tutti mi guardano stupefatti. Peggio del solito, mi redarguisce la vecchia ostetrica, che mi conosce bene. Perfino la donna che sta per partorire e che fino a un momento prima avevo sentito urlare, alza la testa e ammutolisce; certo si sta chiedendo se sono ubriaco e subito riprende a urlare con una disperazione in più. Faccio un cenno con la mano per dire che tutto è sotto controllo, ma non ci credo nemmeno io, figuriamoci loro. Per pura formalità, mi ragguagliano sul caso, la signora è completamente dilatata, dovrebbe partorire da un momento all’altro, ma qualcosa impedisce al feto di procedere. Nuovo cenno di rassicurazione da parte mia, ma il mio tastare gli oggetti usuali come un cieco, non aiuta nella rassicurazione.
D’altra parte, da quel poco che riesco a vedere anche gli altri protagonisti di questa sceneggiata non sono al meglio: il ginecologo è tutto storto da far invidia ad Andreotti e indossa sotto il camice un giubbotto di piumino, che qui ci sono almeno quaranta gradi. Ho il torcicollo, mi dice, ma secondo me è un eufemismo per non ammettere che è proprio messo male; ogni volta che deve controllare a che punto è arrivato il bimbo, compie tre lenti giri su se stesso come si stesse avvitando prima di riuscire a tuffare la faccia all’altezza giusta tra le cosce della signora. L’inserviente di sala non so che le ha preso, ma sembra un tacchino col singhiozzo, ciondola il capo e rincula il sedere in un sincronismo da ballerina di tango. E poi c’è l’infermiera del nido, la Silvietta, una vera bambolina. Se ne sta in un angolo tutta intabarrata nel camice da sala, pronta a raccogliere il bimbo che chissà quando nascerà. Sta lì silenziosa e un poco assente, ma a un certo punto la vedo barcollare. Capisco che sta per svenire e le vado incontro per sorreggerle almeno il capo. Purtroppo con quest’occhio destro che vede in un modo e il sinistro che vede in un altro, manco la presa di circa mezzo metro e sto lì come un portiere dell’Inter a brancicare l’aria mentre la palla, no, la testa della poveretta dà una craniata sul pavimento da far tremare i vetri. La signora interrompe la contrazione, si solleva stravolta sui gomiti e mi dice “mi giuri che non lo prende lei il mio bambino”. Gli altri mi riaccompagnano all’isola neonatale, mi fanno toccare i bordi del lettino e mi pregano di non muovermi più di lì.
Insomma è una tragedia annunciata.
E il bambino non nasce.
E intanto il ginecologo continua ad avvitarsi, il tacchino-inserviente gloglotta, Silvietta sviene e rinviene ogni sette minuti e mezzo e la signora che deve partorire non partorisce.
Io ormai ho smaltito la sonnolenza, ma la mia vista non è migliorata.
Scoccano le sei, arrivano le forze fresche del cambio turno.
Alle sei e un minuto la signora sforna un magnifico bambino e dice, non ce la facevo più a trattenerlo, ma l’importante era arrivare al cambio turno.
Io continuo a vedere male.
Vado a svegliare il mio amico dell’oculistica e gli racconto preoccupato l’accaduto. Lui mi guarda con aria comprensiva e senza accennare a visitarmi dice:

-hai invertito le lenti, coglione!-

 

massimolegnani

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Come vacche sacre gonfie di pianto

Posted by massimolegnani on maggio 28, 2012
emozioni / 2 Commenti

Sono brutte e sfatte le donne, appena partorito. Sudano in gennaio e tremano d’estate, pallide sempre, in un travaglio che non ha mai fine.
Le contrazioni, ondate di dolore come una mareggiata, la paura di schiantare, la dignità che sfuma, le urla all’aria che squarciano la pelle.
Le conosco tutte le stazioni di questa viacrucis, antica più di Cristo, la via della passione da cui passa la sofferenza di ogni donna.
L’episio, il parto, poi la placenta espulsa con l’ultimo conato e infine la sutura a carne quasi viva e quasi morta.
Sono stravolte le donne, appena partorito. Escono da quella sala malferme sulle gambe, sorrette da uomini che tremano e qualche volta svengono, gli uomini. Le donne invece s’accasciano sul letto, vorrebbero dormire, dimenticare di essere famiglia, che i mariti sono troppo goffi e troppo dolore i figli. Tornar bambine, essere altrove.
E invece arrivi tu, candido giudice malevolo, ad annunciare la pena del dolore aggiunto, che non tutto è andato per il verso giusto.
Si scusano di piangere le donne, appena partorito. Si alzano dal letto frastornate e vanno, più vecchie di vent’anni, incontro al figlio nuovo che già si trova appeso a un filo.

Infagottata
in una vestaglia
di lanetta stinta
la donna sta
immensamente sola
piegata ai vetri dell’incubatrice
come una colpa che non è.

massimolegnani

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