Obiezione di coscienza

Posted by blue dolphin on febbraio 04, 2012
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Pomeriggio di guardia. Ostetricia.

Mi annunciano il menù di oggi: una parto-analgesia da iniziare e un cesareo della mattina da rivedere in reparto. “Ah, sì, e poi c’è l’IVG, dottoressa.” Già, siamo ad agosto: il distretto sanitario dove si fanno abitualmente è chiuso, quindi, eccezionalmente, ce ne occupiamo qui in ospedale. Da quando lavoro qui non mi era ancora capitato.

Mi chiedono se sono obiettrice. Che strano, ogni volta che sento questa espressione: obiezione di coscienza, provo come un fastidio. Obiezione…bellissima parola. Coscienza…ancora più bella, vibrante, dignitosa. Come mai messe insieme non mi fanno più una bella impressione, allora? Come la nutella e la maionese! Sarà qualcosa di personale, senz’altro.

Sarà, per esempio, che penso al mio collega della mattina che ha “obiettato”, così che una donna che era qui dalle sette, pronta e digiuna, sta ancora aspettando che qualcuno la chiami. Con i propri pensieri e le proprie paure.

Quando rispondo ”scusate ragazze, ma vi sembro un prete o un’anestesista?” vedo facce inacidite intorno a me …no, decisamente l’ironia non è la miglior virtù delle ostetriche.

Almeno non di queste.

Ci siamo tutti, si può chiamare la signora. Non è che sia stato così facile, però: un’ostetrica di sala, obiettrice, è stata sostituita da una del reparto. Idem per il ginecologo. Tutti i presenti hanno esercitato la propria scelta, come prevede la legge. Il che dovrebbe farmi supporre che per tutti noi quello che stiamo per fare è solo un atto medico. Nessun giudizio, no? Anche perché, tecnicamente parlando, si tratta di una routinaria revisione di cavità, tale e quale a quelle spontanee, come se ne fanno tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Naturale o volontaria che sia, non sono affari nostri.

La mia supposizione è evidentemente sbagliata. Il clima è un po’ teso, imbarazzato. Vado a conoscere la donna, visita e domande di rito, torno in sala operatoria, annuncio il nome della paziente che sta per entrare e subito si alza un coro di galline:

“ma…è italiana??”.

Beh, santiddio, è vero che siamo ormai un melting pot, ma ancora qualche paziente italiana ci è rimasta! “No, sa, è che per fare certe cose, di solito sono straniere…”.

Certe cose”.

A 33 anni dalla 194. Un pomeriggio di agosto del 2011, nel civilissimo ospedale multiculturale di questa regione così “avanti” in Italia (beh…ti piace vincere facile, eh?), in mezzo a persone, non dico intelligenti -la mancanza di ironia era già un triste indizio- ma con un livello di istruzione cosidetto superiore, che non si dichiarano obiettrici… ecco il tabù che proprio non ti aspetti.

Chissà, forse per alcuni è così difficile accettare quelle “certe cose”, nascoste sotto le sigle di IVG, RCU, 194 (che poi sempre un aborto è), che l’unica soluzione passabile che hanno trovato è stata quella di immaginarsi sempre e solo una derelitta: straniera, senza permesso di soggiorno, povera, poverissima, magari anche violentata. Ah, sì, di sicuro è stata violentata poveretta, sennò come si spiega? Invece no, eccola lì l’impunita: è italiana, così a occhio direi ceto medio, niente lividi morbosi sul corpo. Non è un’adolescente sprovveduta. Non sembra neanche una tossica. Eccola là, a sbattere in faccia a tutti i presenti la propria scelta. Questa donna aveva il diritto di scegliere e l’ha esercitato. Avrà passato settimane a pensare, considerare, immaginare, come una partita a scacchi in cui ogni azione ha una conseguenza. E questa è la sua mossa con le sue conseguenze. Questa è la sua obiezione. E’ lei l’obiettrice di coscienza. E noi non ne conosciamo le ragioni, nè sta a noi conoscerle o tantomeno supporle.

Sono molti mesi che lavoro in questo ospedale, ma ci voleva un pomeriggio di agosto in cui il distretto sanitario è chiuso per accorgermi di quanto possano essere imbarazzanti persone con cui lavoro tutti i giorni. Persone che lavorano da sempre con le donne e per le donne: gentili, cordiali, capaci di fare un complimento ad una mamma persino davanti ad un neonato palesemente brutto, a dare loro coraggio anche quando la situazione sembra sfuggire di mano e che adesso hanno improvvisamente difficoltà a guardare questa donna negli occhi e ad essere altrettanto gentili e incoraggianti; colleghi che hanno vite spesso “non convenzionali”: tante ostetriche e dottoresse hanno figli senza essere sposate, tra gli uomini solo due ginecologi non sono (ancora) divorziati, una OSS è una lesbica dichiarata… Tutto questo è accettabile. Anzi di più: è giovane, è moderno, è anche un po’ “di sinistra” se vogliamo buttarla sulla politica!

Invece la scelta di una donna che ora è nuda davanti a noi che siamo vestiti…no, non lo è altrettanto, evidentemente. In nome di cosa, di grazia? Di una vita potenziale? Ma se adesso, proprio davanti agli occhi, abbiamo una vita reale e non riusciamo a trattarla con rispetto?

Colgo sguardi complici e borbottii a mezza voce “ma quanti anni avrà?”. La donna se ne accorge ma sta zitta.

Urlerei io, in compenso. Sono così imbarazzata per i miei colleghi che non mi basta più fare da sola sforzi di gentilezza alla signora.

Che poi, a dirla tutta, non è che l’empatia con i pazienti sia proprio la mia miglior virtù… Mi auguro che il midazolam della premedicazione (tanto midazolam!) la immerga nell’oblio e nell’amnesia. E ringrazio il santo propofol, quando il sonno profondo mette un muro tra lei e quell’idiota che dice “Certo che a quell’età lì una dovrebbe saperlo come si rimane incinte, no?”.

Perché, durante un’emicolectomia, non sento mai dire “Certo che di questi tempi lo sanno tutti che le carni rosse e i salumi fanno venire il cancro, no?”

Cinque minuti. Tutto questo teatrino per cinque minuti di intervento. Pago il mio buon midazolam con un risveglio un po’ più lento e poi a letto.

Il pomeriggio prosegue e anche le mie riflessioni. Mi chiedo se sia stato un caso: una congiuntura di persone particolarmente stupide tutte nello stesso turno? Può darsi, conosco tanti colleghi che non si sarebbero comportati così. Ma se un giorno ci fossi io lì, nuda come un verme? Un preservativo bucato, una pillola saltata, una spirale dispettosa…la mia obiezione di coscienza…mi addormenterei sapendo che, appena chiusi gli occhi, qualcuno si farebbe i cazzi miei.

Passano le settimane. Mi capita di leggere un libro, ormai un “vecchio” libro: “Lettera ad un bambino mai nato“, 1975. Beh…non è poi un vecchio libro: forse oggi che una madre sia formalmente signora o signorina importa meno di allora, ma per il resto sembra che in quelle cento pagine si svolga il mio anacronistico pomeriggio di guardia. Ed è triste.

Leggo: “…Il suo delitto non ha attenuanti, signori. Perché lo commise in nome di una illegittima libertà…”

Mi chiedo, nel 2011, come e da chi una qualsivoglia libertà possa essere ancora dichiarata illegittima.

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amami, Alfredo

Posted by blue dolphin on gennaio 19, 2011
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Alfredo ha 55 anni, una moglie simpatica e una figlia adolescente.
E’ ricoverato in rianimazione da oltre 3 mesi, battendo svariati record provinciali e regionali. Ha all’attivo una fibrosi polmonare occupazionale, una cardiopatia dilatativa, uno shock settico e due arresti cardiaci, da cui il meritato nomignolo di Highlander. A vederlo, soprattutto quando è in buona, non lo diresti… certo, le masse muscolari sono solo un vago ricordo, la crymine lo ha indebolito tanto da renderlo quasi incapace di parlare, tanto che la cannula fonatoria giace spesso inutilizzata nell’apposita scatolina e il colorito non è dei più sani, ma in realtà il nostro eroe è stato dichiarato dimissibile da settimane. Eppure anche stanotte è qui. Eccoci all’annoso problema: quei fantasmi dei “reparti a bassa intensità di cure” che, a quanto pare, esistono solo sulla carta, anche in questa regione così figa dal punto di vista sanitario (dicono…). Nei fatti, nessuno è in grado di prendersi cura di Alfredo, della sua tracheostomia e del suo ventilatore domiciliare, come i molteplici e spesso drammatici tentativi di trasferimento hanno dimostrato: Alfredo è sempre tornato al mittente, talvolta ripreso per i capelli, con un’espressione allucinata e colpevolizzante del tipo “ma dove accidenti mi volevate mandare?? vi sembro uno da corsia?”. Perplessità comprensibili, ma… che fare? Con tutto il bene che ti vogliamo, Alfredo, dove ti mettiamo? La soluzione è per ora una lunga lista d’attesa in una “struttura speciale”. Nessuno sembra veramente convinto e l’attesa sta diventando secolare, ma se qualcuno ha un’idea migliore, batta un colpo per favore.
Per il momento, insomma, il Nostro resta in famiglia. E non si limita a governare il proprio box, ma da lì ci sorveglia tutti, reclama le nostre attenzioni battendo le mani (gli facciamo il verso: “cameriere, il conto!” e lui ci risponde con un garbato segno dell’ombrello) e commenta con pollice verso l’arrivo dei medici che gli stanno antipatici (non ho ancora capito cosa diamine pensi di me…). Non solo: dal proprio trono giudica, con inequivocabili espressioni del volto, l’arrivo degli altri pazienti, in un turnover che – per fortuna – gli porta dei vicini di casa nuovi quasi ogni giorno. Sembra una zitella inacidita che osservi il via vai di gente dal balcone: faccia indifferente, forse un po’ snob, per i banali postoperati; espressione mesta per i neurolesi; disgusto per i politraumi; rassegnato scuotimento del capo per chi secondo lui non ce la farà… e c’è da dire che è diventato più bravo di qualunque score multiparametrico!
Ma quello che veramente lascia esterrefatti è guardarlo mentre si gestisce le proprie invasività: si aggiusta le medicazioni del cvc che non lo convincono e quando gli gira, scelto il sondino più opportuno, si broncoaspira con gusto le secrezioni, dopo aver sconnesso con attenzione il circuito dalla tracheo. Uno spettacolo! Intendiamoci, nessuno gli ha mai chiesto di farlo. Ma lui è ostinato e ci si impegna, un po’ per sentirsi autonomo, un po’ perchè forse si annoia; e poi, insomma… credo che lo farei anch’io al suo posto. La tracheo è mia e la gestisco io!
Il suo stato psichico è spesso un problema. E’ difficile immaginare di passare 3 mesi in una rianimazione, 2 dei quali in piena coscienza: perdi la consapevolezza della notte e del giorno, i tuoi ritmi circadiani si confondono col cambio turno degli infermieri, sei condannato ad un inquinamento acustico spesso assordante e soprattutto aspetti senza sapere bene cosa, quando e soprattutto perché. L’assistenza psicologica e la terapia antidepressiva qualcosa fanno, ma spesso Alfredo si scoraggia, a volte piange, a volte sillaba con le labbra “tanto muoio”; a volte invece per fortuna si arrabbia, ti manda a fanculo senza motivo e poi sembra stare decisamente meglio.
La sera, dopo che sua moglie se ne va, è il momento della tv. Non ne ha sempre voglia. Spesso scrive sulla sua lavagna “ma perchè paghiamo il canone?”. Sempre lucido, senza dubbio…
Stasera sono reperibile e mi hanno incastrato. Tra 20 minuti vado in sala. Ho mangiato qualcosa e ci sarebbe giusto il tempo di guardare un po’ della mia telenovela preferita. Sia ben chiaro, non che io la guardi spesso, ma ogni tanto, per svagarmi un po’… e poi stasera Angela e Franco si dovrebbero rimettere insieme, è un puntatone. Mi affaccio nel box di Alfredo, aria assente e depressa: “che guardi?”. Scuote la testa con indifferenza. “Ti scoccia se cambio?”. Fa spallucce. Mi appoggio al letto, monopolizzo il telecomando e seguo rapita le commoventi scene d’amore-vendetta-ritorni di fiamma, dimenticandomi quasi del mio ospite, che comunque non si ribella alla cosa. Dopo un po’ si affaccia il collega di guardia, il vice-capo: “ma tu non dovevi andare in sala? e che è sta roba trash che guardate??”. Mi sveglio dalla trance e davanti al mio serissimo Responsabile, un po’, sinceramente, mi vergogno. Ed ecco l’idea geniale e perversa: “Facevo compagnia ad Alfredo…il programma l’ha scelto lui!”. Gli faccio l’occhiolino e scappo in sala, mentre lui scuote la testa in segno di profonda disapprovazione. Tanto la fonatoria non ce l’ha neanche stasera, non farà la spia…

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sogno di una notte di mezza estate

Posted by blue dolphin on ottobre 03, 2010
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Notte di Agosto. La terra restituisce all’aria il calore accumulato durante il giorno; un vento leggero scuote le chiome dei pini. I grilli coprono con prepotenza ogni altro suono. Le stelle cadono in silenzio, promettendo sogni a chi ne colga la scia.
Ovviamente tutto questo lo posso solo immaginare, visto che è da poco prima che il sole tramontasse che sono chiusa in sala operatoria. E per come si sta mettendo, temo che mi dovrò immaginare anche l’alba. Benvenuti nel mondo notturno degli anestesisti.
E’ la mia ultima notte di guardia in questo ospedale rosso e grigio, gioiello vintage dei mitici anni ’70, in una sola parola brutto, ma così brutto che dopo un po’ ti fa anche tenerezza, figlio senza colpa di un crudele architetto daltonico. Sarà che da domani questo ospedale me lo sarò lasciato alle spalle (per sempre?), ma stasera mentre lo vedevo avvicinarsi parcheggiando l’auto, mi sembrava quasi bello. Senza contare che gli interni non sono poi così male, in fondo…
Sto per ricominciare tutto da capo: nuovo ospedale, nuovi corridoi, nuove sale, nuovi colleghi. Impossibile non farsi prendere dalla malinconia: qui ho fatto il mio primo incarico, fresca fresca di specializzazione, vivendo le prime piccole gratificazioni professionali, i primi tragici disastri (e dubito che saranno gli ultimi…), quelle prime gelide mattine invernali a strisciare il badge, con addosso la consapevolezza che, da quel momento, sarei stata sola con i miei pazienti, la mia autonomia decisionale e le mie responsabilità… Conseguenza inevitabile di tale consapevolezza mattutina, il puntualissimo e subitaneo aumento del transito intestinale, che mi costringeva (tutti i giorni per i primi 2 mesi) ad una necessaria sosta in bagno subito prima di gettarmi nella mischia quotidiana. Poi la paura ha lasciato progressivamente il passo ad una controllata agitazione, con il vantaggioso risultato di trasformare i minuti dedicati alla toilette in ricche colazioni al bar dell’ospedale.Ricorderò con affetto anche la mensa aziendale, la vera prova del fuoco per ogni neo-assunto. Credo che nessun altro luogo all’interno di un’azienda – sanitaria o meno – rifletta la popolarità o l’impopolarità di un dipendente, come la mensa. Vestiti in borghese (divieto assoluto di indossare qualunque indumento sanitario), siamo tutti nudi, senza quel confortante travestimento verde o bianco che ci consente, tutti i giorni, di calarci in un ruolo.
La gerarchia viene completamente stravolta: non esistono dottori, infermieri, amministrativi, né tecnici: strano a dirsi, ma senza divise è difficile riconoscersi, soprattutto quando si è arrivati da poco. I primi tempi non sono ancora molti quelli che mi conoscono, sono ancora di meno quelli con cui la pausa pranzo riesce a coincidere, e dei pochi rimasti quasi nessuno mi riconosce, senza cuffietta: in seguito saprò che la gente, per un motivo che tuttora ignoro, sotto la mia cuffia rossa, immagina un caschetto nero e liscio tipo Valentina di Crepax (sic!) e non la massa scomposta di capelli castano rossicci. Dopo pochi timidi tentativi di salutare qualche faccia nota da lontano, mi arrendo di fronte ai volti poco interessati dei presenti. Forse non mi hanno riconosciuta o più semplicemente non vogliono mangiare con me -penso nel delirio di persecuzione che mi assale tutte le volte che mi trovo in un posto nuovo… Ed ecco spiegati i miei pasti solitari.
Sembra uno di quei telefilm americani, in cui alla mensa della High School fa bella mostra di sé il tavolo dei più fighi: giocatori di football e cheer-leader (i chirurghi vascolari e le ostetriche, ovviamente), mentre la sfigata che suona nella banda della scuola appoggia il vassoio traballante sul tavolo in fondo, sperando con tutto il cuore di non inciampare durante il tragitto. Il che mi promuoverebbe da trasparente a decisamente sfigata.
Ma ecco che con il passare delle settimane, le mani si cominciano ad alzare in segno di saluto, i colleghi chirurghi iniziano a farsi una ragione del fatto che io non abbia un caschetto né nero, né tantomeno liscio, invitandomi al loro desco ed il pranzo diventa finalmente un momento piacevole per fare due chiacchiere su qualcosa che non sia necessariamente il lavoro.

Trascorsi i mesi, sono passata decisamente a rapporti amichevoli con gran parte del personale, il che, in una città chiusa come questa (la mia, del resto) è un mezzo miracolo. Da cui il dispiacere e la fatica all’idea di ricominciare tutto dall’inizio. Ma fino a domattina… gioco ancora in casa!
Sono stati tutti molto affettuosi in questi giorni e per la mia ultima guardia mi sento particolarmente coccolata. Ricevo un sacco di complimenti, alcuni dei quali forse poco professionali, ma vabbè, i chirurghi son chirurghi anche nei momenti nostalgici e poi stanotte lasciatemi vivere il mio piccolo Amarcord!
Non mi dispiace affatto questo ruolo da piccola del gruppo… certo, all’inizio è stata dura far capire a medici e infermieri che non avevano davanti una specializzanda, né tantomeno una nuova infermiera (ma insomma, lo stetoscopio al collo cosa lo porto a fare??), bensì un’anestesista che senza make-up non riesce a dimostrare più di 24-25 anni neanche se si sforza (e poi, perchè si dovrebbe sforzare?). Stessa cosa per i pazienti, che, soprattutto nella fascia 50-70, di fronte ad un medico giovane sono spesso scettici. Forse perché abbiamo l’età dei loro figli e siamo per questo poco convincenti come adulti? Effettivamente mia madre sarebbe la prima, nel vedermi lavorare, a non prendermi sul serio e pensare che io abbia ancora 7 anni e stia giocando al dottore. E come dimenticare quell’ortopedico un po’ sbadato che, fatte le presentazioni, mi guarda con stupore e diffidenza e mi chiede – senza alcuna ironia, ahimè – “Scusa ma almeno sei maggiorenne?”.
Eppure, chiariti ruoli e competenze, essere “la minorenne” del comparto non è più stato un handicap, ma un modo affettuoso per scherzare nel gruppo, senza mai sentirmi mancare di rispetto per questo.
I colleghi del pomeriggio si sono congedati con tante pacche sulle spalle, promesse di mantenersi in contatto, augurio di una luminosa carriera e magari, chissà, di lavorare di nuovo insieme.
Nel frattempo chiamano dalla rianimazione: mi chiedono se mi devono aspettare per la cena… rispondo sconsolata di aspettarmi per la colazione. Ho fame!
Chissà come sarà la mensa del mio prossimo ospedale…

Blue Dolphin

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