La vita prende il sopravvento

Posted by Gio on maggio 01, 2017
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Foto di HA

Foto di HA

Stanotte non posso dormire

e penso che sia perchè la mia testa non può contenere tutte le emozioni della giornata.

Ore 8.00 entro in ospedale e mi dirigo subito in terapia intensiva dove ho ricoverato 3 dei miei pazienti trapiantati di midollo. Rivedo i parametri della notte, tutti gravemente stabili, e comunico alle infermiere che ritornerò più tardi a parlare con le famiglie. Sono preoccupata per alcuni di loro.

Ore 9.00 45 minuti di lezione supercondensata sulle emergenze nel trapianto di midollo al gruppo di specializzandi appena arrivati. Sgomento sui loro visi.

Ore 10.00 convocazione urgente della direzione ospedaliera per discutere come gestire la famiglia di uno dei pazienti in terapia intensiva che ieri ha minacciato di morte lo staff medico e ha fatto comparire un coltello a serramanico dal nulla.

Ore 11.00 colloquio con la famiglia di un altro dei pazienti in terapia intensiva. Tobia, 7 mesi oggi, 4 settimane post trapianto. Purtroppo non ce la farà. Lo sappiamo da quando abbiamo guardato la TAC del torace di ieri che è invasa da una infezione fungina. Lo sappiamo perchè i suoi reni hanno smesso di funzionare nella notte e il suo fegato è imballato. Ora sono qui a convincere una famiglia che ha già perso altri figli in passato che insistere è inutile. Dopo un colloquio straziante i genitori ci chiedono di sospendere le cure (che in questo Paese è legale). Esprimono il desiderio che Tobia possa morire fuori dalle mura della terapia intensiva. Organizziamo i penosi dettagli della procedura. Lacrime e rabbia.

Ore 12.00 salgo in reparto per valutare con gli specializzandi gli altri pazienti. Tra cui Filippo che ha 6 anni, una leucemia mielolmonocitica recidivata 3 settimane dopo il trapianto e quindi ora è in palliazione. Padre straniero, vedovo da poco, aspetto l’interprete che viene ogni giorno per comunicare con lui. Morfina, ketamina e midazolam stanno facendo il loro lavoro. Filippo è vigile ma non ha dolore, ogni tanto ha un po’ di ansia e quindi ha bisogno di un po’ più di midazolam. Ma oggi verrà Superman a trovarlo, lui è contento. Chiedo alle infermiere di aspettare ad aumentare l´infusione, vorrei che fosse sveglio quando Superman sarà nella sua stanza.

Ore 13.00 una delle mie specializzande sta discutendo di fronte a un gruppo di colleghi i dati della sua tesi per cui abbiamo lavorato insieme. Sto per andare da lei ma la terapia intensiva mi chiama e non riesco a raggiungerla per tempo. Mi dispiace non esserci in un momento che so essere importante per lei.

Ore 14.00 nuova riunione per aggiornamento sulla famiglia che ci minaccia di morte, un sacco di scartoffie da compilare ma il nocciolo della questione è che questi genitori hanno un figlio gravemente malato e non ci sono scartoffie che toglieranno il loro dolore e la loro rabbia

Ore 15.00 Tobia è mancato. Nel giardino dell’ospedale, al sole, con la sua famiglia accanto.

Ore 16.00 entro nello studio delle infermiere e c’è una festa . Fiori, regali, i miei colleghi… è il mio ultimo giorno prima del congedo di maternità. Le immagini mi scorrono davanti come se fosse in un film. Non mi sento io la persona che stanno festeggiando. Non sono io che da domani non sarò coi miei pazienti per qualche mese. E soprattutto non posso festeggiare oggi, dopo Tobia, Filippo… il cuore fa a pugni con la mente.

Ore 17 altro giro in reparto per rivedere alcuni pazienti e parlare con le famiglie, Sofia, Luca e Sara stanno ricevendo una delle terapie più avanzate a disposizione per la loro leucemia super aggressiva. Famiglie che vengono da tutto il Paese per poter avere accesso a questo trattamento. Stanno andando bene per ora, tengo le dita incrociate. La loro guarigione sarebbe un traguardo importantissimo.

Ore 18 I neurologi vogliono vedermi per Alessandro, 2 anni, il terzo paziente in terapia intensiva. Sembrava migliorare ma forse negli ultimi due giorni i suoi sintomi si sono riacutizzati. Discuto con loro e con la sua mamma, donna fortissima che accompagna Alessandro da 12 mesi senza mai essere stata dimessa.

Ore 19 mentre esco dall’ospedale incontro Tommy in ascensore. 5 anni , 2 mesi dopo trapianto, anche lui venuto da lontano per ricevere una diversa terapia sperimentale. Sta molto bene, è uscito a fare un giro pomeriggio e sta recuperando le sue forze di giorno in giorno. I miei colleghi lo dimetteranno la prossima settimana .

Sulla via di casa penso che se avrò un decimo della forza che hanno le famiglie dei miei bambini sarò un genitore fortunato.

Ora pausa. La vita prende il sopravvento.

Ma come è difficile dormire stanotte.

Gio

Jogging

Posted by Gio on febbraio 20, 2017
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foto di NC

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Corro.

Jogging pigro di una fredda mattina di febbraio. Aria umida nelle narici. Gambe pesanti, corpo intorpidito dal lungo inverno. Mentre ascolto il ritmo affannato del mio respiro, la mente divaga

E mi viene in mente lui.

Jack.

8 anni, un’intelligenza fuori dal comune.

Ragazzino educato, vispo, curioso.

Si era accorto che qualcosa non andava perchè d’imporvviso gli è mancato il fiato e non riusciva più a tenere il ritmo nel fare jogging con suo padre nel weekend.

Linfoma di Burkitt.

Massa addominale enorme, lisi tumorale da manuale in induzione.

Remissione completa ma ricaduta immediata.

A trapianto.

Buon donatore, buone condizioni cliniche, si va. Ma si arriva al condizionamento senza una remissione completa e si sa che le possibilità sono poche. Lo sappiamo noi, lo sanno i genitori e soprattutto lo sa lui, troppo intelligente per non capire.

E ci insegna.

Mentre noi ci diamo da fare nel provare ogni terapia post trapianto che possa mantenere quello straccio di remissione ottenuta a fatica, mentre i genitori ci chiedono di riferirlo per questa o quella terapia innovativa in questo o quel centro specialistico, lui invita il suo dottore preferito a raggiungerlo in camera, alla fine del turno, per giocare una mano a carte.

Jack filosofo, Jack più saggio dei suoi 8 anni, Jack che non parla più molto, non chiede, ma batte il suo dottore a carte, troppo educato per dirgli altrimenti che la partita è persa.

Corro e ti penso Jack, e so che avresti apprezzato la vita che scorre nel jogging al freddo di una mattina di febbraio.

 

Gio

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Ascensore

Posted by Gio on dicembre 20, 2016
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Foto di EP

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Sono in ospedale.

All´ingresso principale due bambini sui tre e sette anni giocano a indovinare quale dei quattro ascensori arriverà per primo e si inseguono e corrono approfittando del fatto che la mamma, intenta a parlare con un’infermiera nel corridoio, non li veda.

Come sempre non posso resistere e ingaggio il gioco con i due piccoli, in due minuti stiamo tutti ridendo a crepapelle.

A un tratto sopraggiunge una donna di circa trent’anni, alta, bionda, carnagione chiara, zigomi alti, labbra naturalmente vermiglie. Indossa un cappotto che lascia intravedere le sagoma di un addome arrotondato dalla gravidanza. Mentre si avvicina il suo sguardo incrocia il mio e lo attraversa, come se non mi vedesse, figuriamoci partecipare alla risata che ho ancora nella coda degli occhi mentre l’ascensore arriva, i bambini tornano dalla loro mamma e io salgo scegliendo il piano del mio reparto.

La donna stringe in mano una scatola di fazzolettini, e guarda dritto davanti a se ma il suo sguardo penetra ciò che ha di fronte più che accarezzarlo. L’ascensore è vuoto, i piani molti, ma lei non fa cenno di notare che siamo solo in due in quello spazio.

Quali pensieri stringono la tua mente?

L’ascensore si ferma praticamente ad ogni piano nel solito calvario, lei rimane in un altro mondo.

Arriva il piano otto, le porte si aprono, lei si muove per uscire.

Ora ho capito, quell’addome non sta per dare alla luce un piccolo ma deve averlo già fatto, forse troppo presto perché quello è il piano della terapia intensiva neonatale.

Mentre scende la donna ha le lacrime agli occhi, ma non distoglie lo sguardo da quel suo orizzonte interiore, da quel suo obbiettivo unico: guardare il suo cucciolo penetrando il plexiglas dell’incubatrice. Guardare avanti, al momento in cui il suo cucciolo non avrà più bisogno del plexiglas per mantenere la sua temperatura, quando basterà il suo abbraccio per scaldarlo, quando, dimenticando le settimane dei dubbi e delle terribili incertezze iniziali, potrà godere della beata inconsapevolezza di tutti i neonati. Ancora più avanti, quando la donna con le labbra vermiglie starà parlando in un corridoio e il suo cucciolo potrà giocare con gli ascensori.

In quell’ascensore ho sentito il tuo dolore, donna dalle labbra vermiglie, la tua speranza, la forza e la fierezza con cui combatti la battaglia per il tuo cucciolo.

Buona fortuna!

Gio.

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A che serve?

Posted by Gio on settembre 10, 2015
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Foto di EP

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Avrei bisogno di trovare un motivo a tutto questo dolore.

Avrei bisogno di capire come il destino possa accanirsi cosi tanto su alcuni uomini donne e bambini.

Avrei bisogno di trovare una ragione, per capire, per non rassegnarmi, per continuare a credere che lottare abbia importanza.

Quando il tuo paziente si rialza dopo un percorso estenuante, accenna appena a tornare ad una vita normale, riassapora la dignità di una esistenza fuori dalle mura di una stanza ospedaliera; cosa gli resta se il fato lo colpisce di nuovo e lo riporta indietro nei suoi giorni di sofferenza?

A che giova?

A che serve il coraggio da uomo che ha avuto essendo bambino, la forza che ha trovato nei suoi pochi anni per combattere quotidianamente. A che serve lo sguardo fiero che ha tenuto davanti a me e ai suoi genitori per non tradire la sua paura, per non infliggere ulteriore dolore a chi lo ama (e farebbe a scambio con ogni sua sofferenza). E a che serve l´eroico e incredibile sforzo che i suoi genitori hanno fatto ogni giorno, assistendo impotenti al compiersi delle chemio, delle febbri, delle medicazioni. Quanto è stata vana ogni loro attesa, l´attesa per un neutrofilo in più, baluardo contro le infezioni, per un cenno di eritema, simbolo di un trapianto attecchito. A che serve la mia voce che dice che tutta quella sofferenza è per qualcosa: la mucosite, la GvHD, le infezioni, il vomito, tutto avrà una fine quando il midollo del donatore avrà spazzato via la malattia e tu, piccolo, potrai finalmente goderti la tua infanzia.

A che serve, se il destino è in attesa di giocarti lo scherzo più crudele appena avrai rialzato la testa…

Gio

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Da capo

Posted by Gio on novembre 13, 2014
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foto di HA

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Giornata di sole nella nuova città che mi accoglie ormai da 2 mesi. Altra grande città europea. Sono venuta qui perchè qui si gioca davvero la serie A del mio lavoro. Ho avuto l´occasione, e non me la sono lasciata sfuggire.

Come sempre l´inizio è in salita. Equipe nuova, regole cambiate, abitudini diverse, ricette peculiari per risolvere problemi comuni. E come sempre mi lascio indietro tutto il resto (amici, famiglia, casa) per fare un passettino in avanti e imparare di più.E sempre loro, nuovi volti di bambini.

Qui sono davvero tanti. Tra tutti però ho un ricordo speciale per i bambini che seguivo in Italia, durante la mia specializzazione.Forse perchè ero più giovane, forse per via della lingua, non mi è ancora più capitato, di essere legata ad altri bambini come a loro. Sono una quantità enorme di volti, sorrisi e storie che mi arricchiscono la vita.

Ecco, quando penso a loro, quando penso che il vero motivo per cui sono qui è fare meglio per loro, allora ha di nuovo senso questo stato di isolamento dalla vita e distacco da tutto che sento ogni volta che mi sposto. Allora c´é un motivo, uno importante. Forza, alzarsi,  che ci sono nuove storie da conoscere!

Gio

La corsa

Posted by Gio on luglio 09, 2014
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Foto di DB

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Esco di casa in fretta, direzione ospedale.

La città è una festa colorata di gente che prende parte a una gara podistica.

Chi non corre, guarda dal bordo della strada.

Gruppetti di gente con un cono gelato in mano, a godersi l´inizio dell´estate.

Qui esplode la vita.

E vorrei prendervi parte, ma sto andando a dare una mano perché Michele sta giocandosi ora la sua partita contro il tempo.

8 anni, recidiva di una leucemia, ora ricoverato con una sepsi fulminante, che in poche ore lo ha constretto al tubo, alla dialisi, e ora all´ECMO.

Sorpasso la vita che corre, e in poco tempo sono in terapia intensiva.

Fa caldo in questa stanza e io, gli intensivisti, i chirurghi e le infermiere che lavorano intorno a Michele, siamo tutti imperlati di sudore sotto le mascherine.

Massaggiamo mentre i chirurghi isolano l’arteria per l’ECMO, ogni tanto loro ci chiedono 5 secondi di pausa dalla RCP per poter lavorare senza strattoni continui.

I miei occhi al monitor, a cercare qualche cenno di attività cardiaca.

È in DIC, sanguina da ogni possibile punto, mentre ventilo vedo il tubo sporcarsi di gocce rosse.

Plasma, trombociti, rossi; senza sosta.

Bicarbonati, adrenalina, calcio gluconato; senza soluzione di continuo.

L´ECMO inizia a lavorare: niente polso, ma flusso.

La dialisi ripulisce l’iperkaliemia, il cuore ricomincia a muoversi.

Flussi cerebrali presenti.

Ipotermia controllata.

La camera si svuota, prima se ne vanno i chirurghi, poi alcuni degli intensivisti, rimane il perfusionista e il medico di guardia.

Quando torno le strade sono vuote.

L´aria dolce dell´estate mi fa bene.

Michele questa è la tua corsa, non mollare!

 

Gio

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Labirinto

Posted by Gio on marzo 10, 2014
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foto di GP

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Nella vita io non sono mai stata molto coraggiosa.

Ero la tipica bambina che non si buttava dagli scogli troppo alti, che non saliva sulle montagne russe, insomma una fifona.

È quindi con molta sorpresa che mi sono scoperta a reagire con prontezza di fronte all´urgenza in medicina.

Soprattutto durante la specialità, quando avevo poca esperienza, mi è successo più volte di sentire quella doppia chiamata in reparto (quella che segnala l´allarme per un´emergenza) e di precipitarmi nella camera del paziente.

Riuscivo a gestire la situazione.

Tutto secondo algoritmo, tutto fatto a dovere.

È cosi che ho capito, che l´anima gioca brutti scherzi.

Giorni dopo l´emergenza, mi trovavo a lacrimare senza ragione sulle scale che portavano al reparto, settimane dopo la morte di un paziente, a tremare quando sentivo il suono del campanello provenire dalla stanza in cui si era spento.

Strano come la mente comandi anche le emozioni urgenti, quanto la lucidità del momento e la necessità di essere efficienti sopiscano la paura, e poi la facciano riapparire in altre vesti.

Essere medico è anche un viaggio dentro a se stessi, è un labirinto nel proprio subconscio che si percorre a tentoni.

Chissà quanti anni mi ci vorranno per raggiungerne il centro…

Giò

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Black-out

Posted by Gio on marzo 01, 2014
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foto di HA

A volte ho paura del mio lavoro.

A volte penso che esponga la mia anima, e la lasci nuda di fronte a tutte le emozioni, belle e brutte, della vita.

Succede in 1000 modi diversi e sempre avverto quel colpo all´anima, che fa male.

Può essere durante una notte, quando l´adrenalina di un caso difficile ben risolto lascia lo spazio all´inadeguatezza totale di fronte a un altro paziente, di cui non capisco il problema.

Succede quando mi accorgo che, non importa quanti passi avanti ho fatto e quanta esperienza ho accumulato, non basta ancora, devo imparare, imparare ed imparare, perchè la medicina non è mai finita.

Succede quando sono stanca, svuotata, quando ho semplicemente l´impressione di aver dato tutto quello che avevo, fino al punto che ho la nausea, fino al punto che non so più cosa sia la mia vita fuori dal reparto e vorrei solo dormire, un lungo sonno riposante.

E in quel sonno mi vengono a trovare i miei pazienti, quelli che non ho potuto aiutare, quelli che ho lasciato andare. E loro mi rimproverano perchè io mi sento stanca. Che diritto ho di sentirmi stanca in una vita che loro non possono avere, ma desidererebbero? Una vita della quale loro vivrebbero ogni attimo appieno, invece di spegnersi tra la fine di un turno e l´inizio del successivo, come faccio io a volte.

E succede quando vorrei piangere ma non mi vengono le lacrime, quando non mi ricordo il nome di un paziente che non è più qui, quando sono cosi satura di cattive notizie che ascolto quella più recente mangiando uno snack, e neppure smetto di masticare.

Che persone siamo noi medici?

A volte penso che siamo persone terribili.

Perchè nessuno permette alla propria anima di essere cosi frustata e maltrattata.

Con che coraggio ogni giorno comunichiamo diagnosi terribili ai nostri pazienti, alle loro famiglie, per poi impacchettare il dolore, portarlo in fondo allo stomaco, e domani ricominciare di nuovo, ancora, e ancora, e ancora.

Chi sceglierebbe un lavoro del genere?

Chi continuerebbe ad amarlo, e a mettere in scacco tutto il resto, per qualcosa di simile?

Giò

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Fine turno

Posted by Gio on febbraio 19, 2014
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foto di GP

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Smonto dopo ventiquattro, dico ventiquattro ore di guardia, in tedesco… sono uno zombie!
Cammino verso casa, aria fresca, cielo limpido.
Ho freddo, il freddo della stanchezza.
Ho fame, la fame chimica dello smonto.
Mi sento di nuovo viva, a volte è una specie di corso di sopravvivenza…
Mi gusto il viavai della gente che sta andando a lavorare con la felicità di chi ha finito.
Mi infilo nella prima panetteria e mi concedo qualsiasi cosa la gola mi suggerisca, come premio per chi è sopravvissuto a una battaglia, senza riportare troppe ferite.
Mi ricordo che il mio frigo langue, ed entro al supermercato in cerca di qualcosa…
Ricerca impossibile, vago tra gli scaffali senza meta, cosi obnubilata che non trovrei nemmeno gli spaghetti in uno stabilimento Barilla; figuriamoci al supermercato tedesco….
Agguanto quattro cose e mi metto in fila alla cassa.
La cassiera si innervosisce perché sono un po’ lenta a cercare le monete nel portafoglio… “ehi tipa”, penso tra me e me, “io ho smontato dopo ventiquattro ore di lavoro, sono una specie di highlander per le prossime dodici ore, quindi porta rispetto ok?”
Ho bisogno una doccia; per la verità avrei bisogno una seduta alla beauty farm, perché porca miseria se le zampe di gallina peggiorano dopo il turno lungo….
Arrivo a casa, apro la cassetta della posta: l´ufficio delle tasse mi manda una lettera di richiamo? Come osa proprio oggi?!
Odio la burocrazia tedesca, che è ben peggio di quella italiana.
Saranno i soliti problemi che fanno con gli stranieri.
Ma ora salgo, mi attacco al telefono e mi sentono. Non certo perchè non sono a casa mia, possono fare ciò che vogliono!. Ora gliene dico quattro! Non gliele manderò a dire! ….magari dopo la doccia….magari dopo qualche minuto sul divano…forse rimando tutto a domani…
in fin dei conti cosa c’é di meglio di una bella dormitina?.

Gio

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A Nawaf, il guerriero coraggioso.

Posted by Gio on febbraio 07, 2014
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foto di NC

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Chiamata dalle infermiere, apro la porta della stanza 117 e mi trovo catapultata in un altro mondo.
A tutto volume, da qualche iPhone, un muezzin chiama alla preghiera.
Una donna, di cui conosco solo gli occhi, dorme per terra, per lasciar posto a suo marito sul letto.
Il loro figlio sedicenne sta morendo nel letto accanto.
Nessuno può capirmi quando parlo, nessuno parla nè intende una lingua europea.
Il colloquio ufficiale con l´interprete è fissato per domattina, ma il loro figlio ha iniziato ora ad avere emottisi, dispnea e panico, e io devo sedarlo ora e non posso aspettare il traduttore alle 9:00.
Nawaf non ha più forze, pesa si e no trenta chili, è venuto in Europa perchè il suo osteosarcoma alla gamba era così grosso che i medici in Iran volevano amputagliela.
La famiglia non poteva vivere col pensiero del figlio maschio mutilato.
L´ottenimento del permesso per venire in Europa ha tardato così tanto che il tumore nel frattempo si è preso anche i polmoni di Nawaf, e persino un pezzetto del suo cuore.
Quando è arrivato qui, per giunta, quella gamba abbiamo dovuto levargliela lo stesso, chiaro esempio di senso di onnipotenza occidentale…
Cosi, lui è rimasto due mesi nella 117, senza una gamba e senza comprendere la lingua nè i costumi di chi gli stava attorno. Costretto a porre domande attraverso un traduttore che veniva quando e come aveva tempo.
Ieri abbiamo detto ai genitori di Nawaf che per il loro figlio non possiamo fare più nulla, e che non c’è tempo per farli tornare a casa.
Chissà con che parole un traduttore traduce la morte.
Quando comunichi a una famiglia che il figlio sta per morire, non riesci a farlo neanche nella tua medesima lingua. Il flusso di emozioni, e il senso di inadeguatezza prendono spesso il sopravvento. E io come faccio a fidarmi di un interprete, come so cosa esattamente sta dicendo? Userà parole chiare ma empatiche?
Metterà qualche aggettivo per smorzare la violenza che sto comunicando?
tradurrà ogni dettaglio (perchè sono i dettagli che fanno la differenza) delle domande dei genitori?
In questo caso il tutto è ancora più difficile, perchè non posso neanche vedere il volto di questa madre, il suo dolore, e non ho idea di cosa mi voglia dire, perchè lei non può parlare direttamente con il traduttore, ma solo tramite il marito.
Possibile che anche nelle ultime ore di vita del figlio certe cose non possano essere diverse?
A Nawaf ieri il traduttore ha chiesto se aveva domande, se voleva dirci qualcosa, qualsiasi cosa per uscire dal quel suo silenzio forzato.
Lui ci ha chiesto se potevamo fare qualcosa per farlo smettere di tossire…
Ora è dispnoico, satura 84% con 6 litri di ossigeno, rantola ovunque, non ho tempo di provare a spiegare ai genitori: il cocktail è già pronto: Morfina, Levopromazina e Midazolam. Cerco gli occhi della madre sotto il burqa, trovo quelli di Nawaf che hanno solo paura.
Pochi, lunghissimi minuti, e vedo gli effetti della sedazione.
Il viso si distende, il respiro resta irregolare ma la paura è andata, l´infermiere lo sistema sui cuscini, gli pulisce il volto segnato dall´emottisi.
La madre guarda il monitor con i parametri vitali per capire se il figlio è ancora li, tra qualche ora probabilmente inizierà ad ascoltare con paura se a un respiro ne seguirà uno nuovo.
Chissà se domattina alle 9:00 la madre chiederà al padre, di chiedere al traduttore, di chiedere al medico perchè non le ho chiesto se voleva dire ancora qualcosa a suo figlio prima di sedarlo definitivamente?

Gio

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