Arrivo un quarto d’ora prima. In corridoio non c’è ancora nessuno. La signora delle pulizie sta finendo, e il suo carrello si affaccia un po’ ingombrante dalla porta di un ambulatorio. Mi siedo alla scrivania e guardo l’elenco dei pazienti. E’ breve, solo tre. Ma le visite sono lunghe, quindi non è che farò tanto in fretta. Leggo il primo: Adyle Kezam. Cominciamo bene, penso, chissà chi mi arriva. Così cerco di raccogliere qualche informazione in più. Leggo la scheda. Adyle Kezam, ragazza turca di 28 anni. All’ammisione una emorragia cerebrale da sanguinamento di una malformazione artero-venosa. Dimessa poco più di un anno fa dalla nostra rianimazione in discrete condizioni. Il collega che aveva preso l’appuntamento si era segnato alcune note: “…in Italia per un master in astrofisica al Politecnico. Riparte fra un mese. Parla solo inglese”. Subito non ci faccio caso, poi nel momento in cui rimetto in fila tutte quelle informazioni mi accorgo che risuonano in modo particolare. Le parole “turco”, “emorragia cerebrale”, “rianimazione” e “astrofisica” formano una strana assonanza, o dissonanza, quasi comica. Sembra un film di Woody Allen. O una più semplice candid camera. Da qualche parte c’è una telecamera nascosta, sicuro. Non mi resta che stare alle regole e aspettare la rivelazione finale del gioco. Ma la vera prova da sforzo la farà il mio il mio inglese scalcagnato. Per fortuna al fondo di una cartellina ci sono tutti i test originali (in inglese), potrò limitarmi alle solite frasi di circostanza.
Si affaccia un viso straniero alla porta, un uomo: “Buon giorno… siamo per la visita…” e non finisce la frase. “Kezam?” chiedo. “Sì, mia sorella…”. “Prego, entrate…”. Sono in tre. Adyle, suo fratello, e la madre. Quella dell’inlgese era una bufala, penso. “Parlate italiano?” “No… poche parole… inglese o turco”. E’ il fratello a rispondere. Mi aveva fregato, con quelle frasi piazzate lì al posto giusto. Altro che bufala. La recita è cominciata senza che neanche me ne accorgessi, il sipario si è spalancato all’improvviso e io devo fare la mia parte. Parto con i soliti “nice to meet you…” (piacere di conoscervi) e un bel sorriso. Indico le sedie. Prendiamo tutti posto. Ora mi tocca spiegare la faccenda dell’ambulatorio del follow up, dei test… Che casino. E’ complicato in italiano figuriamoci nel mio inglese! Prendo un po’ di tempo, rileggendomi la storia clinica di Adyle. Poi il silenzio comincia ad essere imbarazzante, ma non mi viene niente di intelligente e soprattutto comprensibile da dire. Allora sollevo lo sguardo e lancio il più banalissimo: “how are you?” (come va?) pensando “adesso si alzano e se ne vanno”. Invece Adyle sorride, e risponde con la massima calma: “fine… now I’m fine…” (bene, adesso bene), sottolineando intensamente quel now, come dire: c’era un prima e c’è un adesso. Poi come per giustificare il grassetto delle sue parole inizia a raccontare. Adesso sta bene, perché ha finito il master. Proprio due giorni fa ha discusso la tesi (ASTROFISICA…!), ma è stato faticoso dare gli ultimi esami. Studiava e non si ricordava niente. Aveva mal di testa. E si ripeteva in continuazione: “sono diventata stupida…!”. Io ascolto, e capisco, capisco tutto, non una parola su dieci, tutto! Adyle parla un inglese morbido e fluente, senza sbavature, senza suoni gutturali, senza arrotolare o aspirare incomprensibilmente le sillabe, con un tono calmo e accogliente. E io capisco. E più capisco, più mi viene da guardarla con attenzione (non l’ho ancora fatto). Muove le mani con leggerezza, disegnando nell’aria piccoli arabeschi (cose turche ovviamente…), muove gli occhi come alla ricerca di immagini, che una volta evocate fissa con grande intensità, sorride (e il sorriso resta sempre, come una musica di sottofondo). Così, quando questa piccola storia finisce, mi sento pieno di cose da dire, da spiegare, e come l’acrobata che è già in cielo nel momento in cui spicca il salto, così anch’io comincio a parlare. Decisamente meno fluente, ma tutto sommato comprensibile. Prima spiego il progetto, poi i test, poi faccio altre domande (ricordi, sogni, operazioni, controlli), rispondo (cosa è successo veramente, come sono andate le cose, cosa le hanno fatto, cicatrici, segni, tubi, sonde…). Il resto è tutto in discesa, macina i test uno dietro l’altro, qualche chiarimento, poi tutto finisce.
Tiro un sospiro. Ce l’ho fatta, sono arrivato alla fine, chi l’avrebbe mai detto. Ci alziamo, ci salutiamo (in inglese, in italiano, in turco). “Ancora una cosa…” dice lei prima di lasciare la stanza “è possibile vedere la rianimazione?”. La mamma non capisce, il fratello traduce (in turco), c’è un po’ di imbarazzo (loro non vogliono: non è il caso, troppe emozioni). Adyle attende la mia risposta. “Ok”, dico solo. Lei sorride di nuovo, di più. Fratello e madre accettano, vedono il sorriso, aspetteranno fuori, dicono. Poi quando la porta si apre la tentazione di guardare dentro è forte, così decidono di entrare tutti. Lei non ricorda niente, loro sì. Il personale si accorge della visita. Sono arrivati i turchi. Molti la ricordano, Adyle, la ragazza turca che faceva il master in astrofisica, molti non c’erano in quei giorni, molti sono arrivati dopo. Madre e fratello piangono. Lei no. Lei mantiene la sua calma, la sua gentilezza. Il suo inglese morbido è come una ninna nanna che seduce e incanta. Adesso si è arricchito di una tonalità nuova, quella dello stupore, e della commozione. Poi di nuovo tutto finisce, tutto precipita verso l’uscita, verso i saluti. Strette di mano. Buon ritorno. Buona fortuna. Grazie di tutto. Torno sui miei passi. La commedia è finita (o era una candid camera?), in un angolo del corridoio scorrono i titoli, nella mia testa parte la sigla. Di fronte all’ambulatorio c’è un altro paziente che aspetta. Mi fermo un istante, attendo il buio e la scritta “fine”.
il guardiano