Dimissioni

Posted by Rachele on novembre 06, 2015
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Foto di EG

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ETC, Sierra Leone, 4 Marzo 2015: dimissioni di Fisher e di Emannuel

EMANNUEL

Il 3 gennaio viene ricoverato Emannuel, trasferito da un altro ospedale insieme al nonno e a due cugini. Le sue condizioni sono fin dall’inizio molto gravi, diarrea profusa, sanguinamenti dalle mucose e severa disidratazione, dolori addominali e stato di agitazione. Lui nemmeno si rende conto ma nel giro di una settimana tutti i suoi parenti ricoverati nella stanza accanto muoiono nonostante le cure intensive. Le condizioni di Emannuel peggiorano nel corso dei giorni e i parametri respiratori e renali indicano che non è in grado di andare oltre senza l’aiuto delle macchine, decidiamo di intubarlo e di iniziare una dialisi. E’ il nostro primo paziente intubato, per cui siamo molto cauti nelle manovre e attenti nell’assistenza infermieristica. Le condizioni di Emannuel rimangono critiche per diversi giorni e non consentono di svegliarlo per diverse settimane poi piano piano lui comincia a risvegliarsi, la coscienza riaffiora, pur molto debole pensiamo si possa tentare una estubazione. La scommessa è vinta, giorno dopo giorno lui torna al mondo, reimpara a mangiare e bere con enormi difficoltà e poi anche a parlare. Dopo due mesi di permanenza nella “zona rossa”, ci chiede un telefono per chiamare la sua famiglia, è il tempo della dimissione ormai e con enorme gioia di tutti noi lo accompagniamo alla porta e lo riconsegniamo ai suoi parenti, le emozioni, il pianto e il riso sono di nuovo presenti sul suo viso così come nei suoi parenti che ormai non ci speravano più. E’ stata durissima ma la vita ha vinto questa volta.

FISHER

Fisher fa parte di un gruppo di pescatori che ha contratto una forma gravissima di Ebola. Ci viene trasferito insieme ad altri 13 pescatori che si sono ammalati durante una battuta di pesca contraendo la malattia da uno di loro che è morto durante il viaggio.

Lui è un ragazzone di 25 anni forte e gentile, le sue condizioni sono critiche fin dall’inizio, ha i polmoni pieni di liquido, fatica a respirare, la funzionalità renale gravemente compromessa. Davanti a lui, uno dopo l’altro muoiono tutti i suoi compagni ammalati. La notte che va in edema polmonare non abbiamo ventilatori disponibili, sono tutti occupati, decidiamo di provare a dializzarlo in mondo da riuscire a portarlo al mattino. La morte di un paziente è la salvezza di Fisher. Lo intubiamo e ventiliamo e continuiamo a sostenere i parametri vitali con farmaci e con la dialisi. Le sue condizioni migliorano, guarisce dall’Ebola ma il suo risveglio è molto lento. Anche lui piano piano torna al mondo dei vivi e finalmente viene estubato e ricomincia a bere e a rialimentarsi. Ci dice che ha una moglie e tre figli che per fortuna stanno tutti bene, vuole chiamare la sua mamma che se lo viene a riprendere dopo un mese di ospedale. Sono abbracci, lacrime e tanta gioia per noi e per loro. Torna a casa Fisher, ne è valsa la pena anche solo per te.

Rachele

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Viaggio nell’inferno di Ebola

Posted by Rachele on ottobre 28, 2015
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Dicembre 2014-Gennaio 2015 Sierra Leone

Nel mese di dicembre i casi sono ancora 80 al giorno e Lakka è sempre pieno di pazienti, le ultime piogge sono finite e lasciano il tempo alla stagione secca, talvolta dei tramonti superbi ci sorprendono mentre siamo sulla strada di casa che corre parallela all’oceano.

Il lavoro è sempre frenetico, non facciamo in tempo a dimettere malati che altri sono già in attesa e purtroppo la malattia colpisce anche i nostri collaboratori.

Obay lavorava con noi nell’ospedale chirurgico di Goderich e ora come igienista nel Centro di Lakka. Viene ricoverato nel Centro come caso sospetto e purtroppo gli esami del sangue mostrano una compromissione d’organo molto grave fin dall’inizio, si conferma positivo per l’Ebola. Ha una diarrea talmente profusa che lo sfinisce, lo reidratiamo con le infusioni endovenose e lui risponde bene alle cure e ci lascia sperare che andrà bene ma dopo 7 giorni ha un aggravamento con febbre alta e difficoltà respiratorie. La sua ultima notte Obay chiede da mangiare e uno dei suoi colleghi entra in tenda per portargli del cibo. Lo chiama ma Obay non risponde, il collega lo scuote e tenta anche di fargli un massaggio sul torace mentre io e Marco l’infermiere di turno, assistiamo impotenti fuori dalla tenda. Quello che segue è un dei miei ricordi più commoventi: entrano altri 2 igienisti per preparare il corpo e quando la salma è pronta, tutto il personale comincia a cantare davanti alla tenda, canzoni religiose cristiane anche se Obay è musulmano, le donne in segno di grande dolore si tolgono le parrucche e i loro acuti lamenti lacerano la notte calda, i ragazzi si percuotono il petto e pestano la terra coi piedi, lacrime di dolore e rabbia perché questa malattia tremenda non ha risparmiato il loro amico e collega. Lentamente la salma viene portata verso l’obitorio sempre accompagnata da tutti noi che da fuori continuiamo a pregare e cantare. Riposa in pace Obay e che Dio accolga la tua anima.

Il tempo corre e il nuovo centro da 100 posti letto è quasi pronto, i sierraleonesi lo hanno già chiamato White House, vengono fatti i preparativi per allestire i 24 letti di terapia intensiva con tutto il necessario per monitorare, ossigenare, ventilare e incannulare i pazienti, arriveranno presto anche ventilatori e due macchine per la dialisi. I logisti fanno colloqui ogni giorno per trovare il personale che serve, per insegnare loro le procedure di vestizione e per formare gli igienisti che si occuperanno dei malati. Alla fine abbiamo assunto 700 persone tra infermieri, igienisti e addetti alle pulizie e alla sorveglianza.

Noi intanto riceviamo il primo gruppo di medici e infermieri inglesi che avrebbero dovuto darci una mano nella gestione del nuovo centro di trattamento da 100 posti letto. Una serie di incomprensioni e di divergenze sulla gestione di questi malati portano tutto il gruppo inglese a lasciare la missione una settimana prima dell’apertura del nuovo centro. Una campagna mediatica molto negativa su di noi ci lascia amareggiati e delusi, forse abbiamo peccato di ingenuità nel pensare di poter dialogare scientificamente con ministri e responsabili della sanità di questo paese senza tener conto che dietro ogni cosa anche qui ci sono interessi di multinazionali più portate a sperimentare il farmaco miracoloso sull’africano, in modo da averlo pronto per quando un europeo o un americano si ammalerà. Farmaci dai costi impossibili che non saranno mai disponibili in Africa.

Siamo di nuovo soli ma dobbiamo serrare i ranghi perché il Centro si deve aprire comunque e il 15 dicembre trasferiamo tutti i pazienti positivi al nuovo ETC, Ebola Treatment Centre. Lakka rimane un Holding Centre dove vengono ricoverati i malati sospetti in attesa dell’esame che conferma o meno la malattia. Siamo l’unica organizzazione del paese ad avere contemporaneamente un Holding e un Treatment Centre per Ebola.

Nel frattempo, un prete cattolico che vive nella baraccopoli di Waterloo ci segnala la presenza di numerosi casi di malati che spesso non riescono a raggiungere i centri di trattamento. A Waterloo, che dista un ora e mezza da Goderich, vivono 20000 persone tra sierraleonesi e profughi liberiani che dopo le guerre civili hanno perso tutto. In realtà passando tra le capanne dai tetti di lamiera e le strade di terra battuta abbiamo una impressione di ordine e pulizia che non c’è negli slum di Goderich o Freetown. Waterloo è stata una delle zone più colpite dal virus, la cintura sanitaria ha spesso solo impedito che arrivassero approvvigionamenti di cibo piuttosto che la fuoriuscita di malati. I nostri logisti aprono un centro sanitario all’interno di una scuola, per l’isolamento e poi il trasporto dei malati a Lakka con la nostra ambulanza. Vengono anche formati 90 volontari che facendo parte della la comunità, sono in grado di rintracciare il maggior numero possibile di casi sospetti e trasferirli nel centro di holding.

I primi giorni il nuovo ETC ci sembra un mostro bianco gigante in cui perdersi, siamo passati dalle tende a una struttura in muratura in cui la temperatura all’interno consente di stare anche più di due ore e di avere tutto il necessario per una terapia intensiva e sub intensiva. La sensazione di vuoto scompare subito perché in pochissimi giorni tutti i 24 letti di terapia intensiva sono pieni e a Natale sono ricoverati 36 pazienti. Arrivano a darci una mano un gruppo di infermieri e medici coreani che con qualche difficoltà linguistica sono però molto utili nel seguire i malati meno critici mentre noi ci concentriamo sugli altri.

Tutto sembra procedere per il meglio e sono in arrivo nuovi infermieri di terapia intensiva dall’Italia ma poco prima di Natale una triste notizia ci getta nuovamente nello sconforto, un nostro infermiere internazionale si ammala di Ebola e decide di rimanere in Sierra Leone e di farsi curare all’ETC, la pressione psicologica è enorme e non passa giorno che non mi ritornino in mente le facce dei tanti che non ce l’hanno fatta. Lui nei primi giorni cerca il conforto nelle nostre parole pure sapendo bene quale può essere il decorso della malattia ma mai si scoraggia o si lascia prendere dalla disperazione, passano sette giorni in cui la prognosi è incerta finché lentamente ma inesorabilmente comincia a migliorare e dopo 20 giorni viene dimesso guarito. Il giorno della sua uscita dal centro è uno dei ricordi più belli, di nuovo tutto lo staff che canta e balla ma questa volta canti di gioia e di ringraziamento.

Da quando abbiamo aperto il nuovo ETC sono passati tanti pazienti e queste sono le storie di alcuni di loro.

Arrivano da Waterloo entrambe portate dalla nostra ambulanza al Centro Holding di Lakka, lei si chiama MARIATU è una giovane madre che porta in braccio una bimba di 2 anni ALIMA, sono sospette di contagio in quanto sono state in contatto con la nonna che è morta di Ebola. La bimba ha la pelle che brucia tanto è alta la febbre che la sta consumando, non con poche di difficoltà si riesce a farle il prelievo per vedere se è malata e cominciare le infusioni endovenose per idratarla. Il mattino successivo arriva il risultato del laboratorio, sono entrambe positive con una carica virale molto alta e vengono trasferite al centro di trattamento. Mariatu sta molto male e dal suo letto segue la sua bambina che viene trattata in maniera intensiva fin dall’inizio. Sappiamo che l’Ebola non lascia quasi mai scampo a bambini così piccoli, però Alima è forte, risponde alle cure, si mette persino a mangiare latte e biscotti, siamo ottimisti e lo diciamo anche alla mamma che intanto lentamente migliora al punto che la trasferiamo nel reparto sub intensivo. Dopo 9 giorni però Alima continua ad avere la stessa carica virale dell’inizio della malattia, il suo fisico non riesce a sconfiggere il virus, ci guarda stanca, mani e piedi sempre gonfi e gelati, il respiro è un soffio ormai, dopo 11 giorni di battaglia anche la sua anima vola via. Lo diciamo alla mamma che voleva vederla un ultima volta ma non può, piange la sua figlia più piccola che non c’è più, portata via da questa peste moderna e mentre la guardo mi vengono in mente le parole del Manzoni che descrive la madre di Cecilia: “Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

MUSU è una bella ragazzina di 15 anni che ha avuto contatti con due sorelle ammalate di Ebola ed entrambe sopravvissute e lei ha tutti i sintomi della malattia ma tutto sommato le sue condizioni generali sono buone. Infatti dopo pochi giorni nel reparto intensivo viene trasferita in quello dei malati meno gravi finché una notte ci chiamano gli infermieri perché Musu è agitata, il respiro affannoso e superficiale, il cuore che batte veloce, ci guarda senza capire perché improvvisamente sta così male ci chiede di aiutarla e di non farla morire. La trasportiamo di corsa nel reparto intensivo, sotto ossigeno, antibiotici e monitoraggio dei parametri vitali ma l’insufficienza respiratoria è grave e temiamo il peggio. Dopo 36 ore di cure intensive la situazione si sblocca, Musu riprende a respirare normalmente, torna ad avere il suo bel viso disteso e ci chiede che cosa le è successo perché ora vuole tornare a casa dalle sue sorelle e la sua mamma che la stanno aspettando. Dopo 15 giorni Musu esce dal nostro ospedale e riabbraccia le altre sorelle sopravissute.

Sono i primi di gennaio quando ci viene trasferita dall’ospedale cinese di trattamento per Ebola un intera famiglia di positivi: SARAH il nonno di 80 anni, SAIDU un ragazzino di 10 anni, BOI la sorella di 14 anni e un altro nipote EMANNUEL di 17 anni. Il nonno è quello che sta apparentemente meglio ma dopo due giorni improvvisamente si accascia nel letto portandosi le mani al torace e muore così senza che possiamo fare nulla. Il nipotino più piccolo è molto grave ha i polmoni intasati di liquido e secrezioni, lo intubiamo, ventiliamo, trasfondiamo, sosteniamo la pressione del sangue con farmaci ma nulla lo strappa alla morte. Nel letto davanti a lui, la sorella Boi è anche lei in condizioni critiche, semicosciente, il rene è compromesso ma ancora in grado di sostenere una diuresi adeguata, ci sembra che stia rispondendo alle cure, ha avuto delle piccole emorragie, è stata trasfusa con plasma e sangue e sembra stabile, finché improvvisamente un pomeriggio mentre la mobilizziamo per lavarla ha alcuni colpi di tosse seguiti da una emorragia inarrestabile dalle vie aeree, in pochi minuti muore in un lago di sangue. Siamo sconvolti dalla rapidità del quadro e anche perché pochi nostri pazienti sono morti di shock emorragico acuto. Tristemente un altro cadavere è lavato e preparato per il team delle sepolture che come moderni monatti vengono a ritirare i corpi per le inumazioni secondo le regole che l’epidemia impone.

MOHAMED ha 50 anni e vive a Waterloo con suo figlio e la moglie madre di 4 bimbi, quest’ultima da giorni sta molto male, ha febbre diarrea e vomito, potrebbe essere Ebola per cui chiamano la ambulanza per portarla nei centri di raccolta, l’ambulanza però non arriva cosi Mohamed e suo figlio la portano con l’auto di un loro amico all’ospedale cinese che tratta malati di Ebola, il più vicino a Waterloo. La donna muore dopo pochi giorni, la casa di Mohamed dove vivono altre 15 persone viene posta in quarantena e dopo una settimana, lui stesso e il figlio vengono ricoverati da noi, il contatto con la donna ammalata ha trasmesso loro la malattia. Anche la moglie di Mohamed, nonna Margaret e i suoi 4 nipoti dai 4 ai 10 anni vengono segnalati come casi sospetti e portati a Lakka in attesa del risultato degli esami. I bimbi sono spaventati, hanno tutti la febbre alta e sono tutti positivi per la malaria, noi cominciamo a sperare, nonna Margaret fa loro coraggio mentre gli infermieri mettono loro le cannule venose e iniziano la terapia per la malaria e la reidratazione endovenosa. Mentre sono in tenda con loro Margaret mi chiede di suo marito e io non posso che dirle che sta molto male e che molto probabilmente non ce la farà, lei si gira per non farsi vedere dai nipoti e comincia a piangere silenziosa, mentre i bambini che hanno già perso la mamma la guardano perduti. Vengono tutti dimessi, risparmiati dall’Ebola. Nonno Mohamed invece viene intubato e dializzato ma muore dopo pochi giorni. Il figlio ricoverato nel letto a fianco al padre lo vede trasferire in un’altra camera e capisce che le sue condizioni sono molto gravi. Una notte parliamo di suo padre che non c’è più, lui si rifiuta di mangiare e bere e noi dall’interno dei nostri scafandri cerchiamo di consolarlo dicendogli di farsi forza perché deve pensare ora ai suoi bambini che hanno solo più lui e nonna Margaret. E’ lenta la sua guarigione ma alla fine anche lui ce l’ha fa e può tornare a casa.

Ebola per mesi ha seminato la morte tra le famiglie, uccidendo un padre o una madre, lasciando talvolta indenni i più deboli o i più vecchi, altre volte invece non risparmiando nessuno. Ha stappato piccoli figli alle madri che sono sopravissute, altre volte i genitori sono morti lasciando orfani sulle spalle della comunità e tanti sono questi bambini a cui qualcuno dovrà pensare. L’epidemia ha messo vicini musulmani e cristiani sia come pazienti che come infermieri, ricchi e poveri hanno condiviso le stesse paure e angosce e pianto i rispettivi morti. Sono state mobilizzate migliaia di persone per lavorare nei centri di raccolta e di trattamento: operai, spaccapietre, ingegneri, studenti di medicina e non solo, infermieri, cuochi, igienisti, cleaners. Canzoni e ballate sono state scritte per sensibilizzare la popolazione sull’Ebola, per esorcizzare la paura della morte e per dare speranza ai malati. Le città sono state tappezzate di cartelloni sull’Ebola e le radio non facevano che parlarne ogni giorno, dando le cifre ufficiali dei nuovi casi e dei morti provincia per provincia. Come nella immaginaria peste di Orano qui tutto si è verificato nella realtà e noi ne siamo stati testimoni.

Le grandi organizzazioni si sono date più da fare a giustificare di avere sul campo i massimi esperti dai grandi stipendi piuttosto che capire scientificamente qualcosa di questa malattia. Non posso dimenticare i vari visitatori del CDC di Atlanta per esempio che sono passati tante volte nei nostri centri dicendoci che ai loro internazionali era vietato l’ingresso in zona rossa. La cooperazione inglese invece ha fatto molto per questo paese costruendo i centri di trattamento da 100 posti letto ma con quale ritardo sono stati preparati? Se tutto fosse stato pronto almeno 3 mesi prima quando la gente moriva come mosche, quante persone si sarebbero potute salvare? Ad agosto qui è stato un inferno, 28 cadaveri in un giorno solo nel nostro centro di Lakka dove i pazienti entravano e morivano di emorragia o all’improvviso per arresto respiratorio o cardiaco. A dicembre ormai eravamo scesi a 80 casi al giorno e nessuno dei centri da 100 posti letto (ne sono stati costruiti cinque) ha mai raggiunto la piena capacità. L’ETC (Ebola Treatment Centre) da 100 posti letto è l’unico in Africa ad avere una terapia intensiva per malati di Ebola e tutto questo grazie all’impegno e al lavoro di squadra di tutti noi e dei tanti che in Italia e all’estero ci hanno finanziato, sostenuto e aiutato rendendo possibile quello che molti non avrebbero mai neppure immaginato e in un tempo così breve. Emergency ha impiegato sul campo quasi un centinaio di espatriati tra medici, infermieri, logisti, contabili e abbiamo curato piu’ di 200 pazienti positivi per Ebola con una mortalità nel nostro centro del 40%, un grande risultato se pensiamo che era per noi la prima volta che affrontavamo una sfida del genere. Sfida che non ci siamo cercati ma che ci siamo trovati in casa dovendo tenere aperto quello che è stato per tutti questi mesi uno dei pochissimi ospedali del paese a fornire un servizio chirurgico di elezione e di urgenza. Abbiamo organizzato un filtro per i pazienti all’ingresso che ha impedito ai casi sospetti di entrare nell’ospedale chirurgico, salvaguardando il personale sanitario che lì lavora e garantendo un servizio chirurgico di qualità 24 ore al giorno durante una delle epidemie più terribili che si sia mai vista.

Ora finalmente stiamo vedendo la fine di questo incubo, le previsioni dei grandi esperti sul numero dei contagiati si sono dimostrare errate, l’epidemia sta finendo e forse non c’è ne sarà più un’altra cosi devastante. Ma la Sierra Leone rimane uno dei paesi più poveri del mondo, con un tasso di alfabetizzazione molto basso e una mortalità materno infantile molto alta, nelle campagne si continuano a lavare i cadaveri e anche un solo malato può fare ripiombare il paese nell’incubo di 8 mesi fa quando si contavano più di 150 nuovi casi al giorno. La vigilanza deve rimanere alta perché l’Ebola è un mostro dormiente sotto le ceneri di un paese prostrato che ancora piange i suoi 3000 morti.

Rachele

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I sommersi e i salvati

Posted by Rachele on ottobre 20, 2015
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foto di EG

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Ottobre – Novembre 2014 Sierra Leone

Scendendo in una strada sterrata che porta al mare si arriva al centro di Emergency di Lakka dove dal 18 settembre è stato aperto il nostro presidio per il trattamento dei pazienti affetti da Ebola. Al momento abbiamo la disponibilità di 20 posti letto suddivisi in 3 tende una di isolamento per i casi sospetti, una di trattamento per i casi accertati e una tenda per i convalescenti. L’attività nel centro di Lakka è frenetica, quasi ogni giorno abbiamo pazienti all’ingresso che aspettano di entrare nel centro, sono portati da parenti o vicini di casa e spesso sono in condizioni molto gravi per lo stato di debolezza generale dovuto alla febbre e alla disidratazione. Altri pazienti ci vengono trasferiti direttamente in ambulanza dal centro di coordinamento nazionale che sceglie i più gravi nei quartieri già sottoposti a cintura sanitaria e li trasferisce dove ci sono posti letto per il trattamento. Capita che alcuni pazienti ci arrivino già morti o in agonia e per loro non ci rimane che l’umana pietà, la comunicazione ai parenti e la custodia del corpo finché le squadre addette non si portino via i cadaveri per la tumulazione secondo le regole sanitarie che devono essere rispettate durante l’epidemia.

La protezione che tutti noi indossiamo per entrare nelle tende, oltre a rendere estremamente difficile la permanenza per il caldo, ci rende impossibile la visita e il contatto fisico con i malati. Dopo i primi giorni in cui il pensiero di ognuno di noi è più focalizzato sulla protezione personale e sulla paura di essere contagiati, ci si comincia a fare l’abitudine, le tute non sembrano più così soffocanti e il malato e la sua cura tornano ad essere il vero motivo per cui siamo qui. La certezza di essere protetti e di rispettare tutte le regole di sicurezza dentro le tende ci rende più tranquilli e la soddisfazione di poter aiutare a bere e mangiare un malato di Ebola diventa una grande emozione. Cominciamo a capire che la cura intensiva per questi malati è la chiave per poter aiutare a sopravvivere il maggior numero di pazienti. L’idratazione endovenosa e il monitoraggio dei parametri vitali sono essenziali per capire cosa succede aldilà di quella rete che ci separa dai malati. Ogni ora in tenda c’è qualcuno: dal personale dedicato all’igiene del malato e alla pulizia della tenda, agli infermieri che prendono i parametri vitali e somministrano la terapia, ai medici che controllano i malati critici. I nostri pazienti non sono lasciati soli in un letto a sperare di sopravvivere ma sono curati e aiutati a vincere la battaglia per la vita. Perché quella contro l’Ebola è una guerra, si combatte contro una malattia che ha varcato già i confini di tre paesi, si è diffusa nelle città con un numero impressionante di 100 nuovi casi al giorno. Dall’inizio della epidemia sono più di 5000 i casi confermati e nella sola Freetown e dintorni le cifre ufficiali parlano di 1500 casi confermati con una mortalità senza trattamento almeno del 70%.

Noi lavoriamo insieme allo staff locale che è la risorsa umana più preziosa e la nostra prima battaglia è stata vincere la loro paura del contatto anche se protetto con il malato. Abbiamo visto crescere in loro l’entusiasmo e la speranza, ora tutti entrano ad orari nelle tende ed è finalmente passato il messaggio che qui si dà ai malati la stessa qualità di cura che daremmo nei paesi occidentali.

Lionel e Christian sono due fratellini di 8 e 10 anni, la madre è morta di Ebola e loro sono stati ricoverati da noi con il padre. Li vediamo migliorare giorno dopo giorno, riacquistare l’appetito, il sorriso e persino la voglia di disegnare. Dopo due settimane prima la sorellina e poi il fratellino escono guariti dal centro e ci chiedono del loro papà che purtroppo non ce l’ha fatta.

Momoh è un bambino di 10 anni, viene portato dall’ambulanza del centro di coordinamento, è accompagnato dalla madre che versa in gravissime condizioni, non facciamo neppure in tempo a metterla in un letto che muore nell’area di triage. Momoh è disidratato, ha la diarrea, il vomito e la febbre alta, piange e chiama la madre di continuo, è uno strazio sentirlo da fuori e non poter fare entrare nessuno della sua famiglia per stargli vicino. Dopo una settimana di flebo, antibiotici, antipiretici il suo fisico comincia a reagire e da allora è una lotta per farlo mangiare, rifiuta qualsiasi cosa e piange, finché con un panino dolce, qualche banana, e i succhi ricomincia con fatica a rialimentarsi. Dopo 10 giorni lo trasferiamo nella tenda dei convalescenti dove lo viziamo anche noi imboccandolo quando potrebbe mangiare da solo. Non chiama più la mamma, è ancora molto debole e si regge a malapena in piedi ma ce l’ha fatta, ha sconfitto la malattia e esce tra gli applausi di tutti ad abbracciare lo zio e la sua nuova famiglia.

Edna è una bellissima bimba di 6 anni che viene portata da noi da una zona già in quarantena, non sembra così grave all’inizio ma gli esami del suo sangue smorzano le nostre speranze, ha una alta carica virale e le sue condizioni precipitano nel giro di 2 giorni, dobbiamo sedarla per poterla reidratare e somministrare la terapia di supporto ma non c’è nulla da fare la malattia ha vinto.

Abdul ha 10 anni ha perso la madre uccisa dall’Ebola e vive con il nonno in un area rurale, il padre non è con lui perché è stato messo in quarantena in un altro centro. Abdul giace disteso e debolissimo davanti al cancello del nostro centro. Viene trattato in maniera intensiva, con idratazione e antipiretici, sembra rispondere bene ma la mattina dopo il suo letto è già vuoto. La rapidità con cui il virus uccide i pazienti ci lascia sgomenti e anche scoraggiati. Ci sono altri bambini che non ce l’hanno fatta nonostante giorni di trattamenti intensivi e li abbiamo visti spegnersi più lentamente come se la malattia consumasse tutte le loro risorse e lasciasse un bozzolo vuoto al posto del corpo.

Aminata è una donna in condizioni critiche, portata da qualcuno davanti al nostro cancello. I parenti e i vicini di casa hanno infatti molto paura di essere messi anche loro in quarantena, per cui appena depositati i malati se ne vanno, verranno poi avvisati in caso si confermi il sospetto di Ebola, anche se spesso il contagio fra loro è già avvenuto. La paziente è molto agitata, si strappa più volte le cannule che le mettiamo in vena per idratarla e cerca più volte di alzarsi dal letto finendo per cadere a terra e riempirsi di sangue, con pazienza gli infermieri la lavano, la rimettono a letto e le somministriamo dei sedativi ma anche lei non ce la fa.

Un giorno ricoveriamo 3 persone che vivono nella stessa casa, la sorella di un paziente morto nel nostro centro e la sua amica con la quale vende il pesce al mercato. Questa ultima viene accompagnata dalla figlia, Fatmata una ragazza di 18 anni che ci dice di avere anche lei i sintomi della malattia. Sono tutte e tre positive per l’Ebola. Dopo i primi giorni di incertezza prendono tutte e le tre la via della guarigione, si fa fatica a tenere la giovane Fatmata nel letto perché appena sta bene, ben cosciente della sua bellezza posa come una modella al di là della grata!

Johnny è un ragazzone di 28 anni alto almeno un metro e ottanta, fa il pescatore, ha tutti i sintomi della malattia e uno stato di severa astenia e disidratazione. Nonostante le cure le sue condizioni rimangono molto gravi, non è in grado né di bere né di mangiare, è debolissimo, non riesce neppure a cambiare di posizione nel letto. Vediamo qualche piccolo miglioramento seguito da segni preoccupanti di sanguinamento gastrointestinale, lo trasfondiamo e lo seguiamo molto preoccupati. Anche per lui però c’è un punto di svolta e finalmente migliora lentamente ma costantemente, comincia a sedersi sul letto e mangiare da solo, l’Ebola è stata vinta.

Iye Kagbo è la nostra eroina, una donna di 74 anni, santona e guaritrice del suo villaggio, dopo aver partecipato a un funerale accusa i sintomi della malattia e viene ricoverata da noi. Le mettiamo le cannule venose e il catetere vescicale e lei si toglie tutto non tanto perché è agitata ma perché non le sopporta. Per ben due volte la troviamo ai piedi del letto, ci dice che è troppo alto per lei e che fa fatica a salirci sopra e poi vuole andare in bagno e che non la secchiamo troppo con le nostre attenzioni, piuttosto, ci ha già detto di avere la congiuntivite se gentilmente le diamo delle goccine per gli occhi tante grazie… Insomma se ce la deve fare ce la farà da sola! E Iye ha ragione, migliora la febbre e la diarrea, la dieta semiliquida che le diamo le piace molto e non le serve che qualcuno la imbocchi: se la mangia da sola la pappa! Dopo 15 giorni esce dal centro guarita con rispetto e onore da parte di tutti noi, non sarà l’Ebola a portarsela via!

Abu Bangura è un giovane ragazzo di 21 anni, di professione giocatore di pallone, viene da noi da solo, dice che non si sente tanto bene e vuole sapere se ha l’Ebola. Ce l’ha e fin da subito ci appare molto grave per i sintomi neurologici e lo stato di agitazione che ci obbligano a sedarlo per poterlo curare. Dopo alcuni giorni sembra migliorare, lo troviamo la mattina seduto sul letto con la bocca piena di dentifricio, ci chiede se possiamo aiutarlo a lavarsi i denti. Va bene, sta migliorando siamo contenti, ha ricominciato anche a bere fin troppo, 10 litri al giorno… e fare le flessioni e le corsette la mattina presto, gli diciamo che non è proprio il caso perché è malato e deve stare a letto soprattutto non deve continuare a rimuoversi tutte le cannule per fare le flessioni. Il suo umore è alle stelle ci batte il cinque quando entriamo in tenda e ci chiama in continuazione per attirare la nostra attenzione. Poi un nuovo peggioramento con deterioramento della funzione renale e insufficienza respiratoria, somministriamo diuretici in alta dose e l’ossigeno, sembra riprendersi ma poi di nuovo febbre altissima, la respirazione sempre più affannosa e nessun miglioramento con l’ossigeno, Abu è in coma, siamo convinti che non passerà la notte. La mattina successiva l’infermiera di guardia ci dice sorridente: Abu ha chiesto la colazione e respira molto meglio! Non ci sembra vero, ma ogni giorno è un passo in più verso la guarigione definitiva e il nostro Abu non è solo un survivor ma un highlander!

In poco più di due mesi nel centro di Emergency a Lakka abbiamo trattato più di 100 pazienti malati di Ebola, queste sono alcune delle loro storie che raccontiamo perché ognuno di loro non sia solo un numero sul libro delle ammissioni ma un volto e una persona che ha il diritto di essere curato con la dignità e la professionalità che ogni paziente merita.

Rachele

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per una brocca d’acqua

Posted by Rachele on gennaio 28, 2011
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E’ una bella mattina di sole quando le donne della famiglia si recano al serbatoio d’acqua in cima alla collina. Ma qualcuno vede in questa madre e i suoi figli un obiettivo militare, come se fosse così difficile distinguere una famiglia afgana da un gruppo militari armati… e così parte il missile con il suo carico di morte e distruzione e nel giro di un attimo distrugge una famiglia. Due bambini muoiono sulla collina, la madre e 4 figli vengono trasportati all’ospedale di Emergency.
Tre sorelle dai 5 ai 10 anni appaiono subito molto gravi. La più piccola è in coma perché i frammenti dell’esplosione le sono penetrati in testa e nell’addome, le due più grandi sono in shock per i frammenti penetrati nel torace e nell’addome.
Comincia la solita corsa in sala operatoria per cercare di strappare alla morte chi è troppo giovane per morire così, per una brocca d’acqua in una bella giornata di sole… Si mobilitano i chirurghi, si attivano gli anestesisti, il laboratorio per il sangue. Le tre sorelle vengono operate: una per una toracotomia d’urgenza, l’altra all’addome e la terza per un intervento alla schiena nel tentativo di evitarle la sedia a rotelle a vita. I frammenti dell’esplosione sono anche penetrati nelle gambe e nelle braccia delle tre bimbe e i chirurghi con pazienza rimuovono i tessuti distrutti e le schegge.
Le due ragazzine più grandi si svegliano nella terapia intensiva di Kabul, si guardano intorno, chiedono della madre, anche lei ricoverata nel nostro ospedale, chiedono quell’acqua che è quasi costata loro la vita. Fa pena vederle così tutte e tre, nei grossi letti, con flebo, pompe, cannule ovunque perché i bambini non dovrebbero stare in un letto di ICU, ma giocare con gli aquiloni sotto il cielo di questo paese… Invece una di loro non correrà mai più dietro agli aquiloni colorati perché le schegge le hanno lesionato il midollo e quello che la aspetta d’ora in poi è la vita di una paraplegica a soli 10 anni, per sempre…
Per due giorni la più piccola delle sorelle rimane attaccata al ventilatore, in coma farmacologico per dare tempo al suo cervello di riparare i danni del trauma. Il terzo giorno proviamo a svegliarla e per quelle strane risorse che solo i bambini hanno, la bimba si sveglia, respira bene, apre gli occhi di nuovo a quel mondo che le ha finora concesso molto poco… Non parla ma si guarda intorno, afferra il dito dell’infermiere per portarselo alla bocca e poi la siringa per bere. E’ una bella piccola bambina, con gli occhi pieni di vita e i capelli rossi per l’ennè che qui si usa specie dopo il Ramadan per colorare mani e capelli.
Non sappiamo chi ha lanciato il missile, né ci interessa saperlo perché per noi la guerra sono solo i nostri pazienti, soprattutto questi bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere qui e che imparano cosa è la morte e la sofferenza prima ancora di imparare a camminare. Ed è per loro che Emergency è qui e che continua con i suoi medici e infermieri a dare una speranza di vita e di futuro a tutte le vittime di guerra.

Rachele

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una sera all’improvviso

Posted by Rachele on ottobre 30, 2009
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Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.

Rachele

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un gelato per Chanta

Posted by Rachele on aprile 04, 2009
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Un giorno come un altro, una famiglia di contadini come tante qui in Cambogia si sta recando al lavoro nei campi con il carretto trainato dai buoi, sopra ci sono un padre, una madre con una piccolina di 6 anni in braccio e altri 3 fratelli più grandicelli, davanti al carretto cammina la sorella più grande di 17 anni. La ruota del carro fa pressione su quella mina anticarro che chissà da quanto tempo era lì sotto, il boato è forte e improvviso, la sorella più grande si gira e nel tempo di un respiro ha perso metà della sua famiglia… il padre e tre fratelli muoiono sul colpo e la madre con la figlioletta più piccola sono scaraventate a terra… Vengono portate all’ambulatorio più vicino dove la bimba appare subito in condizioni molto gravi, respira male e si lamenta di dolori addominali… La caricano su un ambulanza e via verso l’ospedale che dista 3 ore di auto… E’ sera quando l’ambulanza che porta la piccola Chanta arriva al nostro pronto soccorso, la visitiamo, la studiamo con le radiografie del torace ma nulla è chiaro… siamo perplessi perchè le condizioni sembrano stabili anche se quel respiro e quel addome non ci convincono e poi è così piccola, ha 6 anni ma pesa solo 13 kg…

Decidiamo di farle una tac torace e addome: ha contusioni polmonari bilaterali e un immagine molto dubbia di sanguinamento sul fegato, le controlliamo l’emoglobina ogni ora… scende di 1 grammo e poi un altro… decidiamo di portarla in sala…

E’ sulla barella con un pupazzetto rosso tra le mani, una infermiera le chiede se ha mai mangiato un gelato… lei dice che non le piace poi ci pensa un po’ e ci dice che lo vorrebbe proprio tanto un gelato… l’infermiera la guarda e le sussurra: “te lo prometto Chanta, lo mangerai quel gelato…”

Nell’addome c’è sangue… ci guardiamo con il chirurgo e pensiamo la stessa cosa, Dio fa che non sia il fegato… e invece ha proprio una lesione epatica molto grave… lo staff della sala si mobilita… comincia l’ennesima battaglia per la vita al di qua e al di là dei teli verdi… noi anestesisti che speriamo che il chirurgo faccia il più in fretta possibile per arrestare l’emorragia e guardiamo i bottiglioni dell’aspiratore con angoscia… ci affanniamo a trovare le vene, a trasfondere, a ventilare la paziente, non ci sono ventilatori pediatrici… né infusori per bimbi così piccoli… L’emostasi riesce e il chirurgo chiude l’addome lasciando un packing di garze… ma le condizione respiratorie sono brutte… ci vuole più di un ora per estubare la bimba e non è brillante… passa la notte nella terapia intensiva ma la mattina successiva ha 50 di frequenza respiratoria, broncospasmo, un respiro superficiale, piena di secrezioni e poi comincia ad avere delle apnee… In queste condizioni – dico allo staff- non ce la farà, presto andrà in arresto respiratorio e non possiamo aiutarla, non abbiamo i ventilatori… non c’è modo… Gli infermieri mi guardano, la loro responsabile, che è anche l’infermiera più esperta dell’ospedale, mi dice che se la intubiamo, la ventilano loro a costo di stare lì 24 ore… Penso ma come fanno a non rendersi che non è possibile! Se non si danno per vinti loro allora va bene, ci proviamo… Ogni volta che va in apnea – spiego- la aspirate dal naso così lei si sveglia comincia a tossire, migliora la saturazione… ma dovete andare avanti così tutta la notte… ve la sentite? Mi rispondono che ci sarà un infermiere solo per la piccola Chanta per tentare di farla arrivare viva al mattino dopo quando la riopereremo per toglierle le garze…

Il mattino è arrivato, sono passate 48 ore. Ci serve sangue fresco per i fattori della coagulazione e le piastrine… non c’è problema, mi dicono, ci sono due donatori compatibili pronti a donare il mattino dell’intervento: una è la sorella e l’altro è il nostro amministratore… Ormai c’è tutto lo staff che fa il tifo per Chanta… Si va in sala… l’emostasi ha tenuto, il packing rimosso e ora la piccola deve respirare… Ce la teniamo 2 ore in sala, sulla barella… guardo l’infermiera che la assiste e che le dice con tenerezza: “su Chanta, respira piccolina, ricorda che devi mangiare il gelato…”.

Sono passati alcuni giorni, Chanta con quelle misteriose risorse che solo i bimbi hanno, ce l’ha fatta, tornerà a correre con gli altri 5 fratellini. Chiedo alla sorella più grande se è contenta… è stata al suo capezzale nei giorni più critici… Non sorride, non è felice, pensa al padre morto, l’unica fonte di sostentamento della sua numerosa famiglia non c’è più… mi dice che non sa ora come faranno a tirare avanti, non si possono sfamare 6 bambini solo raccogliendo legna, lei è la più grande e si sente responsabile per tutti, lei non sa neanche cosa è una scuola ma sa cosa è la fame e sa che dovrà tornare presto in quei campi maledetti che le hanno distrutto la famiglia, sperando di non finire su altra mina.

Rachele

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una madre, un figlio

Posted by Rachele on febbraio 05, 2009
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Neang San è un ragazzo di 22 che arriva in pronto soccorso per una ferita penetrante al torace e all’addome dovuta a un bambù che lo ha trapassato come una lancia. Sono casi frequenti perché i bambù sono materiali molto resistenti e utilizzati nella costruzioni delle case. Ci rendiamo subito conto che si tratta di un caso molto grave e decidiamo di operarlo immediatamente per escludere lesioni interne. Purtroppo aperto l’addome la situazione appare quasi disperata: diaframma lacerato e una lesione gravissima al fegato che richiede una resezione e un packing per controllare l’emorragia. Solo in sala trasfonde 12 sacche di sangue. Ne esce comunque vivo anche se in condizioni critiche. Con il chirurgo parliamo alla madre e al padre, ci andiamo giù molto pesanti, non vogliamo dare quasi nessuna speranza, la mortalità di casi come questi da noi, in una vera e propria terapia intensiva e con la possibilità di trasfondere plasma, piastrine, fattori della coagulazione sarebbe comunque altissima… Il nostro inglese è tradotto in khmer, le parole cadono come macigni, pesantissimi, la madre si copre il viso, si inginocchia e comincia a piangere, ci guarda cerca qualche speranza… vorrei dirle che forse…, magari ce la fa, insomma è uscito vivo, chissà… voglio anch’io convicermi… Finchè è vivo, ci diciamo, facciamo tutto quello che qui possiamo fargli, un infermiere dedicato solo a lui che registra ogni modificazione dei parametri. Continua a sanguinare e lo trasfondiamo ancora… Lui è perfettamente cosciente, ci guarda avvicinarci al suo letto con due occhi grandi e scuri con un’espressione che non si dimentica… La madre gli è accanto e segue ogni nostra azione, lo vede sveglio, che gli parla, ci chiede se proprio non c’è nulla che si possa fare… La guardo… gli bagna le labbra secche, gli copre la fronte con degli asciugamani bagnati, gli strofina le mani e i piedi freddi… Passano 48 ore… in cui lo abbiamo rincorso tra liquidi e trasfusioni per tenergli su la pressione e la diuresi, si chiamano parametri vitali, sono solo numeri… quel drenaggio nel torace che continua a riempirsi inesorabilmente ci dice che il sanguinamento c’è sempre e che la nostra battaglia per la sua vita non lascia molte speranze. E’ sul letto operatorio per la seconda volta, sempre cosciente che ci guarda con quegli occhi… e penso che forse il mio sarà l’ultimo volto che vedrà… vorrei invece che fosse quello della madre. Si sveglia anche questa volta, ma la situazione è disperata, il sangue trasfuso, siamo ormai a 24 sacche di sangue, non contiene quello che serve per la coagulazione, qui non abbiamo il plasma e ricomincia a sanguinare… Ha lottato come un leone fino all’ultimo, ma non c’è più nulla da fare, la madre gli è accanto, lo accarezza, anche se è sedato gli parla dolcemente senza piangere e senza fermarsi mai e continuerà a parlargli anche dopo che gli infermieri l’hanno preparato e avvolto nei teli bianchi…

Rachele

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