Mi piace pensare

Posted by folfox4 on marzo 08, 2017
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La notte del 13 agosto del 1980 ero di guardia come anestesista-rianimatore presso l’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli (RM). Allora la guardia notturna era coperta da un unico medico sia per il reparto di Rianimazione che per la sala operatoria, con un reperibile fuori, pronto a raddoppiare per ogni necessità. Tra le 23.00 e le 23.30, dopo la visita serale ai malati di Rianimazione, ero andato a prendere un caffè con i colleghi infermieri della sala operatoria.

Ci affacciammo tutti e tre, la ferrista, l’infermiere di sala e io alla finestra posta alla fine del corridoio della sala operatoria che dava sul piazzale dell’ospedale. L’ausiliario ascoltava musica da una radio transistor poco distante.

Mentre si parlava del più e del meno, in sottofondo, il suono di una sirena di ambulanza incominciò a farsi strada nelle nostre teste.

Meccanicamente, la ferrista si fece indietro e si avviò nella sala di chirurgia d’urgenza. L’infermiere scosse l’ausiliario che andò a chiamare l’ascensore. Io entrai in sala per verificare che il respiratore, la monitorizzazione, i farmaci per l’anestesia e i fluidi fossero tutti disponibili. Saliva per i tornanti che dalla statale Tiburtina vengono verso Tivoli, e il suono era sempre più intenso.

La ferrista , l’infermiere di sala e io ci guardammo.

Capimmo, non so sulla base di che cosa, che era per noi, ma anche che non sarebbe stato semplice. Come da regola, l’ausiliario scese in Pronto per la prima occhiata. Confermò al telefono che era per noi. E nemmeno una roba semplice. Salirono in ascensore i ginecologi, il medico del Pronto la barella con sopra una ragazzina di 15 anni si e no.

Sul lenzuolo davanti alle cosce una pozza di sangue. Lei pallida respirava a fatica. Gli occhi sbarrati. Sudata fradicia.

Quando fummo in grado di iniziare la pressione arteriosa sistolica era di 60 mmHg e la frequenza cardiaca di 160 bpm.

La mettemmo sul tavolo operatorio direttamente col lenzuolo della barella.

Tra le gambe un muccio di anse intestinali.

Aprendo l’addome fu chiaro che l’utero era stato sfondato durante una manovra di raschiamento dell’utero per interrompere una gravidanza e invece del feto quello che era stato tirato via era l’intestino.

Morì dopo una settimana di alterne vicende legate a uno shock settico che andava avanti e indietro senza risolversi mai definitivamente.

Per inciso era una Rom.

Io sono diventato non obiettore così. Io non ho avuto modo di fare equilibrismi intellettuali. Io ho dovuto scegliere se stare dalla parte del Sistema Sanitario Nazionale o della mia coscienza che, detto tra noi, all’epoca nemmeno se l’era posto il problema.

Ho scelto. Sono diventato abortista. Anestesista abortista. Ospedaliero. Dopo non è stato facile. E c’è stato un momento in cui ho dubitato della mia scelta. Come al solito ci si sente un po’ male quando troppo è troppo.

Poi le statistiche dicono oggi che il tasso di abortività nel nostro Paese si è ridotto significativamente.   Sono contento perché se io e tutti quelli che come me hanno continuato in quegli anni non avessero tento duro, quel tasso di abortività sarebbe rimasto confinato ai tavoli da cucina delle mammane. Anche a questo abbiamo posto rimedio. Non abbiamo completamente risolto. No. Ma quella roba che ho visto io la notte del 13 agosto del 1980 oggi mi piace credere che nessun medico la veda più.

Questo è ciò che conta per me.

Io ho scelto di fare il medico.

Folfox4

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Ora so

Posted by folfox4 on luglio 22, 2015
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Ora so.

Attraverserò ogni giorno

come se fosse l’ultimo.

Il viaggio è iniziato.

I cavalli neri

sono in testa.

Un sottile brivido

freddo

mi accompagna.

Il sole

ha iniziato a scendere.

Anche se ancora caldo.

Ora so

dove sto andando.

Tutto è ora chiaro.

Gli abiti per presentarmi

erano già pronti

d’altronde.

I bambini giocano

a pallone nel campo

ora so che il tempo

Si misura per secoli.

 

Folfox4

La costante di Fidia (o del λόγος della proporzione)

Posted by folfox4 on novembre 20, 2014
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Sezione aurea

 

https://www.youtube.com/watch?v=5EG3s7lDOyY

La sezione aurea, o costante di Fidia o proporzione divina, indica il rapporto fra due lunghezze disuguali, di cui la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due.[1]

L’uomo, cogliendovi l’ideale di armonia e di proporzione che esiste tra grandezze progressivamente crescenti, o tra contrari dialetticamente connessi, l’ha proposta nel tempo in differenti contesti culturali, creandone un canone di bellezza (aureo appunto, divino): in filosofia, nella musica, in matematica, nelle arti figurative, nel diritto, ma anche in medicina.

Nel Simposio, Platone fa dire al medico Erissimaco che la medicina è proporzione: un pensiero armonico in grado di cogliere la struttura complessivamente ordinata del corpo, analizzandola sia come proporzione delle parti in sé stesse che come equilibrio morfologico e funzionale delle parti tra loro.

Questa idea della proporzione non si fonda sui criteri della scienza galileiana, bensì su quella modalità del pensiero che procede dalla percezione del mondo all’idea del mondo, e viceversa.

In opposizione al principio dell’armonia o della proporzione, ma assieme, costituendone il lato in ombra, un altro principio abita l’animo umano: quello della forza.

La forza reifica l’uomo: lo può uccidere facendone un cadavere, oppure, in un modo ben più prodigioso e tremendo, lasciandolo vivo. In questo caso lo minimizza ai suoi bisogni vitali, ne annulla la vita interiore, gli infligge una morte che si prolunga per tutto il resto della vita.

Il potere della forza di reificare gli uomini colpisce però non solo quelli che la subiscono, ma anche quelli che la usano, poiché questi ultimi ritengono di avere essi sì, essi soli, ogni diritto. Si genera allora una cesura netta tra il forte e il debole che non si riconoscono più come appartenenti alla stessa specie.

In quell’esatto momento, nel momento in cui il forte s’inebria della sua stessa forza, egli valica il limite: crede di possedere la forza. Il λόγος della proporzione ne è ottenebrato.

Ma nessun essere umano, per quanto forte, smette di essere umano e quindi fragile. Così nessuno possiede la forza veramente, e coloro cui è stato dato di usarla periranno a loro volta.

Il corso della vita è tutto rappresentabile in questo moto pendolare: il vincitore dimentica di proporzionarsi al vinto e, reificandolo, è vinto egli stesso. È ridotto egli stesso, dalla forza, a una cosa.

Dalla seconda metà del secolo scorso gli sviluppi conseguiti nei settori della farmacologia e della biotecnologia spingono continuamente la medicina a subordinare la pianificazione delle cure per la singola persona malata al continuo spostamento in avanti dei limiti delle capacità delle scienze biologiche di vincere la malattia e procrastinare la morte.

Di conseguenza, elevare a valori unici di riferimento la riduzione della mortalità da un lato, e il prolungamento della sopravvivenza dall’altro, ha fatto smarrire il senso profondo del concetto di proporzione e il criterio della proporzionalità da esso sotteso – proporzione come misura di sé, proporzione del rapporto, proporzione alla persona – considerati da sempre nella tradizione medica, aspetti essenziali della sua identità epistemologica e etica in quanto criteri costitutivi di una buona medicina.

Di pari passo la forza si è impossessata del pensare e dell’agire medico.

Il curare e il prendersi cura, entrambi espressione di una relazione umana di confine in cui una persona s’impegna intenzionalmente e chiaramente a promuovere il benessere di un’altra, si riducono, in una casistica sempre più ampia, all’esercizio della forza, tramite il quale il termine benessere perde il senso profondo del legame alla misura del possibile, alla sua capacità di essere medio proporzionale tra altre grandezze, per spingersi alla ricerca di un assoluto impossibile.

La rappresentazione e la percezione di questo scenario si sostanziano nell’immagine di corpi reificati, mantenuti in vita meccanicamente nonostante l’evidenza della morte biologica, spesso già avvenuta, di parti paradossalmente essenziali alla vita stessa.

Ma anche chi cura, o chi si prende cura, se non è in grado di cogliere il confine, è reificato e sconfitto dalla forza.

Così, chi cura è anch’esso annichilito dallo spettacolo di quei corpi ai quali si è indissolubilmente legato con il vincolo stesso alla sopravvivenza che gli ha imposto. Egli è obbligato ormai a un crescendo di azioni, sordo a ogni richiamo a rinvenire un senso in quell’agire i corpi dei più deboli.

Come gli eroi superstiti dopo la battaglia, si guarda intorno, e constata che non vi sono né vincitori né vinti, e si interroga.

Si chiede se la sua ύβρις valesse quelle vite amputate o quelle morti.

Anche le domande dell’eroe, tuttavia, appartengono al mondo della forza, perché egli recupera solo a posteriori, nel tono di luce di una coscienza crepuscolare, il criterio della proporzionalità.

C’è infatti un’iterazione nel suo pensiero, ricorrente e circolare; come se la disfatta dell’agito non fosse mai sufficiente a sé stessa per indurre, una volta per tutte, una modificazione dell’impianto morale e quindi della condotta dell’agente. In questi casi l’eroe afferma: “ non ci sono certezze assolute ”.

Simone Weil scrive in un saggio sull’Iliade: “ il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come sé stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. Nulla è più raro di una giusta espressione della sventura.

Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a sé stessi; seppero così toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, purezza, semplicità. Ma nessuno è andato oltre: tanto i Romani che gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana… Anche lo spirito del Vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Il martirio, presentato quasi come una gioia, è frutto d’illusione o fanatismo.

L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima.

La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita.

Il genio epico della Grecia non è risorto nel corso di 20 secoli … Gli uomini lo ritroveranno quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi arriveranno a non ammirare mai la forza … È dubbio che ciò sia prossimo ad accadere ”.[2]

Queste riflessioni indotte da storie estratte da un personale repertorio sperimentato in un reparto di Terapia Intensiva, costituiscono, almeno per me il senso, prosciugato di ogni inutile rivolo, del tema della relazione di cura: riscoprire e assecondare il λόγος della proporzione consentirà di comprendere che senza di esso la cura si riduce a elementare applicazione di una τέχνη terapeutica, cosa appunto s-misurata perché non proporzionata alla persona del malato, ma riferita da un lato alle potenzialità della stessa τέχνη e, dall’altro, alla forza dell’eroe che la usa, inebriata di sé tessa.

Non dunque proporzione per un vero progresso, ma esplosione di forza per un mero sviluppo.

Folfox4

[1]. A. Scimone. La Sezione Aurea. Storia culturale di un Leitmotiv della Matematica. Sigma, Palermo, (1997).

[2]. S. Weil. La Rivelazione Greca. Ed. Biblioteca Adelphi, Milano (2a ed., 2014)

Shlomo

Posted by folfox4 on luglio 10, 2013
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24 luglio 2011
Quel giorno in medicina d’urgenza fu ricoverato per un’insufficienza respiratoria acuta Salomone (Shlomo) Venezia.
Shlomo Venezia, nacque a Salonicco il 29.12.1923 ma di nazionalità italiana, fu un sopravvissuto di Auschwitz dove fu internato perché ebreo.
Fece parte dei sonderkommando (“squadre speciali”); i gruppi scelti tra gli stessi deportati, addetti allo svuotamento delle camere a gas dai cadaveri e al loro trasporto/scarico ai forni (per il solo campo di Auschwitz si calcolano oggi circa 1.300.000 – 1.500.000 morti).
Dopo esser tornato indietro, Shlomo Venezia rese una costante testimonianza scrivendo – tra gli altri – un intensissimo libro: “Sonderkommando Auschwitz” ed. Rizzoli, 2007.
La nuora, una collega, chiese il nostro aiuto. Il medico di guardia ed io andammo.
Il signor Venezia – portatore di esiti di fibrotorace sinistro – aveva vissuto fino a allora in discreta buona salute e, soprattutto, lucido.
L’ultima conferenza l’aveva tenuta, sembra, circa quindici giorni prima.
Da allora era in affanno con un progressivo aumento della PaCO2 fino ad arrivare la mattina prima a valori tra 120 e 98 mmHg.
Quando arrivammo era già in NIMV ma in carbonarcosi. L’emodinamica era stabile, la PaO2 sufficiente, con una SatO2 = 100% per FiO2 0.4.
Come spesso capita ai grandi anziani in alcune parti del corpo la cute era talmente esile ed anelastica da rompersi generando una trasudazione sieroematica; così il braccio sinistro portava una fasciatura.
Quando la rimossi per cercare una vena un po’ più robusta potei vedere il suo numero: 182727, color antracite, alto circa 1,5 cm e lungo circa 6 cm.
La moglie ci riferì che il signor Venezia non avrebbe mai voluto per sé cure sproporzionate.
Il medico di guardia espose alla signora i nostri dubbi circa la possibilità che trattandosi di un fatto acuto, un trial di ventilazione meccanica invasiva avrebbe potuto aiutarlo ma che se le cose fossero andate male certamente si sarebbe potuto aprire un percorso irto di difficoltà (tracheotomia?) e noi su questo non avremmo potuto ovviamente dare garanzie.
Alla parola “tracheotomia” la moglie del signor Venezia ci confermò che mai il marito avrebbe voluto per sé questo.
Nel frattempo la NIMV – per quanto applicata in questo caso in modo non appropriato per la carbonarcosi, e ormai di fatto una PCV – stava facendo scendere lentamente ma progressivamente la PaCO2, contribuendo alla normalizzazione del pH.
Accettammo la sfida e rispettammo la volontà del signor Venezia.
Nel pomeriggio fu ricoverato in Unità di Terapia Intensiva Respiratoria dove mantenne per tutta la notte la NIMV continuando a ridurre la PaCO2 e a correggere l’acidosi, fino a riacquistare l’indomani mattina un soddisfacente ripristino dello stato di coscienza ed una PaCO2 compatibile con la sua patologia.
Poi leggete anche questo brano:
«Altre volte mi hanno chiesto, per esempio, se qualcuno sia mai rimasto vivo nella camera a gas. Era difficilissimo, eppure una volta è rimasta una persona viva. Era un bambino di circa due mesi. All’improvviso, dopo che hanno aperto la porta e messo in funzione i ventilatori per togliere l’odore tremendo del gas e di tutte quelle persone – perché quella morte era molto sofferta – uno di quelli che estraeva i cadaveri ha detto: “Ho sentito un rumore”. Normalmente quando uno muore, dopo un po’ finché non si assesta, il corpo ha dentro dell’aria e fa qualche rumore. Abbiamo detto: “Questo poverino, in mezzo a tutti questi morti, comincia a perdere il lume della ragione”. Dopo una decina di minuti ha sentito di nuovo. Abbiamo detto: “Tutti fermi, non vi muovete”, ma non abbiamo sentito niente e abbiamo continuato a lavorare. Quando ha sentito di nuovo, ho detto: “Possibile che senta solo lui? Allora fermiamoci un po’ di più e vediamo cosa succede”. Infatti, abbiamo sentito quasi tutti un vagito da lontano. Allora uno di noi sale sui corpi per arrivare laddove veniva il rumore e si ferma dove si sente più forte. Va vicino e, insomma, là c’era la mamma che stava allattando questo bambino. La mamma era morta e il bambino era attaccato al seno della mamma. Finché riusciva a succhiare stava tranquillo. Quando non è arrivato più niente si è messo a piangere – si sa che i bambini piangono quando hanno fame. Il bambino era quindi vivo e noi l’abbiamo preso e portato fuori, ma ormai era condannato. C’era l’SS tutto contento: “Portatelo, portatelo”. Come un cacciatore, era contento di poter prendere il suo fucile ad aria compressa, uno sparo alla bocca e il bambino ha fatto la fine della mamma. Questo è successo una volta in quella camera a gas. Ci sono tanti racconti, ma io non racconto mai cose che hanno visto gli altri e non io. »
Shlomo Venezia è morto a Roma il 1 ottobre 2012
Folfox4
Nota per gli addetti ai lavori eventualmente interessati:
Mi permetto di invitarvi a leggere due articoli dove a mio avviso si sistematizza in modo chiaro e utile l’uso della NIMV sia in termini di supporto vitale per superare l’insufficienza respiratoria acuta in una serie di specifici casi (cosa più nota), sia in termini di palliazione (cosa meno nota):

-È. Azoulay et al. Palliative noninvasive ventilation in patients with acute respiratory failure Intensive Care Med (2011) 37:1250-1257

-J. Randall Curtis, et al. Noninvasive positive pressure ventilation in critical and palliative care settings: Understanding the goals of therapy Crit Care Med (2007) 35: 932-939

A quest’ultimo proposito nella tabella 1 del secondo articolo si dimostra che, pur non avendola letta prima, il medico di guardia ed io collocammo correttamente il signor Venezia nella categoria II con possibilità di shift verso la categoria III che comunque non ci fu.
Sono contento. Ma penso che il collega d guardia, quello che prese materialmente le decisioni, possa ancor oggi esserlo ancor di più!

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Streptococcus pneumoniae

Posted by folfox4 on giugno 25, 2013
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E.V.  n.1890, m.1906 – Cimitero monumentale di Campo Verano in Roma

E.V. n.1890, m.1906 – Cimitero monumentale di Campo Verano in Roma

E.V. è morta all’età di 16 anni di polmonite – era la primavera inoltrata del 1906 – la giovane era già orfana di padre e madre ed era stata adottata da un’altra famiglia che però doveva conoscere la sua di origine perché il patrigno e la matrigna scrivono sulla lapide che la vollero sepolta accanto ai suoi cari.

In quell’angolo,

Ogni cosa è conclusa.

È solo silenzio.

In quell’angolo,

La pace,

Sembra ferma,

Ora,

Nell’aria.

L’angoscia,

Languida,

Si ritira.

Umida.

Lenta.

Come stanca marea.

Gli occhi affaticati.

Precoci.

Profondi.

Fermi.

Oscuri,

Fissano,

Lontano nel tempo.

Pieni dell’antico dolore.

Nel verde cupo,

Degli alti alberi eterni,

La luce di quel mattino,

Cristallo freddo,

Filtrava, limpida.

Tersa.

Come il palpito

Della tua piccola estate.

L’insulto

Dell’ansimo,

Alla fine cessò.

D’incanto.

Quel grido,

Ultimo.

Muto.

Solitario.

Riecheggia,

Fermo,

Nel tempo.

Ogni errore,

Ora,

È compiuto.

Dietro il piccolo tempio,

Lungo l’ultimo stretto viale.

In quell’angolo,

Ora,

Ogni cosa è conclusa.

È solo silenzio.

Folfox4

Da qualche tempo ho preso a curare le tombe dei miei cari e così, passeggiando per questa vera e propria “città” (il cimitero di Campo Verano), vado fantasticando un po’ lasciandomi suggestionare dalle immagini, dagli angoli e dalle atmosfere che ancora in certi punti si possono apprezzare – in uno di questi punti, un po’ nascosta,  c’è la tomba di E.V., ormai abbandonata –  La lapide è quasi illeggibile ma pare che la nostra sia morta di polmonite – E’ come se il momento del passaggio tra la vita e la morte di alcune persone possa rimanere immortalata, simile a un cristallo di tempo sospeso nell’aria e quell’ultima scena si perpetui invisibile –  Questo mi è sembrato di cogliere spesso sul viso dei morenti e questo ho di nuovo colto in quell’angolo del cimitero di Campo Verano guardando la foto di E.V.

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Il nostro caro Francesco

Posted by folfox4 on settembre 14, 2012
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foto di H. Cartier-Bresson

foto di H. Cartier-Bresson

E’ l’ultima continuità. L’ultimo giorno.

Poi vado in pensione.

E’ il loro unico figlio. Impiegato in uno dei tanti ministeri romani. Da trent’anni per lo meno. Non si è mai sposato. Ha sempre vissuto con loro. Una casa piccola, sull’ardeatina.

Ora potrebbe anche morire. Precedendoli.

Prima di uscire a dirgli del “nostro caro Francesco”, li guardo dal vetro.

Stanno seduti, appoggiati al muro. Sono molto vecchi.

Lo sguardo lontano.

Frugo nella memoria. Dove li ho visti? Chi me li ha fatti già vedere?

Eppure li conosco già. Non perché ho parlato con loro tutta la settimana.

Perché erano già entrati dentro di me in un tempo precedente. Quando? Già, quando …

“Credo che siano in pantofole. Non con le scarpe, hanno messo le pantofole per venire tutti e due; lei e lui, sono venuti in pantofole, le stesse, di feltro grigio o marrone, chissà.

E per il fiume cui danno le spalle, come talvolta si danno le spalle quando non funziona niente, non può veramente funzionare, hanno un’aria triste e preoccupata, a meno che lui non sia solo stanco, si potrebbe dire amareggiato, non inventeremmo niente dicendo amareggiato. Vedendo tutto quel grigio, si direbbe che sia arrivato l’autunno, cioè tra un po’ inverno, tra un po’ è inverno, sull’albero resta ancora qualche foglia. Potrebbe anche essere la fine dell’inverno, quando l’aria si stempera, e si dice che sarebbe bello uscire e prendere un po’ d’aria dolce, sì, potrebbe essere la fine dell’inverno ed è rimasta qualche foglia sull’albero come talvolta resta nell’inverno. Non c’è nemmeno il sole e nessuna ombra da cercare, tepore, una dolce luce sotto le fronde, non è per la luce o l’ombra che ci troviamo qui. È per l’albero malgrado tutto, c’è l’albero accogliente e ci appoggiamo su di lui. Ci appoggiamo. Sì forse è quello che dicono, non fa tanto caldo, ecco perché hanno fatto bene a mettere il cappotto, forse è proprio quello che hanno detto, chissà, ora tacciono, non c’è né sole né ombra, non fa molto caldo, ma c’è l’albero, verticale, accogliente, con la corteccia grossa e rude.

Vengono a guardare e a prendere l’aria del fiume. Le sponde, i cantieri, i battelli che non sono distanti, si può supporre. E poi il ponte. Il ponte di ferro al posto dell’altro, distrutto forse non tanto tempo prima, forse hanno parlato dell’altro ponte, quello di prima di cui si ricordano, di tutte le cose di cui si ricordano, forse vengono qui dov’era il vecchio ponte, dove un tempo – quando venivano con le scarpe, quando non andavano così in pantofole – il ponte di pietra o un altro, chissà non si sa da quanto tempo si trova lì il ponte di ferro, non si sa da quanto tempo ora stanno zitti, guardano dall’altra parte, dall’altra parte c’è qualcosa che guardano, cosa non si sa, forse anche insieme non guardano nulla. Forse semplicemente si voltano, sì, forse si voltano, non si sa da quanto tempo, tutto quello che sappiamo è che sono qui nell’immagine, che possono trovarsi solo qui a guardare altrove.”

 

Folfox4

 

oggi per domani

Posted by folfox4 on aprile 28, 2011
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LE DIRETTIVE ANTICIPATE DI UN ANESTESISTA-RIANIMATORE

Le un giorno mi succedesse di non poter più scegliere per me e la mia sorte fosse affidata ai miei colleghi, desidero, prima di tutto, che nella fase più acuta della mia malattia sia fatto il possibile per salvarmi: credo nella scienza e amo la vita.

Desidero però che fin dall’inizio il loro impegno non sia profuso acriticamente, ma costantemente ispirato alle migliori evidenze scientifiche da un lato, e al minor grado d’incertezza possibile dall’altro.

Laddove non vi fossero certezze, desidero che sia la buona pratica clinica a guidarli.

Così, chiedo loro di accettarmi in Rianimazione solo se saranno sufficientemente sicuri di poter fare qualcosa per me.

Altrimenti di non farmi soffrire.

Una volta ammesso in reparto, desidero che essi, nel corso della malattia, mantengano costantemente ancorati ad un ben bilanciato rapporto costo/beneficio il giudizio clinico e le successive decisioni.

Per interpretare il senso che io do alla parola “costo”, desidero sia ascoltata mia moglie, l’unica in grado di dire al posto mio per che cosa valga la pena per me vivere.

Quello che in merito posso affermare io oggi è di aver sempre cercato una proporzione tra quantità e qualità della vita.

Per qualità di vita intendo la possibilità di avere coscienza di me nel mondo, memoria di me e dei miei cari, di essere per loro un riferimento affettivo, ma anche un utile appoggio nelle diverse congiunture della loro esistenza.

Non voglio invece essergli di peso.

Durante il periodo di mia “non presenza” desidero che i miei cari possano essermi accanto in Rianimazione senza limiti di tempo, liberamente.

Così, gli si allevierà l’angoscia dell’impotenza, e, vedendomi, si renderanno conto del mio reale stato giorno dopo giorno, facilitando ai colleghi il compito di informarli.

A questo riguardo, chiedo ai colleghi di essere chiari.

Perché i miei cari possano comprendere senza dover sopportare ansie inutili, ma anche senza farsi illusioni.

Ove possibile, sarebbe opportuno che fosse sempre lo stesso medico a rapportarsi: “una faccia, una parola”.

Desidero che i colleghi fondino poi le loro decisioni sulla prognosi, non su ciechi tentativi.

Desidero che ricordino di condividere con i miei cari le scelte terapeutiche che dalla prognosi deriveranno.

La responsabilità di quelle scelte non dovrà né ricadere totalmente sui miei cari, per un malinteso senso di rispetto della mia autonomia, lasciandoli soli a decidere senza gli strumenti per farlo, né dovrà essere avocata totalmente ai colleghi escludendo i miei cari dalla possibilità, in futuro, di ricordare di aver contribuito a fare qualcosa di buono per me.

Se le cose dovessero andare male, una volta maturato il profondo convincimento dell’inutilità di continuare con le terapie, desidero che i colleghi lo dicano chiaramente ai miei cari e condividano con loro la scelta di desistere da ogni ulteriore trattamento, avendola i colleghi stessi, per primi, condivisa.

Desidero che questi ultimi compiano ogni sforzo per far comprendere ai miei cari che l’unico modo per dimostrarmi ancora affetto è lasciarmi morire.

Desidero che i miei cari rispettino questa mia volontà.

In quel momento sarà importante per loro che sia un collegio medico, rappresentativo di quel reparto, a esprimere la prognosi, non un medico solo.

Perché credo che la scelta di lasciar morire sia tanto responsabile quanto angosciosa, e che la solidarietà espressa da una comunità umana di fronte alla morte aiuti tutti i suoi componenti ad affrontarla: familiari dei malati, medici, infermieri.

In questo caso desidero che mi siano garantite una totale analgesia e una profonda sedazione e che mi sia concesso morire con i miei cari accanto.

Se durante la mia malattia dovessi invece rimanere cosciente e consapevole, desidero essere informato di ogni situazione e messo nella possibilità di scegliere io per me.

Di scegliere anche di rifiutare trattamenti vitali, se giudicassi il vivere nella nuova condizione non consono al mio concetto di dignità.

Folfox 4

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un contratto

Posted by folfox4 on dicembre 15, 2010
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Sono seduto su una poltrona simile a quelle che usavano negli anni ’60 nelle barberie.
Insieme ad altri 10 come me, uomini e donne.
Sono un medico e potrei dirne, ma sono anche l’ultimo arrivato in questa comunità e sento di dovere rispetto.
Stanno con le spalle girate al mondo a bisbigliare, mentre dalla finestra scrutano con un filo d’ansia lo skyline di Roma – Portuense.
Taccio e ascolto.
Ciascuno racconta del cancro e della propria strada.
Con pudore, senza sbavature, senza personalismi; i fatti, la storia così come è andata per ognuno.
Un racconto al neon come la luce che c’è qui.
Avevo pensato di farla in casa di cura la chemioterapia, per star da solo e non mischiarmi alla gente; questione di stile.
E se vomito? Meglio da soli.
Qui capisco invece che c’è sempre spazio per la dignità.
Perché è vero: la malattia incattivisce ma l’idea della morte seduta sul bracciolo della tua poltrona nobilita.
Insomma: la morte a suo modo è regale e bisogna essere all’altezza.
Il veleno scorre nella cava superiore; protocollo FOLFOX 4, dosaggio controllato, pompa peristaltica, infermiere professionale ma con l’aria di chi si chiede: ” chissà se sai davvero cosa ti (a)spetta, chissà quanto durerai con quella stupida faccia tosta, ne ho visti di ottimismi … chissà se l’anno prossimo sarai ancora vivo”.
Comunque – secondo linguaggio – non perde cortesia, sollecitudine.
E’ Giovanni; sta lì da 10 anni, altri 10 passati in medicina generale.
E’ rasato a zero; forse – allo stesso modo di un nobile ospite – per non mettere in imbarazzo me e gli altri, penso sorridendo.
Intanto il veleno lavora le cellule e mi sento cambiare come in una sorta di Dr. Jeckyll & Mr. Hide girato al rallentatore.
Comincia il respiro ampio, oceanico, lento, ritmico della nausea.
Sulla cresta dell’onda viene il panico.
Da là sotto, da quella montagna d’acqua corporea che sale e si gonfia, può uscire qualsiasi mostro marino; bisogna reggersi o si rischia di volare fuori bordo.
E’ l’annuncio: sono in mare aperto.
I potenziali d’azione lungo i nervi periferici si animano ed è come se su ogni nodo di Ranvier si accendesse un fuoco di Sant’Elmo; il fuoco che i marinai dicono appaia sull’alberatura prima che la barca affondi; un segno di Dio.
Il fuoco si trasmette fino alle unghie e brucia tutto, anche la gola e la lingua.
Alla fine del trattamento, dopo 72 ore di viaggio, si rientra in porto.
Le braccia dolgono; col mare grosso il timone è duro da reggere sulla rotta.
Le gambe pure fanno male a forza di andare su e giù per reggersi in equilibrio e smaltire il terrore del non ritorno.
In bocca il sapore del metallo succhiato per vena e del sale.
Ma è soltanto il primo viaggio; il contratto con la Compagnia è per 12 uscite.
Non conta se c’è tempesta o no, se fa freddo o piove.
Portare il carico come da contratto, questa è la consegna.
“E … ricordi capitano: ha firmato … 53 anni fa … si è impegnato sul suo onore”.
Questo per un uomo di mare è un vincolo forte.
Poi si deciderà; se la Compagnia mi dovesse proporre un altro contratto potrei anche farmi bastare quanto guadagnato fino ad oggi … d’altronde, a ben vedere, non è poco.

Folfox4

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Federico “ho fatto la mia parte”

Posted by folfox4 on gennaio 26, 2010
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La comunicazione per me più difficile è stata quella che mi sono ritrovato a fare una notte ai genitori di un bambino di 5 anni che giunse alla mia osservazione dopo 3, 4 giorni passati in chirurgia con un’appendicite evoluta in shock settico.
Quando Federico giunse in reparto era allo stremo ed ebbe quasi subito un’arresto cardiaco.
Per non perderlo e prima di andare in sala operatoria furono necessari 45 minuti di rianimazione cardio-polmonare. Quando rianimi qualcuno ed in particolare un bimbo, il cui torace lo tieni tra le mani, ti senti travolgere da un istinto fortissimo quasi incontrollabile che ti spinge a fare qualsiasi cosa per tenere l’essere umano che ti è stato affidato in vita.
La sensazione che provai quella notte fu quella di riversare la mia energia vitale nel corpo di quel bambino. Essendo Federico un bimbo piccolo, la sensazione che provai era quella di essere dentro il suo corpo, come se stessi tenendo tra le mani il suo cuore.
Quando polso e pressione finalmente ricomparvero provai un temporaneo sollievo, come dire: “l’abbiamo ripreso”, “ci stava sfuggendo e siamo riusciti a riacchiapparlo”.
L’infermiera che era con me e con la mia collega mi disse, in seguito, che ritmavo la rianimazione bestemmiando, sinceramente non lo ricordo così come ho dimenticato il corpo e il viso di Federico.
Dopo 45 minuti di rianimazione, travolto dall’imperativo quasi diabolico di tenere in vita Federico ero prostrato fisicamente e psichicamente e senza il tempo di riflettere su ciò che avevo vissuto mi disposi a parlare con i genitori che erano rimasti fuori dalla porta senza sapere costa stesse accadendo.
Li feci accomodare nella stanza dei colloqui e gli dissi che Federico aveva avuto un’arresto cardiaco, che era pressoché morto e rischiava ancora di morire da un momento all’altro.
Mentre parlavo ebbi la sensazione che il padre mi ascoltasse, che in base alle mie parole comprendesse le gravi condizioni del figlio e rimettesse insieme i pezzi dei giorni trascorsi in ospedale, quando probabilmente non si era reso conto della gravità della situazione.
Dal modo in cui mi ascoltava e mi guardava ebbi la sensazione che avesse compreso che ci eravamo veramente fatti in quattro per salvare almeno temporaneamente la vita al figlio.
Della madre invece ricordo lo sguardo ostile, ebbi la sensazione di essere il primo medico che si offriva veramente al dialogo da quando il figlio era stato ricoverato e tutto in lei esprimeva un forte astio nei miei confronti che diceva: “me lo avete ammazzato”.
Fu estremamente duro per me quel colloquio: era evidente che c’erano in scena due dolori distinti, quello dei familiari, certamente centrale e devastante e il mio di operatore dell’ospedale che sentivo sulle spalle la responsabilità di ciò che non era stato fatto, di ciò che non si era compreso tanto che il bambino si trovava in fin di vita.
Il caso clinico di Federico mi metteva paura, il bambino era più morto che vivo immaginavo che la sepsi e l’arresto fossero conseguenti all’appendicite che i chirurghi, inspiegabilmente, per giorni non avevano voluto operare.
Percepivo un forte imbarazzo, mi sentivo in colpa, ci si sente sempre in colpa quando le cose vanno male. Fui invaso da un’intensa sensazione di colpa come se tutto dipendesse da ciò che avevo fatto o mancato di fare nell’assistere il paziente, mi rendo conto che è una specie di delirio di onnipotenza, ma è esattamente ciò che si prova.
Adesso narrando di quella notte mi viene in mente che, per la prima volta da quando avevo 18 anni, mi ritrovavo in un contatto fortemente sentito con un bambino.
Fino a 18 anni avevo sempre avuto una grande intesa con i bambini, se ne incontravo uno ero contento e loro in genere erano entusiasti di me, poi improvvisamente persi questa capacità, era come se inspiegabilmente fossi diventato indifferente nei loro confronti. Questa sensazione di distanza emotiva dai bimbi era sorta in coincidenza con i primi rapporti sessuali quando, sperimentai il terrore di poter avere un figlio.
Ricordo che dopo una delle mie prime esperienze la ragazza con cui stavo ebbe un ritardo e fui colto dall’angoscia fortissima di averla messa incinta. Avevo un pensiero ossessivo che mi martellava la testa: “oddio è incinta, oddio aspetto un figlio”.
L’intensità di quell’angoscia a mio avviso anormale, mi riporta ad una sensazione simile che sperimentai intorno ai 9 anni, quando ci fu il forte rischio di una guerra atomica: era la crisi di Cuba … La televisione bombardava di informazioni ed io ricordo quell’angoscia; delle volte mi dondolavo e dicevo; “Ho paura della radioattività. Ho paura della radioattività”.
Questa stessa sensazione la provavo anche a 4-5 anni, la stessa età di Federico, quando passavo le mie giornate nel grande armadio di legno della nonna; dentro c’era la biancheria, un profumo di lavanda ed io guardavo il mondo sbirciando dalle ante.
Il giorno in cui mi ritrovai a rianimare Federico, ritrovai l’intenso trasporto fisico ed emotivo che provavo per i bambini ma questa volta non stavamo giocando; tenevo tra le mani il suo cuore e provavo a non farlo morire.
L’energia che si è mobilizzata in termini di quantità era la stessa di quando ero giovane solo che questa volta la qualità dell’energia era diversa.
Come dicevo non ricordo l’aspetto fisico di Federico, mentre ricordo bene che quando una settimana dopo lui morì, il primario mi chiamò a casa per dirmi che il padre mi voleva parlare. Sebbene fossi di riposo andai dai genitori, rimasi del tempo con loro e poi per la prima volta da quando ero in rianimazione andai al funerale di un malato morto.
Era giugno, quell’estate andai in montagna, ma i giorni passavano ed io mi sentivo incapace di godermeli, mi sentivo scombinato, aleggiava in me un intenso senso di tristezza che si rischiarò quando tornando giù da cima Tosa, pensai che potevo dedicare una via di ascesa a Federico.
Mi misi d’accordo con Demis la mia guida di Tione di Trento e ad ottobre tornai in montagna e aprii questa via, 150 metri di parete rocciosa, del 5° grado.
Fu una scalata impegnativa, che richiese sforzo, attenzione e molta concentrazione. Dopo 5 ore di scalata mi ritrovai in cima, era stupendo e pensai che quello era il posto adatto dove seppellire Federico, lì poteva riposare e guardare il magnifico panorama che lo circondava.
L’Adamello, la Presanella e giù giù monti fino al massiccio dell’Ortles.
Non ero riuscito a salvarlo, mi sentivo in colpa, mi domandavo se c’era qualcosa di più o di diverso che avrei potuto fare per garantirgli la vita e alla fine era importante per me accompagnarlo alla morte e seppellirlo simbolicamente.
La discesa in corda doppia durò solo 30 minuti e fu estremamente piacevole.
Si era compiuto un cerchio, si era chiuso un ciclo della mia esperienza professionale, da giovane medico a maturo signore che fa il medico. Una vera rivoluzione.
Dopo l’incontro con Federico ho perso una visione un po’ ideale della professione o forse posso dire che ho perso una corazza che mi permetteva di mantenere una distanza dal dolore che mi circondava quotidianamente.
Prima di Federico non avevo mai avvertito così intensamente la sofferenza, come se la vita mi avesse fatto capire attraverso quel bambino che cosa significa caricarsi sulle spalle un essere umano e portarlo verso la vita.
Oggi “sento” la malattia che devasta il corpo dei malati… una lastra, una TAC, un referto degli esami ematochimici, non sono più per me solo parole o numeri… “vedo” il disfacimento dell’organismo.
Questa percezione della malattia mi fa dolore e questo dolore mi fa sentire debole.
Via via nei miei 30 anni di pratica clinica la medicina è molto cambiata divenendo sempre più complessa. La malattia di un essere umano nasce appunto dall’incontro tra uno specifico essere umano con una specifica entità nosologica e questo incontro è unico per cui al medico è sempre richiesto di fare la spola tra quello specifico individuo malato e ciò che scientificamente si conosce di quella malattia.
Ci si muove quindi nell’incertezza di ciò che è meglio fare per quel singolo essere umano che hai davanti alla luce dell'”evidenza scientifica”.
Federico mi è morto
Non sono riuscito a salvarlo
Sono andato a dargli una degna sepoltura

Folfox4

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cosa si sarebbe potuto fare di più?

Posted by folfox4 on febbraio 14, 2009
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Cosa si sarebbe potuto fare di più ?
E’ una domanda che spesso mi ritorna quando è andata male. Dopo 20 minuti di rianimazione do lo stop: “basta ragazzi … è morto; fine.”
Feed-back positivo: “come al solito tutti bravi, e poi era veramente oltre il limite, anzi, troppo siamo riusciti a fare, bravi, bravi tutti davvero.”
Spengo respiratore e monitor; è il segnale, il rito è finito, una specie di ‘ite missa est’ molto ruvido.
Sono le 4.00 del mattino, mi affaccio un minuto fuori.
Piove fitto e sottile, l’aria è calda.
Al mio ospedale lo scirocco arriva dritto dal mare e ne porta l’odore.
Respiro profondo, debbo avvertire la madre e il padre; rientro.
Antonello aveva 16 anni, era malato di leucemia linfoide acuta.
Ricoverato in ematologia per un ciclo chemioterapico; improvvisa crisi aplastica midollare indotta dai farmaci antiblastici; conseguente shock settico e multipla insufficienza d’organo.
Entrato in rianimazione circa 12 ore prima, era stato sottoposto a tutti i trattamenti e le procedure del caso; 16 anni e una leucemia in fase di controllo lo impongono.
Risolta la sepsi, poteva ancora farcela.
Le infermiere stanno ricomponendo la salma.
I loro volti dicono, già a 30 anni, la delusione e la voglia di fare altro nella vita.
Ma solo noi sappiamo com’è quando qualcuno sputa l’anima.
Il cerchio si chiude e questo è il nostro carico.
In fondo, è sul confine dell’intimità con la morte che sono costruiti i nostri rapporti e forse per questo ci amiamo ma non amiamo incontrarci fuori.
Fuori dobbiamo provare a fare la corsa come tutti gli altri.
Il tubo endotracheale e la sonda nasogastrica sono stati rimossi; il volto appare disteso, non più deformato; il pallore conferisce alla fisionomia una luce lunare.
Antonello, Antonello …

[il medico]

Pronto? Parlo con casa … ?
Signora buonasera, qui è l’ospedale San …, sono il dottor …, sono il medico di guardia della rianimazione, lei è la mamma di Antonello ?
Signora, le condizioni di suo figlio sono peggiorate …
Si signora, la situazione è precipitata …
Vi consiglio di venire subito in ospedale …
Vi apetto.

Burocrazia: compilo le schede di morte, chiudo la cartella, firmo, telefono alla camera mortuaria :
“è il centro di rianimazione, sono il medico di guardia, c’è una salma, no niente autopsia, mi raccomando entrate dall’altra porta e aspettate che i parenti abbiano visto il cadavere; grazie, a dopo. Ah! Credo che ce ne sarà anche un altro; si, eventualmente richiamo io … è una brutta notte.”
I genitori sono arrivati.
Camice.
Vado ad aprire; li faccio accomodare nel salottino dove si danno le informazioni.
Locale 3 metri per 3, pareti gialline, poltrone blu, neon.

[il medico]

Accomodatevi prego …
No signora, no, Antonello è morto poco fa, non ce l’abbiamo fatta, mi dispiace …
Un arresto cardiaco irreversibile nonostante tutti i tentativi …
No signora non faccia così adesso …
Aspetti, si sieda …
Adesso ci vuole tutta la forza, vi prego di resistere ora …
Si certo che lo potete vedere, è ancora qui …
Ecco, si accomodino da questa parte, è in questa stanza …
Certo che potete stare un po’ con lui …
Qui ci sono delle sedie …
Io sono qui fuori, vi aspetto, sono a vostra disposizione.

Esce il padre.

[il medico]

Mi creda, siamo davvero desolati, speravamo di poter fare di più ma non ce n’è stato neppure il tempo …
La ringrazio, la ringrazio a nome di tutti, in particolare dei ragazzi dentro; sa, anche per loro è dura, anzi forse lo è ancora di più, sono tutti infermieri molto giovani …
Per noi sono sconfitte pesanti …
16 anni sono davvero pochi per morire …
Si, in camera mortuaria riceverete le informazioni necessarie per il funerale e tutto il resto.

Esce la madre.

[il medico]

Si signora ha ragione, il cancro è una malattia tremenda, in certi casi non da neppure tempo di capire cosa stia succedendo …
Si, si certo io sono medico e lo dovrei sapere meglio di voi, ma …
sa com’è, la vita fa strane sorprese e non guarda tanto per il sottile …
siamo tutti uguali e la professione c’entra poco …
tutti siamo a rischio di qualcosa e …
anch’io, come gli altri, lo sono …
beh, in un certo senso …
come posso dire …
Non piange più ora signora ha visto ? Parlare aiuta …
Coraggio …
Sedete ancora un pochino, volete ?
Come dice ?
Stavo io dicendo qualcosa ?
Non so, non ricordo …
Ah si, le sorprese della vita …
Ma …
Se me lo chiede in forma così diretta …
No, la lasci dire signor … le donne sanno gestire molto meglio di noi queste situazioni sa ?
Si …
anch’io signora, anch’io …
In una forma meno aggressiva di quella di Antonello, ma anch’io …
È anche per me un momento un po’ speciale; si Antonello è andato via per un male che io stesso ora ho …
Se ne voglio parlare ? Di cosa signora ? Del mio male ? Ma vostro figlio è morto e …
Non so, mi sento in imbarazzo … sono a disagio …
Se mi voglio sedere con voi …
Va bene, mi siedo anch’io …
Ecco …
Se posso parlarle della morte e del dolore …
Si, certo …
Però io sono un medico non un filosofo o un prete, non saprei …
Va bene, allora potrei dire che …

Potrei dire che è impossibile consolare con parole chi resta solo per la partenza senza ritorno di un proprio caro; è già tanto difficile quando chi va via lo si sa ancora vivo.
Il posto rimasto vuoto annichilisce l’anima; una sedia, una poltrona, un letto, una stanza sono tutto ciò che rimane.
Ma quel posto è ancora occupato nella nostra memoria, rimane dedicato a chi se n’è andato; eppure, sappiamo anche che resterà irrimediabilmente vuoto.
E il silenzio di quella voce che non risuona più fa trasalire come un colpo di vento.
Nell’arco di una vita, per breve o lunga che sia, ognuno fa quello che può cara signora; questo significa dover procedere miseramente per tentativi ed errori come afflitti da un’insanabile zoppia, e tutti sappiamo quanto sia salato il pane di ogni esistenza.
Non diversamente credo abbiate fatto voi con umiltà ed onestà per la vostra stessa vita e per quella di Antonello, finchè avete potuto.
Quindi, mi raccomando, nessun rimorso o recriminazione.
Tutto il dovuto è stato dato.
Tutto si è compiuto.

Però io penso – sempre da laico – che la morte non sia solo questo.
Io penso che la morte sia l’ultimo strazio per pagarci l’ingresso in una zona franca dove finalmente poterci liberare di ogni promiscuità, sorridere col cuore, guarire dalle piaghe del nostro corpo, dimenticare la volgarità di ogni piccola o grande miseria, tirare il fiato dopo l’umiliazione dell’ansimo.
Oggi questo mi sembra di poter dire d’aver visto, sia pure per un momento, dipingersi sul volto di vostro figlio e di tutti gli altri morenti prima di lui: la sensazione di una fatica inenarrabile finalmente conclusa, con buona pace di chi rimane.
Come se, proprio poco prima di morire, fosse possibile cogliere il senso di quell’evento splendido, terribile ed inspiegabile che è la vita; come se fosse finalmente possibile leggere e comprendere il misterioso segno con cui il destino ha marchiato la nostra schiena fin dall’inizio.
Ora debbo tornare dentro … Ho gli altri pazienti …
Grazie, grazie davvero, grazie di tutto … Mi spiace …

Il chiasso di tre cose
Va per il mondo sopra oceani, nevi,
terre di siccità e risaie:
e nessuna membrana dell’udito
lo cattura, il chiasso di tre cose.
Il chiasso del sole che va per il cielo,
il chiasso della pioggia
quando il vento la stacca dalle nuvole
e il chiasso dell’anima
da un corpo che la sputa

dalla Bereshìt Rabbà

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