Archive for dicembre, 2010

una notte tranquilla

Posted by zarianto on dicembre 29, 2010
racconti / 1 Commento

E’ l’una di notte e ho appena messo in ordine i pazienti della terapia intensiva che probabilmente veleggeranno tranquilli fino a domattina, quando giungerà il mio cambio. Al momento, la loro presenza è scandita unicamente dal monitor che ne trasmette il battito cardiaco, fortunatamente ritmico e regolare – fossero tutti così… Il volume è basso e si diffonde poco oltre la penombra della sala degenza, dove, abbassate le luci, per consentire agli sventurati ospiti di conservare almeno una parvenza di ritmo sonno-veglia normale, qualche infermiere, vinto dal sonno, si assopisce, chi su una sedia a sdraio, chi reclinando il capo sulla scrivania. E resto solo! Solo, in cucina, alla luce fioca di una cappa, a sorseggiare placido un bicchier d’acqua naturale da frigo, che di più la mia salute con consente. Dinanzi a me, l’enorme vetrata che, dall’alto del colle su cui mi trovo, domina il borgo sottostante, appena abbozzato dai lampioni che disegnano viali deserti e geometrici. Una luna brillante si affaccia tra nubi rade a tratteggiare i contorni degli edifici, bui, in cui gli altri, giustamente, riposano. Alcune stelle biancheggiano – o rosseggiano – minuscole nel cosmo. Una quiete irreale e insolita avvolge il nosocomio. E io rimarrei qui, a farmi sorprendere da un’alba che mi apparirebbe in tutta la sua grazia. Ma non posso. Devo tentare di riposare, per essere fresco, lucido e forte, qualora dovessero chiamarmi a soccorrere un paziente vittima di trauma maggiore, di avvelenamento, di emorragia cerebrale, di arresto cardiaco, di insufficienza respiratoria… Così, svogliatamente mi sollevo da una sedia piuttosto scomoda, volgo le spalle all’infinito e mi dirigo verso il corridoio, unico ambiente illuminato a giorno. Non appena attraverso la porta della cucina, vedo irrompere nel reparto… il mio cambio in borghese, che a quest’ora, da disposizioni turnistiche, dovrebbe essere comodamente adagiato nelle lenzuola di casa sua! Non faccio a tempo a chiedergli cosa accada che d’improvviso… intuisco! E mi faccio prima serio e poi triste. Di ciò che mi racconta, capisco solo il nome della moglie, l’altro mio cambio del mattino, gravida di un bimbo tanto cercato! Ricordo come nei giorni scorsi si portasse spesso la mano sull’addome e lamentasse fitte. E ciò che tutti temevamo, e a cui nessuno voleva credere, si è avverato. Ora tocca rivedere il cavo uterino, cioè “raschiare” – come si dice – i resti dell’aborto spontaneo. L’ingrato compito di sedarla, è mio!
Mestamente e in silenzio, il mio cambio e io ci dirigiamo verso la scalinata che conduce alla camera operatoria della sala parto e la percorriamo, guardando, ma non vedendo, uno ad uno i gradini che da essa ci separano… Non una parola. Non oso sollevare lo sguardo.
In sala operatoria, lei mi attende, nuda e indifesa, assicurata al letto, in posizione ginecologica. Vorrei abbracciarla e proteggerla e anche il marito, persone al cui fianco lavoro già da qualche anno, che conosco da ancor più tempo e che frequento fuori di qui, nel mondo reale! Amici? Non so, forse. Se no, qualcosa di molto simile. Sono piuttosto imbarazzato, ma, sorridendomi, la mia amica mi scioglie subito.
Terminata la procedura, dolcemente si risveglia e, liberata dai lacci di contenimento, atti ad evitarne la caduta durante il coma anestesiologico, mi prende la mani per poggiarvici le labbra, in segno di ringraziamento! La consegno al marito e mi reco nella stanza del medico di guardia, dove l’alba, filtrando dalle fessure delle serrande semichiuse, mi coglierà supino, con le mani incrociate dietro la nuca e rigorosamente sveglio, poiché non sarò riuscito a fare altro che pensare al mio, cambio!

Zarianto

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un contratto

Posted by folfox4 on dicembre 15, 2010
testimonianze / 6 Commenti

Sono seduto su una poltrona simile a quelle che usavano negli anni ’60 nelle barberie.
Insieme ad altri 10 come me, uomini e donne.
Sono un medico e potrei dirne, ma sono anche l’ultimo arrivato in questa comunità e sento di dovere rispetto.
Stanno con le spalle girate al mondo a bisbigliare, mentre dalla finestra scrutano con un filo d’ansia lo skyline di Roma – Portuense.
Taccio e ascolto.
Ciascuno racconta del cancro e della propria strada.
Con pudore, senza sbavature, senza personalismi; i fatti, la storia così come è andata per ognuno.
Un racconto al neon come la luce che c’è qui.
Avevo pensato di farla in casa di cura la chemioterapia, per star da solo e non mischiarmi alla gente; questione di stile.
E se vomito? Meglio da soli.
Qui capisco invece che c’è sempre spazio per la dignità.
Perché è vero: la malattia incattivisce ma l’idea della morte seduta sul bracciolo della tua poltrona nobilita.
Insomma: la morte a suo modo è regale e bisogna essere all’altezza.
Il veleno scorre nella cava superiore; protocollo FOLFOX 4, dosaggio controllato, pompa peristaltica, infermiere professionale ma con l’aria di chi si chiede: ” chissà se sai davvero cosa ti (a)spetta, chissà quanto durerai con quella stupida faccia tosta, ne ho visti di ottimismi … chissà se l’anno prossimo sarai ancora vivo”.
Comunque – secondo linguaggio – non perde cortesia, sollecitudine.
E’ Giovanni; sta lì da 10 anni, altri 10 passati in medicina generale.
E’ rasato a zero; forse – allo stesso modo di un nobile ospite – per non mettere in imbarazzo me e gli altri, penso sorridendo.
Intanto il veleno lavora le cellule e mi sento cambiare come in una sorta di Dr. Jeckyll & Mr. Hide girato al rallentatore.
Comincia il respiro ampio, oceanico, lento, ritmico della nausea.
Sulla cresta dell’onda viene il panico.
Da là sotto, da quella montagna d’acqua corporea che sale e si gonfia, può uscire qualsiasi mostro marino; bisogna reggersi o si rischia di volare fuori bordo.
E’ l’annuncio: sono in mare aperto.
I potenziali d’azione lungo i nervi periferici si animano ed è come se su ogni nodo di Ranvier si accendesse un fuoco di Sant’Elmo; il fuoco che i marinai dicono appaia sull’alberatura prima che la barca affondi; un segno di Dio.
Il fuoco si trasmette fino alle unghie e brucia tutto, anche la gola e la lingua.
Alla fine del trattamento, dopo 72 ore di viaggio, si rientra in porto.
Le braccia dolgono; col mare grosso il timone è duro da reggere sulla rotta.
Le gambe pure fanno male a forza di andare su e giù per reggersi in equilibrio e smaltire il terrore del non ritorno.
In bocca il sapore del metallo succhiato per vena e del sale.
Ma è soltanto il primo viaggio; il contratto con la Compagnia è per 12 uscite.
Non conta se c’è tempesta o no, se fa freddo o piove.
Portare il carico come da contratto, questa è la consegna.
“E … ricordi capitano: ha firmato … 53 anni fa … si è impegnato sul suo onore”.
Questo per un uomo di mare è un vincolo forte.
Poi si deciderà; se la Compagnia mi dovesse proporre un altro contratto potrei anche farmi bastare quanto guadagnato fino ad oggi … d’altronde, a ben vedere, non è poco.

Folfox4

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