E’ l’una di notte e ho appena messo in ordine i pazienti della terapia intensiva che probabilmente veleggeranno tranquilli fino a domattina, quando giungerà il mio cambio. Al momento, la loro presenza è scandita unicamente dal monitor che ne trasmette il battito cardiaco, fortunatamente ritmico e regolare – fossero tutti così… Il volume è basso e si diffonde poco oltre la penombra della sala degenza, dove, abbassate le luci, per consentire agli sventurati ospiti di conservare almeno una parvenza di ritmo sonno-veglia normale, qualche infermiere, vinto dal sonno, si assopisce, chi su una sedia a sdraio, chi reclinando il capo sulla scrivania. E resto solo! Solo, in cucina, alla luce fioca di una cappa, a sorseggiare placido un bicchier d’acqua naturale da frigo, che di più la mia salute con consente. Dinanzi a me, l’enorme vetrata che, dall’alto del colle su cui mi trovo, domina il borgo sottostante, appena abbozzato dai lampioni che disegnano viali deserti e geometrici. Una luna brillante si affaccia tra nubi rade a tratteggiare i contorni degli edifici, bui, in cui gli altri, giustamente, riposano. Alcune stelle biancheggiano – o rosseggiano – minuscole nel cosmo. Una quiete irreale e insolita avvolge il nosocomio. E io rimarrei qui, a farmi sorprendere da un’alba che mi apparirebbe in tutta la sua grazia. Ma non posso. Devo tentare di riposare, per essere fresco, lucido e forte, qualora dovessero chiamarmi a soccorrere un paziente vittima di trauma maggiore, di avvelenamento, di emorragia cerebrale, di arresto cardiaco, di insufficienza respiratoria… Così, svogliatamente mi sollevo da una sedia piuttosto scomoda, volgo le spalle all’infinito e mi dirigo verso il corridoio, unico ambiente illuminato a giorno. Non appena attraverso la porta della cucina, vedo irrompere nel reparto… il mio cambio in borghese, che a quest’ora, da disposizioni turnistiche, dovrebbe essere comodamente adagiato nelle lenzuola di casa sua! Non faccio a tempo a chiedergli cosa accada che d’improvviso… intuisco! E mi faccio prima serio e poi triste. Di ciò che mi racconta, capisco solo il nome della moglie, l’altro mio cambio del mattino, gravida di un bimbo tanto cercato! Ricordo come nei giorni scorsi si portasse spesso la mano sull’addome e lamentasse fitte. E ciò che tutti temevamo, e a cui nessuno voleva credere, si è avverato. Ora tocca rivedere il cavo uterino, cioè “raschiare” – come si dice – i resti dell’aborto spontaneo. L’ingrato compito di sedarla, è mio!
Mestamente e in silenzio, il mio cambio e io ci dirigiamo verso la scalinata che conduce alla camera operatoria della sala parto e la percorriamo, guardando, ma non vedendo, uno ad uno i gradini che da essa ci separano… Non una parola. Non oso sollevare lo sguardo.
In sala operatoria, lei mi attende, nuda e indifesa, assicurata al letto, in posizione ginecologica. Vorrei abbracciarla e proteggerla e anche il marito, persone al cui fianco lavoro già da qualche anno, che conosco da ancor più tempo e che frequento fuori di qui, nel mondo reale! Amici? Non so, forse. Se no, qualcosa di molto simile. Sono piuttosto imbarazzato, ma, sorridendomi, la mia amica mi scioglie subito.
Terminata la procedura, dolcemente si risveglia e, liberata dai lacci di contenimento, atti ad evitarne la caduta durante il coma anestesiologico, mi prende la mani per poggiarvici le labbra, in segno di ringraziamento! La consegno al marito e mi reco nella stanza del medico di guardia, dove l’alba, filtrando dalle fessure delle serrande semichiuse, mi coglierà supino, con le mani incrociate dietro la nuca e rigorosamente sveglio, poiché non sarò riuscito a fare altro che pensare al mio, cambio!
Zarianto
Passo di qui spesso perchè aspetto nuovi racconti da leggere, ma quest’ultimo vorrei che rimanesse lì per sempre, dolce e amaro come la tua collega/paziente che ti prende le mani e te le bacia per ringraziarti.
La vostra umanità si trasmette anche con queste parole ed è anche per questo che ho scelto di diventare un giorno (si spera) una collega