Archive for ottobre, 2008

storie importanti (1)

Posted by il guardiano on ottobre 31, 2008
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“Ivàn Il’ìc ogni tanto faceva venire Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po’ stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri; semplicemente, con una soavità che inteneriva Ivàn Il’ìc. In tutti gli altri la gagliardia, la forza vitale, la salute offendevano Ivàn Il’ìc; soltanto la forza vitale e la salute di Gerasim non amareggiavano Ivàn Il’ìc, anzi lo calmavano.

Il maggior tormento di Ivàn Il’ìc era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento… Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe, stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola… era un orribile tormento per Ivàn Il’ìc. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo. L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso «decoro», che Ivàn Il’ìc aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno, voleva capire la sua situazione. Soltanto Gerasim capiva la sua situazione e aveva pietà di lui. Perciò Ivàn Il’ìc stava bene soltanto con Gerasim. Stava bene, quando Gerasim, a volte per delle notti intere, rimaneva con lui, tenendogli le gambe sollevate, e non voleva saperne di andare a dormire: «Lei non si preoccupi, Ivàn Il’ìc» diceva, «ho ancora tempo per fare una bella dormita,» o quando, aggiungeva all’improvviso, passando al «tu»: «tu sei malato, e hai bisogno di me, no?» Soltanto Gerasim non mentiva, era sicuramente l’unico che capiva di che cosa si trattava e che non riteneva necessario nasconderlo, e si limitava ad avere pietà di lui, del suo padrone debole e sfinito. Una volta venne fuori a dire a Ivàn Il’ìc, che cercava di mandarlo via:
«Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei farlo?» e, dicendo questo, voleva significare che quella fatica non gli pesava, proprio perché lo faceva per un uomo che stava morendo, nella speranza che anche per lui, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso”.
Da “La morte di Ivan Il’ìc” di L. N. Tolstoj.

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una nuova strategia

Posted by il guardiano on ottobre 25, 2008
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Era meglio parlare chiaro. La mamma era in coma. Il dottore aveva impiegato un bel po’ a spiegare questa cosa al ragazzino. Aveva anche parlato di un nuovo tubicino che le avevano messo in testa. Sembrava una cosa dell’altro mondo. Un sensore proprio dentro il cervello. Chissà quali informazioni avrebbe potuto dare. Il ragazzino immaginava tutta una serie di onde, di segnali, di flussi che messi insieme avrebbero dato un quadro molto preciso della malattia della mamma. Una specie di tac (aveva già visto una tac) ma non degli organi, proprio dei pensieri. Così quando era entrato e aveva visto quel piccolo monitor che indicava un numero scritto grande, come per essere letto da un bambino dell’elementari, c’era rimasto un po’ male. Era molto più interessante l’altro monitor, quello colorato, o il ventilatore (anche quello gliel’avevano già spiegato). Comunque non disse niente. Non voleva offendere quel dottore che gli aveva fatto lo spiegone. Certo che avrebbe preferito qualcosa di un po’ più sofisticato per frugare nel cervello della mamma.

Il quadro dei papaveri era appeso proprio sopra al letto. L’infermiere che si occupava della mamma (c’era anche lui di là con il dottore), gli disse che era molto bello quel quadro. Gli disse che lui non sapeva disegnare neppure una casetta ed ammirava molto chi invece aveva queste doti (disse proprio la parola “doti” che colpì il ragazzino, perché era una di quelle parole che usavano spesso gli adulti per fare un complimento, senza accorgersi che non c’era niente da essere contenti a possedere una “dote”; era più una scocciatura che altro).
Tornando a casa pensò a quando avrebbe potuto raccontare tutto a Miriam. Immaginava i discorsi, le parole precise che le avrebbe detto, e le sue reazioni. Ogni piccolo gesto. Immaginava i loro sguardi aggrappati l’uno all’altro, e le loro bocche impigliate fra dolci parole . Immaginava il suo sorriso, e le sue risate. Poi improvvisamente, poco prima del bacio, la scena ritornava dall’inizio, e ricominciava tutto. Ma ad un certo punto si era accorto che c’era proprio poco da ridere in tutta quella faccenda. Con che scusa avrebbe potuto invitare Miriam? E come avrebbero pututo trascorrere un pomeriggio insieme a divertirsi? “Ciao Miriam, vieni a casa mia a vedere il crocifisso che ho appena finito di dipingere?” oppure “Mi spiace, ma devo proprio tornare a casa per le 5 – se potessimo baciarci entro quell’ora! Mia madre è all’ospedale, in coma, che mi aspetta…”
No, così, non avrebbe mai funzionato.

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l’arabo

Posted by Giro Batol on ottobre 18, 2008
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Finalmente una notte tranquilla! Sono già le tre ed il telefono tace; d’altronde l’avevo promesso al Guardiano: ”Vedrai, stanotte ti scrivo!” DRIIN,DRIIN,DRIIIIN! Accidenti alla mia mania di sfidare la sorte: eppure me lo dico sempre che la persona intelligente risolve i problemi, ma il saggio li evita. DRIIN,DRIIN, DRIIIIN! 2437: è la Sala Emergenza del Pronto Soccorso: anche per questa notte la saggezza è un’utopia! “Abbiamo un ragazzo di vent’anni, alto circa un metro, con un quadro di tetraparesi spastica, che si è fratturato il femore destro e non riusciamo a prendergli un accesso venoso in nessun modo;forse serve una centrale”. “Arrivo” In pochi secondi sono in Pronto ed incrocio un’infermiera delle ”vecchie”; mi guarda, mi sorride e scuote sconsolata la testa, come a dire: ”Di nuovo tu?”. Poi mi indica un letto in una zona poco luminosa della degenza verso il quale mi dirigo a passo rapido. Avvicinatomi, scopro un gomitolo di pelle ed ossa, dal torace deforme, le braccia rattrappite, le gambe in una posizione innaturale in parte anche a causa della frattura. Ma da un collo inesistente si erge un viso pieno, ben nutrito, dalla pelle ambrata, sormontato da folti riccioli neri, con incastonati al suo interno due occhi scuri ricolmi di paura. Mi rendo conto che il mio incedere aggressivo potrebbe averlo spaventato e cerco di riguadagnare posizioni con il miglior sorriso che possa venirmi fuori dinnanzi a tanta sofferenza. Poi gli accarezzo il capo e gli chiedo se capisce quello che gli dico. Dall’oscurità ai lati del letto una voce calma e sicura con forte accento straniero mi risponde che il ragazzo capisce la sua lingua ma che non riesce a parlare. Solo ora mi accorgo di una signora vestita con abiti orientali, dall’età indecifrabile che si china sul suo capo e gli sussurra alcune parole in arabo di una dolcezza e di un’armonia che mai avrei immaginato fosse possibile per tale lingua. Effettivamente paiono infondergli un minimo di serenità. Spiego ai due pazienti, non riesco a considerarli entità distinte, quel che devo fare e mi ripropongo di farlo rapidamente e cagionando loro il minor disagio possibile. Mi carico, come quando giocavo a pallavolo: ”Pensi di essere bravo? Ed allora dimostralo, pallone gonfiato”. E con non poca buona sorte che individuo una vena sull’avambrccio destro e con l’aiuto della mia infermiera riesco effettivamente a incannularla senza difficoltà. L’espressione di gratitudine che ho potuto apprezzare sul viso della madre ed appena intravedere su quello del ragazzo è il più bel ricordo di questa nottata. Mentre mi allontano dal Pronto Soccorso non posso fare a meno di riflettere su quanto sia stato e sia stupido da parte degli uomini combattersi per difendere il nome di un dio, Allah o Elohim che sia, che se esiste mi pare davvero un gran pasticcione per non dire di peggio. DRIIN,DRIIN,DRIIIIN! “Abbiamo una signora di sessant’anni con una tachi a complessi larghi, batte a 210” “Arrivo”, ma questa è un’altra storia”.

Giro Batol

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la visita

Posted by il guardiano on ottobre 13, 2008
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Il ragazzino diede l’ultimo tocco di colore sulle foglie in primo piano, poi si scostò dal quadro e lo guardò da lontano, come gli aveva insegnato a fare suo nonno. E’ finito, pensò, e decise di sottoporlo al giudizio del maestro. Sapeva che avrebbe dovuto aggiungere ancora qualcosa. Una luce, un’ombra. Del bianco (ma non del nero: il nero non esiste, nemmeno la notte è nera). Il più era comunque fatto, da domani avrebbe potuto dedicarsi al suo progetto.Il nonno guardò con i suoi occhi acuti e severi. Si fece passare i pastelli e indicò i punti da correggere. Ora andava bene. La mamma sarebbe stata contenta di quei papaveri da appendere sul suo letto. Molto meglio di quel crocifisso che si era impuntato di fare durante tutta la settimana, e che era rimasto solo abbozzato sul cavalletto dello studio (il “suo” progetto). Tutti la pensavano così. Tranne lui, il ragazzino, che vedeva invece nel crocifisso un compagno fedele della malattia. Un’immagine concreta di quel dolore. Il crocifisso sarebbe stato lì a succhiare quel male che stava uccidendo la mamma. Molto di più di quel mazzo di papaveri rossi. Ma era inutile spiegarlo. Il crocifisso non sembrava adatto, e alla fine, non sapeva bene chi doveva fare contento con quel quadro.

Cercò di iniziare il discorso con suo padre mentre andava all’ospedale. Partì dall’idea di diventare pittore, e finalmente dipingere tutto ciò che voleva (compresi i crocifissi), ma subito il discorso si spostò sulla sua vocazione alla medicina. Vero anche quello. Aveva proprio detto così al medico che gli aveva parlato qualche giorno prima. Forse ci credeva anche, ma fondamentalmente gli era sembrato importante per quel dottore là, non per lui. D’altra parte quando vedeva Miriam fuori da scuola che lo guardava con quegli occhi vellutati e indifesi, sognava di diventare un soldato, per poterla salvare dalla terza guerra mondiale. Nel frattempo non avrebbe mai rinunciato ad un giro intorno al mondo, ad una caccia a tesori dimenticati, ad un viaggio nello spazio. Impossibile decidere lì in macchina, in poco meno di un’ora.
Per entrare in ospedale bisognava mentire sulla sua età, ovviamente, altrimenti la guardia dell’ingresso non lo avrebbe mai fatto passare. Poi una volta dentro era più facile. C’era di nuovo quel dottore dell’altra volta. Gli disse che la situazione non era cambiata molto, e che la mamma era sempre nello stesso letto. Il ragazzino entrò, appoggiò il quadro con i papaveri sul lenzuolo, e vide che quella macchia rossa sul verde del letto sembrava aver ritrovato una sua naturale collocazione. Si rincuorò un po’. La mamma dormiva, non le disse niente, e decise di recitare sottovoce una preghiera. Poi uscì, lasciando dentro solo suo padre.

Tornando a casa pensò molto al crocifisso che aveva deciso di dipingere. Pensò che lo avrebbe finito e lo avrebbe fatto vedere a Miriam, forse lei avrebbe capito.

il guardiano

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la fine del mondo

Posted by il guardiano on ottobre 04, 2008
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Il giovane dottore arrivò in pronto soccorso che il consulto era già cominciato. Il medico di guardia, il radiologo, il chirurgo vascolare erano tutti davanti alla TAC. Il referto era chiaro: aneurisma dell’aorta addominale in fase di rottura. Il giovane dottore chiese se si andava in sala. La risposta arrivò secca dal chirurgo. Ovviamente si andava in sala. Ma nessuno si muoveva da lì. Il fatto è che la signora sapeva dell’aneurisma, e 2 anni prima aveva rifiutato l’intervento.  La signora aveva dei problemi? chiese il giovane dottore. Era depressa? Demente? O cosa? No, niente. 84 anni, senza parenti. Bisognava solo convincerla. Mancava il consenso firmato.

La paziente era in sala emergenze, attaccata ai monitor, separata dagli altri ospiti da una tenda che scendeva dal soffitto. Tranquilla, respirava bene, la pressione era stabile. Una nonnina dagli occhi vivaci, un po’ sofferenti. Il giovane dottore la salutò, lei rispose. Le chiese come stava. Aveva male alla pancia. Il giovane dottore le somministrò un analgesico, lei ringraziò. Poi dopo qualche minuto di silenzio iniziarono a parlare. La nonnina era ben conscia di quanto era successo. Sapeva che l’aneurisma prima o poi si sarebbe rotto, ma lei non aveva voluto farsi operare. Non voleva morire in ospedale. Tutti le avevano detto che se si rompeva sarebbe morta, lì, su due piedi, senza neanche accorgersene. E questo in fondo la tranquillizzava. Così quando le era venuto quel mal di pancia terribile, mai più pensava all’aneurisma. Se avesse sospettato che era quello, se ne sarebbe stata a casa, così nessuno l’avrebbe operata. Ma quei dottori là volevano operarla a tutti i costi. E lei non voleva farli arrabbiare. Il giovane dottore la rassicurò sul fatto che se lei era contraria all’intervento, nessuno avrebbe potuto operarla. Se voleva poteva anche ritornarsene a casa. A queste parole lo sguardo della nonnina si accese di una nuova luce. Davvero poteva tornarsene a casa? E morire nel suo letto? E vedere per l’ultima volta le sue amiche? Certamente. Non era una cosa semplicissima, bisognava organizzarsi, ma era assolutamente possibile.

Quando il giovane dottore tornò dai suoi colleghi, e spiegò la situazione, nessuno lo prese sul serio. Nessuno pensò che era ragionevole lasciare perdere e fare in modo che la nonnina se ne tornasse a casa a morire nel suo letto. Ma il giovane dottore rimase fermo nella sua posizione: lui non avrebbe mai addormentato una persona perfettamente sana di mente, orientata nel tempo e nello spazio, che rifiutava (in maniera del tutto ragionevole) un intervento che (in quelle condizioni) ha una mortalità elevatissima, e un rischio altrettanto elevato di complicanze future. Cosa si poteva fare allora? Semplice. Ognuno avrebbe scritto la sua consulenza, il suo parere diagnostico, terapeutico e prognostico, e sotto tutte queste belle parole la signora avrebbe dichiarato la propria volontà.

Con il cellulare del giovane dottore (lei nella fretta e nella confusione aveva dimenticato il suo a casa), la nonnina chiamò due sue amiche (le più care), e un vicino di casa (infermiere). Raccontò loro tutto quello che era successo e invitò tutti a casa sua per un’ultima partita a carte. Poi firmò i fogli. Il giovane dottore aspettò che la caricassero sull’ambulanza, e poi fece ancora una cosa (che forse non avrebbe potuto, ma che gli sembrava indispensabile). Diede alla nonnina una siringa con dentro diluita una fiala di morfina. Le disse di farsi aiutare dal suo vicino di casa (l’infermiere), e di farsela fare, lentamente e a piccole dosi, se il dolore fosse di nuovo comparso.

Ho pensato un sacco di volte al giovane dottore e alla nonnina. Ho pensato a queste due persone che percorrono un tratto di strada insieme. Quella strada che porta all’orizzonte. Un giovane, figlio di tutti i figli, e una vecchia, madre di tutte le madri, che arrivati là dove il mondo finisce, di fronte al buio cosmico, si salutano. Lei per continuare, mite e coraggiosa, il suo cammino verso l’infinito, lui per tornare, chino e impotente sui suoi passi, e negli occhi le tracce di un nuovo stupore .

 il guardiano

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