Il Maresciallo se n’è andato

Posted by Mentepreziosa on dicembre 06, 2015
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foto di EP

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Alto, elegante, profumato, curato; il ciuffo bianco sempre ben lisciato all’indietro, fino all’ultimo; gli occhi chiari e buoni sempre vividi, nonostante la miosi dei giorni vicini alla fine; l’eloquio elegante, gentile, rispettoso come può averlo solo chi è abituato al rispetto della gerarchia, non solo formale ma anche sostanziale. L’ultima settimana l’ha trascorsa quasi muto, senza riuscire ad articolare altro che qualche sillaba afona, qualche smorfia sofferente, qualche lieve lamento: “non fa niente che non riesce a parlare: ci intenderemo a gesti! Le fa male qui? E qui? Mi fa vedere la lingua?”.

Ridotto allo scheletro di sé stesso, mangiato dall’interno da quella stessa belva cui aveva tenuto testa, guadagnando dieci anni di incredibile sopravvivenza (dato per morto un’infinità di volte, si era difeso così strenuamente da sopportare resezioni epatiche, chemioembolizzazioni, termoablazioni ed infine, quando si era ormai constatata la progressione allo stadio multifocale, la chemioterapia e gli scompensi sempre più frequenti, che ne avevano deformato i tratti e l’addome), superando la rottura delle varici esofagee, l’oliguria e l’ischemia che probabilmente ha spento le sue parole, si è consumato lentamente, proprio come una candela, man mano che le funzioni superiori del suo corpo venivano meno.

Sembra ancora così strano non vederlo al mattino, al giro visite; sembra ancora così inconsueta l’assenza del suo nome nella tabella dei pazienti da dividersi; sembra così dolce, delicata, attesa la sua morte da non essere quasi compatibile con l’idea di sofferenza.

Eppure. Che ne so di cosa si agitava nel suo cuore negli ultimi mesi e più ancora negli ultimi giorni, intuendo a cosa sarebbe andato incontro, perfettamente vigile ed orientato, quando alla mia domanda sorridente “come andiamo oggi, Maresciallo?” rispondeva a gesti “e come vuole che vada? Sto morendo”; non potrò mai comprendere quali immagini si dipingevano dietro le sue palpebre quando tentava di gridare di staccare tutto, di non fare più niente, di lasciarlo morire; non sarò mai abbastanza sapiente da discernere se per un uomo sia meglio avere una fibra forte e sopportare settimane di agonia per separarsi dolcemente e poco a poco dalla vita oppure avere un cuore debole, che al primo accenno di edema polmonare, si dispone al riposo.

So per certo però che ho il dovere di non sprecare gli ultimi giorni di vita di un uomo, di non lasciarlo assopito nel suo letto come se fosse già morto, visitarlo come se fosse già morto, toccarlo come se fosse già morto, parlarne come se fosse già morto; mi rendo conto sempre di più che non posso entrare in ospedale pensando di non sorridere: il sorriso è troppo prezioso; loro sentono terribilmente il sorriso, perché dice che non stanno sopravvivendo solo per morire più tardi, solo perché il loro corpo si rifiuta di lasciare la presa ma perché possono ancora ricevere e possono ancora dare. Ci ha ringraziati “per tutto”, con le lacrime agli occhi: a me non hanno fatto paura quelle lacrime, le avevo anche io; mi ha fatto paura la sua paura davanti all’ultimo istante, quella paura che è così ben conficcata nel nostro cuore da avere pudore a vederla negli altri.

E allora l’ho accarezzato, come al solito, come ogni mattina, sulle guance e sulla fronte, gli ho stretto forte la mano e ho sostenuto il suo sguardo perché sapesse che c’eravamo, che lo accompagnavamo e che non aveva sbagliato a riporre la sua fiducia in noi, volendo trascorrere in ospedale gli ultimi momenti, piuttosto che rimanere a morire nel suo letto. Si è congedato da noi con la gentilezza con cui ci si era proposto, dai suoi nipotini con la dolcezza di non rifiutare la loro visita, dai suoi figli con la serenità di sostenere il suo rifiuto all’accanimento terapeutico, dalla moglie con la consapevolezza di aver camminato con lei fin dove poteva.

Ed è morto con qualcuno di noi, perché morire durante un turno di guardia in cui tutti i medici non sono del reparto è troppo brutto. Ed è svanita tutta la sofferenza, tutto l’orrore, tutta la greve atmosfera che pesava su quelle ultime due stanze del reparto: l’altro higlander se n’era andato il giorno prima, nel suo letto. Rimane solo il sollievo, perché tutto è compiuto e i commenti degli infermieri e dei colleghi, “perché era una brava persona”.

Il Maresciallo se n’è andato. Davanti alla morte siamo tutti uguali, non contano titoli, onori, ricchezze ma certi ruoli, ai più fortunati, rimangono addosso per sempre. E se i pazienti sono tutti “Signori”, qualcuno è anche “Dottore”, “Professore”, “Maresciallo”. Da parte nostra, forse, riconoscere questa fusione tra la persona e il ruolo che aveva nella società, persino in un letto di ospedale, è un modo per vedere l’Uomo oltre la malattia, oltre il numero di registro; è restituire all’ammalato la dignità che merita per il solo fatto di stare lì, nudo, davanti a noi, vestiti. Che non sia mai un bieco strumento di potere asservito ad altrettanto immondi favoritismi verso “il Dottore” piuttosto che verso “lo straniero, il tossicodipendente, la casalinga,…”, perché davanti alla sofferenza siamo tutti uguali e ciò che ci distingue è solo quanto riusciamo a non diventare cattivi.

Mentepreziosa

Anime perse

Posted by Mentepreziosa on agosto 15, 2015
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foto di EP

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Quando è arrivata, nessuno ha scommesso una lira su di lei, “perché è una straniera”, “perché è sola”, “perché, se quella è una miriade di noduli di epatocarcinoma, la cosa migliore per lei è di tornare a bere, senza farsi altre crisi di astinenza e sperando di morire in coma etilico”, “perché le sue uniche persone di riferimento sono il Nano e il Magnaccio” che, mentre vagava per il reparto, con la borsetta in mano e chissà quali pensieri per la testa, in preda al delirium tremens, facevano a turno a tenersela sulle ginocchia.

Perché “non possiamo salvare il mondo” e “se la signora vuole andare al SERT, certo non la posso accompagnare io”, perché qui non esiste un servizio di assistenza sociale, perché “non so… forse al comune… forse il medico di famiglia… forse il CTM” ma, sicuro, nessuno.

“Solo tre giorni, dottoressa”, “oggi è come ieri”, “io bene, mangiato frutta”, “lei troppo buona”, “a casa, andare a casa, per favore, a casa”, “amici, solo amici ci sono, figlio lontano”, “solo dieci minuti, sulla porta, dermatologo detto che sole fa bene”, “mai più alcol, mai più”.

Perché “la signora non parla bene, non si capisce”, perché la probabilità stimata che al suo “mai più alcool” ci creda davvero anche lei è vicina allo zero, perché “la signora va a dormire presso i vecchietti cui fa da badante, non ha un domicilio fisso”, perché se non l’avessimo dimessa forse sarebbe scappata.

Anime perse: ciò che noi possiamo fare per loro, durante un ricovero, è meno di una goccia nell’oceano, meno di una fiala di diazepam mentre lei si strappa gli accessi venosi e buca le sacche dell’infusione continua. Anime il cui destino è segnato e che non hanno altre opzioni se non continuare a sopravvivere come già fanno; anime i cui desideri di bene finiscono sommersi in un fango di false promesse, di aspettative non corrisposte, di speranze malriposte, di solitudine e di orizzonti chiusi. Non si può giustificare l’alcolismo: si può solo tentare di comprenderlo e di calarsi, per il tempo di un ricovero, in quell’abisso di miseria umana e di sofferenza che molto spesso ne è il substrato. E tentare di tirarsene fuori, spolverandosi il camice, prima che la sua volta pesante si richiuda. Magari questa volta non per sempre.

Mentepreziosa

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Mai avrei pensato…

Posted by Mentepreziosa on aprile 12, 2015
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Foto di NC

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Mai avrei pensato che sarebbe stato per uno di loro che avrei scritto: uno di quelli che ci mandano talmente complicati che, per consentirgli di sopravvivere, si dovrebbe iniziare a ricostruirli dalla A e finire alla Z. Però non c’è abbastanza tempo. Uno di quelli che arrivano da sconosciuti, con parenti incapaci di raccontare, disattenti, trascurati, incoscienti o soli, con la propria storia dentro la loro bocca chiusa o dentro la loro mente chiusa: lui, laringectomizzato da epoca imprecisata, cachettico, quasi sordo e quasi cieco, brandiva il suo “microfono” con le manine secche e ossute solo per comunicarci con voce da E.T. che aveva male alla schiena. Ma tanto male. E che “Graziella era andata al bagno”: Graziella, l’amore di una vita, mancato l’anno scorso o la nipote?
Lui, talmente magro e asciutto che, a parte i tofi disseminati ovunque, nulla sporgeva del suo corpo. Lui che da (quanti?) giorni non mangiava e non beveva più, che da (solo?) due giorni non urinava più, che (chissà da quanto) pativa una fimosi serrata e dolori atroci e che (forse) aveva perso sangue con le feci. O forse era caduto nei suoi faticosi cambi di posizione. O forse semplicemente era caduto nelle mani sbagliate, che avrebbero dovuto guardarlo, visitarlo, ricoverarlo una settimana prima, almeno, per reidratarlo, nutrirlo, indagare sul perché di quel dolore. Lui, cui non sono bastati litri di liquidi a sostenergli il circolo; che sopportava un 28 di glicemia e un 33.4 di temperatura meglio di chiunque altro abbia visto finora; lui, con esami di laboratorio che definire schifosi sarebbe stato un eufemismo; lui che alla fine, dopo quattro ore, ha smesso di parlarci, lo sguardo fisso, il respiro impercettibile, il cuore spinto solo dalla noradrenalina. Lui che, con la sua manina aguzza e ritorta, quando già il colorito era cambiato e non rispondeva piu’, tentava forse ancora di tenersi aggrappato o forse di lasciare la nostra presa.
Non credevo che sarebbe stato lui a costringermi a scrivere, finalmente: pensavo sarebbe stato uno dei miei pazienti, uno tra quelli che avevo accarezzato e tentato di rassicurare per giorni, dopo la comparsa dei primi movimenti afinalistici; uno tra quelli che con il loro sorriso sdentato mi avevano riempito di consolazione perché “quando vedevano me, vedevano la loro speranza”; uno tra quelli cui avevo stretto forte la mano per salutarli, sapendo che la prossima volta che li avrei visti sarebbe stata solo per accompagnarli, perché non volevano morire a casa ma in mezzo ai loro dottori; uno tra quelli che avevo visto dimagrire, sanguinare, cadere, lottare, sorridere, piangere, gridare e infine chiudere gli occhi e smettere di respirare.
Invece è stato proprio lui che, con quella sua manina artigliata, mi ha pizzicato il cuore al punto da non poter più dire che avrei scritto la prossima volta, un’altra volta, perché in fondo non ho niente di speciale da dire, niente che non sia stato già visto, già detto o già scritto.
Ma non riesco ad abituarmi. E soprattutto non voglio farlo.
Non posso dimenticare quella manina.

Mentepreziosa

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