Archive for agosto, 2008

quando sarà ora di dire basta

Posted by il guardiano on agosto 29, 2008
pensieri / 3 Commenti

Penso che a volte, certe storie ci travolgono con la violenza di un treno in corsa, e l’urto contro la motrice ci sbriciola come fossimo dei pupazzi di vetro. Ma poi, come capita ai supereroi dei fumetti, i frammenti del nostro corpo si rimettono insieme, uno ad uno, restituendoci la forma iniziale. Il fatto è che ad ogni colpo, qualche briciola di noi stessi viene smarrita, e un giorno ci accorgiamo di aver perso qualcosa di fondamentale: un occhio, una mano, il cuore.Mi accorgerò quando sarà arrivato quel giorno? Quel giorno dovrò dire basta. Basta notti di guardia, basta moribondi, morenti, basta tensione, pericolo. Basta mariti e mogli e figli piangenti, in lacrime, distrutti dal dolore della perdita, del lutto, della disgrazia. Gente che urla, che sta male, che sviene. Basta.

E cosa farò poi? Che cosa so fare io? E’ un pensiero che mi innervosisce un po’. Cioè, non lo so. Cosa so fare… so fare un sacco di cose. E’ solo questione di provare. So montare i mobili dell’IKEA, per esempio. E’ già qualcosa. E poi si può sempre imparare no? Io sono un tipo sveglio, che ispira subito fiducia… Ma no. Non ha senso. “Tu, dici così tanto per dire, non sai di cosa parli. Secondo te, dopo tutto quello che hai studiato, dopo tutti i sacrifici che hai fatto, che hanno fatto i tuoi per mantenerti, molli tutto e ti metti a fare… il barista?” E perché no? Il barista, non ci avevo pensato. E’ un ottimo mestiere. Sei a contatto con la gente. A me piace il contatto con la gente. Senti un sacco di storie. Anche qui storie, ma non necessariamente tristi e dolorose. Cioè ci saranno anche storie tristi e dolorose, ma non solo…

Il telefono squilla allarmante. Un richiamo. Il corno di guerra. Qualcuno ha bisogno di aiuto. Qualcuno sta male, sta soffocando, sta morendo, sta… magari sta solo dormendo male, ma io devo… accorrere. E’ l’unica cosa che so fare, almeno per ora. Balzo giù per le scale verso il pronto soccorso. “Il barista… o l’oste. Il falegname, perché no? Prima o poi dovrò organizzarmi”.

il guardiano

Tags:

agonia

Posted by Herbert Asch on agosto 27, 2008
cronache / Nessun commento

Dieci di sera di una guardia qualunque, mezza stagione, calma piatta. Pronto, Dottore, venga giù, hanno telefonato che arriva un paziente grave!” Scendo le scale ed arrivo in Pronto Soccorso in pochi secondi; intanto si sta già annunciando una ambulanza alla porta, scendono poco convinti due militi ed una signora giovane. Sulla barella c’è una povera vecchietta incartapecorita, ormai con un respiro agonico, la “facies ippocratica”, affilata, eloquente segno di una fine incipiente ed ineluttabile. La signora viene introdotta nella stanza di emergenza, il pubblico esce, e rimaniamo nella stanza l’infermiera, la mia collega della Medicina ed io a guardarci negli occhi. Dal punto di vista clinico la situazione è palesemente senza alcuna speranza: è un coma profondo, con un respiro superficiale in una paziente molto anziana, defedata, anzi, per usare un termine poco tecnico, ma efficace, che è consunta, consumata.

“Devo fare qualcosa?” dice l’infermiera. “Cosa vuoi fare?” dico io. “Uno non ha neanche più il diritto di morire in pace…” osserva la collega.

Esco a chiedere qualche notizia in più, tanto per capire. Fuori c’è la responsabile del centro presso cui la signora era ospite, una casa di riposo delle vicinanze; è visibilmente scazzata, forse di essere dovuta venire ad accompagnare, chissà dov’era: tacchettini, camicetta e golfino, ampia gonna, niente di operativo. Magari era in giro ed è rientrata, magari è capace che si è cambiata per accompagnare l’urgenza; i parenti sono stati avvertiti e debbono arrivare.

“La signora prendeva delle medicine ?”. “Certo, gliele hanno date nel corso dell’ultimo ricovero presso l’Ospedale di *** (un piccolo, ma efficiente ospedale di Medicina Generale dei dintorni), ma poi l’hanno dimessa una settimana fa dicendo che non c’era più niente da fare, che le cure non sarebbero più servite a granché”. Il tutto pronunciato con l’aria di dire: non potevano tenersela lì.

Arriva intanto una parente un po’affannata, con gli occhi rossi di pianto: “Sono la figlia!… è …?” “No signora, non è ancora morta, ma non ci vorrà molto… – e qui non so tenermi glie lo chiedo, anche se “cun bel deuit”, educatamente, senza aver l’aria di cazziare “…ma come mai ce l’avete portata qui se vi avevano detto che non c’era più niente da fare?” “Ah, come possiamo sapere noi… siamo mica dottori” sbotta la responsabile “magari qui potevate fare ancora qualcosa… non so… qui siete attrezzati, avete l’ossigeno, noi lì abbiamo mica niente!”

Lascio perdere e torno dentro.

I respiri si sono diradati, sono diventati delle contrazioni del torace; la bocca è aperta, rilasciata. Quante volte ho insegnato agli allievi infermieri o ai soccorritori a ricercare i segni della morte imminente, della cessazione del respiro, del battito del cuore, dello shock per poterli contrastare e per poterli supplire con le tecniche di rianimazione. E quante volte ho visto questa scena, talvolta lottando, per combattere la morte (nessuna retorica, ma sono Rianimatore, è il mio mestiere), talvolta assistendo impotente, quando si tratta di constatare il decesso di chi è vittima di gravi incidenti, talvolta inattivo, cercando solo di alleviare le sofferenze dei pazienti ormai incurabili. E tutte le volte, al di là degli atti tecnici, che vengono compiuti ormai quasi automaticamente, ho sentito un senso di sacralità incombente, quasi di intimità violata, di pudore estremo ad osservare una morte.

Sono diventato tutto ad un tratto come disgustato da quella che mi viene di definire oscenità di questa morte abbandonata così su una barella di ospedale, in un posto dove tante volte si è lottato, ed ora si assiste forse indifferenti e si attende un epilogo previsto.

Non si ha più il diritto di morire nel proprio letto?

Herbert Asch

il sonno di Babette

Posted by il guardiano on agosto 25, 2008
cronache / Nessun commento

E’ sicuramente la bambina che piange quella che Babette sente di là, ma ha troppo mal di testa per riuscire ad alzarsi. Sembra impossibile, eppure è proprio così, la testa le fa tanto male da scoppiare. Ci ha già anche provato ad alzarsi, ma proprio non le riesce. Per cui, pianga la bambina, pianga tutto il mondo, lei da quel letto non si muove. E ha un bel chiamarla, il marito, e scuoterla e sollevarla proprio di peso. Tutto è inutile. La sua testa è inchiodata al cuscino, e il corpo alla testa. E’ tutto così vero e tragico per lei, che non si accorge neppure dei soccorsi che arrivano, dei militi che le caricano sulla barella, e dell’ambulanza che corre impazzita verso l’ospedale. Per quel che ne sa, lei, è rimasta ancorata al suo letto, sepolta sotto tonnellate di dolore, come un fossile imprigionato nella roccia, dove niente e nessuno (nemmeno il pianto della bimba) potrà mai più raggiungerla.Babette non sa che una parte del suo cervello è stata distrutta. Bombardata da una malattia impietosa. Dove prima c’era sua figlia (20 giorni di bambina bellissima) ormai non c’è che vuoto e desolazione. L’unica cura è togliere le macerie, e mettere a riposo il resto. Ma a guardare da fuori quel disastro l’idea è che non ci sia più niente da fare: Babette resterà imprigionata per sempre nella sua montagna di detriti.

E’ notte, e tocca me andare a caccia di Babette. Tocca a me trovarla, rapirla da quel sonno indotto e liberarla dal guscio di pietra. “Non si sveglierà mai” penso mentre aspetto che finisca l’effetto dei sedativi. “Babette!” chiamo. “Babette”. Un movimento delle palpebre. Non ci credo e riprovo, più forte. La chiamo e la pizzico anche. Gli occhi si spalancano. “Babette mi senti?” E’ lieve il movimento del capo, ma indiscutibile: sì. Come riemersa da un’era preistorica gli occhi di Babette si accendono di luce. Pochi minuti, poi riparte il fluido ipnotico: il cervello deve riposare ancora un po’. Non c’è la sua bimba, in quello sguardo, non c’è la sua casa, suo marito… Non c’è niente di tutto questo, ma non importa. C’è Babette, e lei saprà ricostruirsi il suo mondo.

il guardiano

Tags:

Giuanin d’la crava

Posted by Herbert Asch on agosto 24, 2008
ritratti / Nessun commento

L’omino magro e segaligno era accudito dalla figlia, una donna di piccola statura non carina, ma dall’aria sveglia, che gli faceva aria nel corridoio. Ricordo che l’avevo fatto accompagnare in antisala per incannulare una centrale, poi una serie di eventi l’aveva fatto passare in cavalleria e ormai attendeva da un po’. Si lamentava che gli mancava il fiato e la povera figliola sventolava la rivista che si era portata per tener compagnia al papà, non sapendo cos’altro fare di fronte a questa sofferenza triste e lamentosa. Alla fine lo feci entrare scusandomi e presi la cartella per controllare la richiesta e qualche notizia precedente. Poi, richiudendola, mi era saltata all’occhio nell’intestazione una parola strana, atipica per le solite banalità che si ritrovano nei documenti burocratici. Professione: ACROBATA.

Lo guardai, gli chiesi. – Oh sì, mi conoscevano tutti in valle: “Giuanin d’la crava”; perché, sa, avevo una capra ammaestrata e poi facevo il fantasista! – Improvvisamente il documento, freddo e burocratico, si era colorato di tanti colori, un po’ sbiaditi dal ricordo, ma ancora vivi comunque, pensa un po’: “acrobata”.

Ci sono andato ancora qualche volta in questi circhi piccoli e scalcagnati , dove in una famiglia o due, sempre tanti sono, fanno tutto, dai numeri di pista alla maschera sulle tribune, tutti interpretando più ruoli, perché la roba da fare è tanta e la gente è poca, o meglio, più si è e più bisogna dividere il magro gruzzolo. Doveva essere stata dura da queste parti per l’epoca. Avrei voluto parlarne ancora, ma non mi son sentito, l’uomo era stanco, di quella stanchezza finale, esaurita, che ritrovo talvolta non nei moribondi, ancora, ma come dire, nei segnati, in quelli che è destino finisca da lì a poco. Feci quanto richiesto, non aveva più voglia di stare lì, poi l’ho rimandato nel suo letto, frasi di circostanza. Ho pensato che magari passavo più tardi in reparto con la scusa di vedere se tutto andava bene, ma poi la cosa è passata, altri eventi hanno coperto lo spiraglio, e via andare! Quante storie ci sono attorno, ognuna portata dentro da ciascuno, con il suo fardello di vita, i suoi ricordi: è stata la maestra di quel paesino per tanti anni… E’ stato in campo di concentramento…, trent’anni di Fiat, ma dagli anni venti!… quante testimonianze di realtà ormai distanti molto più nei fatti che nel tempo. Povero Giuanin, col suo fiato corto che lo aspetta forse pure una morte dura, brutta, soffocato dal suo cancro al polmone. Eppure ce n’è mica tanti che sulla cartella hanno scritto, come fosse una pennellata d’acquarello: “Professione, ACROBATA”.

 Herbert Asch

Tags: ,

un contropulsatore aortico, con parole vostre…

Posted by il guardiano on agosto 19, 2008
cronache / 1 Commento

Notte in emodinamica.
Non invidio il collega cardiologo: ma come si fa a spiegare cos’è un contropulsatore aortico? Ai parenti ovviamente. Al paziente non è stato necessario: l’ho intubato al secondo giro di fibrillazione ventricolare.
E’ cominciato tutto così: 180 di frequenza. “Pasquale! Pasquale! Tutto bene?” e Pasquale mugugna un “Sì”, poi gira gli occhi e via, FV. Bum, scarica a 200 J. Riparte. “Pasquale!” “Pasquale!”. Riemerge.
E sembra proprio riemergere. Ma da dove? Dall’aldilà, ovviamente. Da quell’ultramondo fatto di luce, musiche celestiali e anime morte che lo accolgono… Poi una mano tesa oltrepassa il limite e lo acciuffa per la giacca. Un soffio di vita nuova sibila attraverso le labbra socchiuse e il cuore ricomincia a battere: il paradiso può attendere, per ora.

Per me è facile spiegare. Alla fine della fiera la questione è che Pasquale è un po’ come sotto anestesia – e tutti a sentir parlare di anestesia una loro idea su che cosa sia ce l’hanno. Ma spiegare che: l’IVA era chiusa, che cercando di riaprirla si è chiuso tutto il tronco comune (che si è pure dissecato), che alla fine non c’era uno stent medicato che fosse uno che passasse… che pure la destra faceva schifo, anzi era completamente stenotica… e che nonostante le amine la pressione stava sotto i piedi, per cui è stato necessario contropulsarlo… Be’ è tutta un’altra storia…
Anche se poi, alla fine, qualsiasi cosa dici, da quello che dici, cercano solo di capire se ce la farà o no, se, secondo te, c’è qualche possibilità oppure no. Guardano la tua faccia a caccia di un po’ di speranza.
Be’ cari parenti di Pasquale, sono le cinque del mattino, ed è tutta la notte che balliamo. Forse non ci sono cose da scommettere, ma il nostro lavoro, la nostra fatica, la nostra stanchezza sono tutte lì, messe in gioco, e, per quel che valgono, sono tutte per lui.

il guardiano

Tags: , ,

il guardiano

Posted by il guardiano on agosto 18, 2008
pensieri / 2 Commenti

 

 

Ho pensato che la notte, quando sarò di guardia, andrò a caccia di una impressione. Un’mpressione di seconda o terza fila. Una di quelle che si vedono solo di sfuggita, che passano tanto lontane e nascoste da sembrare addirittura estranee all’esperienza che le ha generate; quelle impressioni tanto schive da uscire solo quando il mondo dorme, e tanto lievi da restare impigliate tra le maglie di un sogno.

il guardiano