emozioni

Non c’è differenza

Posted by Magamagò on Ottobre 02, 2012
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foto di EP

foto di EP

Ti ho curato, ho cercato di curarti il corpo, e tu mi aiutavi a riscoprire la tua anima, la tua essenza; ho riscoperto chi mi stava intorno, filtrati attraverso te che avevi la saggezza di una vita vissuta a lungo e totalmente. E ho riscoperto me stessa, nelle parti simili a te e in quelle comunque derivanti da te. Mi sono arrabbiata con te … no, non con te ma con la malattia che mi impediva di assaporare i momenti belli vicino a te.

Quanta rabbia avevo all’inizio: mi sfuggivi dalle mani e non riuscivo a trattenerti, quanto tempo ho perso,quanto …

Poi ho capito, mi hai fatto capire che bastavi tu a lottare, e che io dovevo essere al tuo fianco e basta.

Sono anche scappata, quando l’angoscia era troppo forte, e tu lo sai, ma poi ritornavo perchè tanto eri comunque con me, dentro di me.

Chi era il malato e chi era il guaritore? Più io malata per non aver capito il ciclo naturale della vita, e che tu invece in questi mesi mi insegnavi ad accettare, come quando mi hai detto, quell’ultima mattina : “Non ce la faccio più “.

E’ questa la morte? Averti sempre di più vicino, nel cuore? Ben venga allora, ma che fatica dirlo !!

(dedicato ad un paziente coi capelli bianchi in Rianimazione che mi ricordava papà morto da poco )

MAGAMAGO’

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Parenti

Posted by zarianto on Agosto 09, 2012
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foto di EP

foto di EP

Nel tepore autunnale di una sera di Ottobre, quando la notte, avida di tempo, anticipa sensibilmente la sua immanenza e i lampioni tratteggiano profili urbani dai contorni assai familiari, mi avvio sul vecchio sentiero, cosparso di foglie secche, mentre una Luna curiosa e impaziente si affaccia tra i rami, quasi ormai spogli.  Mi dirigo verso l’ultima notte di guardia, in terapia
intensiva pediatrica, poiché da domani lavorerò altrove, più lontano, ben oltre il sentiero, in un luogo non raggiungibile a piedi: tornerò ad occuparmi di adulti.  Si tratta di una scelta professionale, del tutto priva di contenuti affettivi.
Così, incedo più lentamente del solito, nel tentativo di catturare ogni istante, ogni immagine, ogni profumo del cammino che tutti i giorni, per anni, attraverso la poesia del parco fluviale, mi aveva condotto dai miei piccoli e tanto amabili pazienti.  Assaporo quei momenti come fossero le ultime boccate del fumatore o l’ultimo bicchiere del bevitore e con quei gusti, che già sono ricordi, nel palato, mi ritrovo in reparto, dove le voci del personale e i suoni dei monitors mi catapultano nella realtà lavorativa, proprio al termine dell’orario di visita dei parenti, che coincide con il cambio di turno.
Indossata la divisa verde, raggiungo il collega pomeridiano che colloquia coi parenti: la piccola rianimazione che, in presenza dei soli pazienti assume dimensioni apparentemente normali, si ritrae decisamente, quando viene occupata anche dal personale e dai visitatori, tanto che, da un capo della stanza si percepiscono distintamente le parole pronunciate all’altro!
Vengo presentato a una coppia di genitori che ancora non conosco, ma che ricorderò a lungo, poiché mai nel corso di una vita, finora, mi sono sentito così piccino!  Come posso dimenticare la gioia e la felicità di quel padre, la luce emanata dallo sguardo che fende le lenti degli occhiali e mi travolge d’imbarazzo?  E il sorriso commosso di soddisfazione e speranza della madre?
Entrambi per l’ottenimento…dell’adozione!
Si tratta, in effetti, dei nuovi genitori di  un piccolo paziente, un infante portatore di sindrome di Down, ricoverato in terapia intensiva a seguito di un intervento correttivo di malformazione connatale, abbandonato appena dopo la,nascita.  Mi raccontano di un figlio più grande, anch’egli adottivo, paraplegico perché colpito da una neuropatia congenita, che brama di conoscere il nuovo fratellino e che pertanto verrà presto a fargli visita.  Mi congedo con una vigorosa e rispettosa stretta di mano e sorvolo sul mio trasferimento,
attonito per l’esistenza di un tale coraggio e per una capacità di amare così intensa, prorompente e incondizionata (sicuramente immaginabile, ma quanto realistica, invero?) e al cui cospetto…mi pare di svanire!
Terminato il giro-visite, consumati alcuni dolcetti d’addio col personale, raggiungo lo studio del medico di guardia, dove trascorrerò l’ultima notte, insonne, riflettendo poco sul futuro, ma molto… sul passato!

Zarianto

Flash nel buio

Posted by Raven on Giugno 11, 2012
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Te lo sei chiesto. Te lo chiedi di volta in volta, ad ogni turno, ad ogni paziente, ad ogni paio di occhi che incroci sulla tua via.

Eppure, dopo anni tra corsie ed ambulanze ancora non lo vuoi capire, o più semplicemente, non ti arrendi.

-Respira?-

No, ovviamente. E cosa diamine vuoi che respiri uno che è in arresto da almeno sette minuti, dottore?

Quel torace che speri si sollevi spontaneo all’improvviso, lo stesso che tu, per assurdo, in quel momento stai comprimendo verso il basso, con così tanta forza da sembrare quasi di volerlo schiacciare sotto la tua mano, così grande su un petto che ti sembra troppo piccolo per poterla contenere.

Gli ossimori di questo lavoro, gli ossimori della vita stessa.

Un attimo prima stai scherzando con i tuoi cari, un attimo dopo è il destino che fa uno scherzo a te.

L’ambulanza che arriva a sirene spiegate in quella folle lotta contro il tempo e contro il buio, noi che lottiamo insieme a te e ti chiediamo di non arrenderti proprio adesso.

Tu mi guardi per un attimo, il medico ti infonde l’ennesima adrenalina, il monitor bippa, tutti che si muovono frenetici intorno a te, io che non mi fermo e continuo a lasciarti i segni delle mie mani così grandi.

Non posso fermarmi adesso che ci stai guardando, non posso permettere al buio di prenderti ora che la luce è tornata nei tuoi occhi.

Abbiamo vinto insieme questa dannata corsa, oggi?

Cerchi di alzare un braccio, poi ci ripensi: rimane sospeso a mezz’aria per qualche attimo in silenzio, finchè non ricade abbandonata sul letto.

Il medico urla che vuole altra adrenalina, altra elettrolitica e altro di altro di tutto, ma è passata più di un’ora e il braccio è rimasto sempre così, immobile nella posizione in cui l’hai lasciato tu.

È calata la notte anche stavolta.

Raven

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Come vacche sacre gonfie di pianto

Posted by massimolegnani on Maggio 28, 2012
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Sono brutte e sfatte le donne, appena partorito. Sudano in gennaio e tremano d’estate, pallide sempre, in un travaglio che non ha mai fine.
Le contrazioni, ondate di dolore come una mareggiata, la paura di schiantare, la dignità che sfuma, le urla all’aria che squarciano la pelle.
Le conosco tutte le stazioni di questa viacrucis, antica più di Cristo, la via della passione da cui passa la sofferenza di ogni donna.
L’episio, il parto, poi la placenta espulsa con l’ultimo conato e infine la sutura a carne quasi viva e quasi morta.
Sono stravolte le donne, appena partorito. Escono da quella sala malferme sulle gambe, sorrette da uomini che tremano e qualche volta svengono, gli uomini. Le donne invece s’accasciano sul letto, vorrebbero dormire, dimenticare di essere famiglia, che i mariti sono troppo goffi e troppo dolore i figli. Tornar bambine, essere altrove.
E invece arrivi tu, candido giudice malevolo, ad annunciare la pena del dolore aggiunto, che non tutto è andato per il verso giusto.
Si scusano di piangere le donne, appena partorito. Si alzano dal letto frastornate e vanno, più vecchie di vent’anni, incontro al figlio nuovo che già si trova appeso a un filo.

Infagottata
in una vestaglia
di lanetta stinta
la donna sta
immensamente sola
piegata ai vetri dell’incubatrice
come una colpa che non è.

massimolegnani

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Solstizio d’inverno

Posted by TNT69 on Maggio 15, 2012
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Che strano, leggo i vostri racconti e poi mi soffermo sulle mie notti.

Voi tutti parlate di notti in cui i campanelli suonano, di monitor accesi, di vite da salvare, di lotte infinite per poter arrivare in pronto soccorso in tempo per non morire. Se arriva una chiamata o suona un campanello l’adrenalina va alle stelle, ci si prepara per l’incognita, cosa dobbiamo fare? Chi incontreremo? Cosa troveremo? Pronti all’impossibile.

Da me invece le notti sono per lo più calme, adrenalina molto poca e spesso messa in circolo più dai parenti in ansia che non dai pazienti. Quando suona un campanello si sa quasi sempre cosa ci aspetta…e a differenza di tutti voi noi non lottiamo per salvare la vita, la accompagniamo, ci sediamo accanto, cerchiamo di dare un senso a quell’ultima fase che qualcuno deve pur seguire.

Il mio direttore, pochi giorni fa, dopo la morte di un ragazzo di 11 anni, ha detto che facciamo un lavoro contro natura, mentre tutti salvano vite noi le accompagniamo alla fine senza tentare di salvarle, lo vorremmo, quante volte vorremmo che le cose non finissero così… Quanto senso di impotenza con cui fare i conti quando finisce una notte tranquilla dove avresti voluto salvare, ma hai dovuto accompagnare e dare/ darti un senso per la morte di un figlio giovane, di una madre o di un padre che lascia i suoi bimbi, un marito o una moglie con cui si è condivisa una vita. Molti non lavorerebbero mai qui, ma dopo 10 anni io scelgo ancora di starci, perché di preciso non lo so, credo che cogliere l’ultimo respiro di un essere umano ha un qualcosa di sacro, di unico e sicuramente ha un senso che non capisco ma che sento nel profondo e che mi da motivazione a continuare…e… la Croce illuminata della Chiesa di fronte a noi ( sarà un caso? ) mentre la notte volge al termine mi conferma nel profondo del cuore che un senso c’è.

TNT69

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Non lo so

Posted by Bruno on Aprile 25, 2012
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Non è molto che lavoro in terapia intensiva ed ancora non riesco, e non so se ci riuscirò mai, a mantenere una certa distanza da te, che dall’altra parte del letto dove abbiamo messo tua moglie mi subissi di domande a cui non so dare risposte.

Non riesco a darti risposte, non perchè sono un infermiere e non posso comunicarti diagnosi, non perchè non conosca i meccanismi che hanno portato tua moglie da una banale febbre alla morte cerebrale, passando attraverso una meningite fulminante; non riesco a darti risposte perchè tu e tua moglie avete la mia età ed è difficile capire e farti capire come si possa morire per una febbre a trent’anni. Già da ieri mi ero fatto una idea di quale sarebbe stato il destino di tua moglie, ma non potevo dirtelo e quindi dovevo nascondere pensieri ed emozioni che avrebbero confermato quella sensazione che mi dici sentivi nella pancia.

Come ho visto fare da colleghi e medici, inizio ad usare termini medici come edema cerebrale, potenziali evocati, elettroencefalografia, che mi servono per continuare a parlare, perchè ho una paura fottuta che tu, inizi a dire quello che provi e che metta a nudo il mio senso di inadeguatezza, che tu faccia entrare in me il tuo dolore.

Forse il mio guscio è ancora troppo morbido, ma 5 minuti dopo le tue parole mi sommergono come un fiume giallo e denso nel quale non riesco a stare a galla, ma solo ad affondare sempre di più.

Ed il tuo dolore diventa anche mio, in un secondo i corsi su comunicazione diagnosi infauste, supporto ai parenti, distacco professionale, vengono cancellati come petali di ciliegio da un colpo più forte di vento.

Non riesco a guardarti negli occhi mi vergogno troppo.

Non posso neanche immaginare quanto tu stia male.

Mi chiedi perchè il linguaggio comune e quello medico siano così diversi, se uno ti dice che stanno provando a svegliare qualcuno, ti immagini che ci sia un miglioramento e che forse l’altro si sveglierà, non pensi che sia un test per valutare la gravità di un danno al cervello; se ti dicono che la situazione è stabile, pensi che la situazione non si sia aggravata, non che non ci sia più nulla da fare. Mi chiedi cosa ne sarà della tua vita di domani, come farai col vostro figlio di 4 anni, a cosa starà pensando tua moglie in questo momento, se può sentire la tua voce, se può percepire il tuo bacio sulla fronte.

Non lo so.

Mi dispiace.

Lei mie risposte perdono senso, ti sto rispondendo col cuore in mano e a fatica riesco a non farti notare il nodo che non permette all’aria di gonfiarmi i polmoni.

Esco dalla stanza, ma non riesco a smettere di pensare a quanto fragile sia il filo che tiene due persone che si amano insieme.

Finisco la guardia, tu hai deciso con un gesto di infinito amore di far vivere tua moglie nel corpo di altre persone che stanno male.

Torno a casa, spero che dimenticherò tutto e vado a dormire.

Al mattino davanti allo specchio di nuovo i polmoni non vogliono saperne di gonfiarsi e le lacrime escono senza nessuna smorfia del viso. Sento qualcosa dentro che non sarà più come prima, come se tu avessi scritto direttamente sulla mia anima.

Bruno

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Notte in Hospice

Posted by TNT69 on Aprile 06, 2012
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foto di MV

foto di MV

Silenzio, luci soffuse, il rumore del condizionamento.

Dopo aver finito il giro ci si sofferma davanti al computer, si abbassano le luci. Ci si scalda con un the caldo, ci si racconta un po’, la vita, le esperienze, ci si conosce o si discute degli eventi lavorativi. A volte si ricordano pazienti particolari, quelli che ci hanno insegnato qualcosa, ognuno ne ha uno diverso. Poi si gira per vedere se tutti riposano, chi dorme, chi è sedato. In qualche stanza qualche parente si ferma a fare compagnia al proprio caro.

Nel corridoio si mischiano i differenti respiri, come una musica. Poi un silenzio strano, lieve, un senso di pace. E’ tangibile, nessun campanello che suona, tutti dormono come non volessero disturbare o farsi sentire. Una presenza palpabile. E’ la Morte che aleggia, si aggira nel reparto, è tangibile, ma non fa paura, allevia le sofferenze, e sai dove potrebbe andare e vai dove pensi di trovarla e ti fermi per gli ultimi respiri del Sig…o della Sig.ra.

Assistere una persona che muore è come assistere ad un parto, testimoni di un passaggio, la fine di una vita terrena e l’inizio di qualcos’altro, ignoto, ma non temuto. Un mistero, un dono.

Grazie a voi che ho accompagnato in questi dieci anni di Hospice.

TNT69

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Ohne Wiederkehr

Posted by Lena on Gennaio 01, 2012
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“…Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.”
R. M. Rilke

Ho sempre scelto di mettermi in gioco e 3 anni fa, fresca di laurea, mi sono traferita all’estero con entusiasmo per fare la specializzazione. Perchè volevo impararlo bene questo mestiere, potendo dire, sì me la sento di prendere in affidamento la vita degi altri senza paura.

Sono stati anni durissimi: a 1500 km da casa, orari massacranti, responsabilità enormi per una specializzanda. Sono stata sbattuta nella Rianimazione di un Trauma Center dopo poche settimane di preparazione. Di sola di notte, di sola nelle sere d’estate, di sola nei week-end. Per di più responasabile dell’ Emergency Team intraospedaliero. E così al senso di novità e avventura si è sostituito quel senso di inadeguatezza e rimprovero. E se avesse avuto un’altra anestesista, più esperta, più preparata, sarebbe andata meglio?

Tutto questo stress da un lato mi logorava a poco a poco, dall’altro l’autonomia di lavoro e i progressi che facevo di giorno in giorno mi rendevano orgogliosa. Poi è bastata una piccolissima goccia per far crollare quel fragile equilibrio. Un superiore un po’ più stronzo del normale, che critica continuamente con tono aggressivo e che si lamenta che i pazienti non fanno progressi con malcelato rimprovero. Dopo aver dato anima e corpo per la Rianimazione, non ce l’ho più fatta…Non facevo che piangere, maledicendo il giorno in cui sono partita dall’Italia.

Ho avuto la forza di licenziarmi e cercarmi un nuovo posto, questa volta non così lontano dal confine, in un ospedale più piccolo, nelle mie adorate montagne. I miei colleghi si sono tutti stupiti delle dimissioni, nessuno se lo aspettava. Solo ad un professore ho detto la verità, che sto male e che sono alle stremo delle forze. Nessuno l’avrebbe mai immaginato, mi ha detto con dolcezza e dispiacere, ero considarata la più brava, quella che ha sempre la situazione sotto controllo, che ha intuito clinico e che anche nelle emergenze se la cava sempre egregiamente. Che avrei potuto chiedere aiuto, una pausa, ma per orgoglio non l’ho fatto. Ho recitato bene la mia parte fino a che ho potuto.

Mi dispiace ammettere che non ce l’ho fatta, è una resa in fondo, ma a volte bisogna scendere negli abissi dell’anima per conoscersi meglio. Perchè tutte quelle catastrofi umane con cui ogni giorno abbiamo a che fare, ci toccano più di quanto non percepiamo. Mettiamo decine di drenaggi toracici, cateteri centrali, transfondiamo litri di sangue e plasma, cardovertiamo, defribilliamo e rianimiamo mille e mille volte. Combattiamo a fianco dei nostri pazienti ogni giorno per strapparli alla morte, diciamo loro bugie per lasciargli qualche speranza, parliamo onestamente con le famiglie, le nostre parole distruggono loro la vita e spesso siamo solo tristi messaggeri. A volte li salviamo dalla morte, tuttavia non siamo in grado di regalargli la vita che avevano prima. Interrompiamo le terapie quando non ci sono più speranze, concediamo una dolce morte, decretiamo la morte cerebrale, ci sostituiamo a Dio.

Quegli sguardi persi nel vuoto, quei boccheggi, quella vita parallela che si svolge nelle Rianimazioni ci forgia e ci ferisce al contempo. E una volta che si è entrati così addentro nella vita e nei suoi risvolti, si è a un punto di non ritorno, la leggerezza se ne è andata per sempre anche per noi.

Lena

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Notte di Natale in pediatria

Posted by massimolegnani on Dicembre 25, 2011
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Ho scelto io questo turno di lavoro poco ambito. Ero convinto che mi avrebbe fatto bene starmene occupato. Ora sono pentito. Il reparto è diventato troppo tranquillo, inanimato, l’ambulatorio s’è svuotato ed anche il telefono ha cessato di squillare. È come se per Natale la gente avesse firmato con noi una tregua, così mi sento una sentinella inutile e temo che l’inazione mi costringa a guardarmi dentro.

Mentre sono lì a rimuginare, vedo di sfuggita una figura entrare in ambulatorio. La raggiungo un po’ svogliato. Ma non mi trovo di fronte una mamma in ansia per il suo piccolo, è una donna anziana, in vestaglia. Mi guarda intimorita, come l’avessi colta in fallo:- Vado via subito- si affretta a dire. Alta, dritta, emaciata, il volto scolpito dalla malattia, gli occhi scavati ma ancora vivaci, la signora non parla. Si muove per la stanza come in un museo e osserva con stupore i grandi dinosauri malati disegnati sulle pareti. Ogni figura viene studiata minuziosamente ed io temo che la donna non ci sia con la testa. – La Medicina ha fatto passi da gigante!- afferma con convinzione. Accenno un sorriso ebete, ma lei prosegue:- finalmente incominciate a capire che dovete prendervi cura delle persone, prima che delle malattie. Queste pareti mi confortano, anche se non sono più una bambina. In queste figure leggo il desiderio di esorcizzare paura e dolore. Ed anche la disponibilità a mettersi in gioco- aggiunge, indicando il vecchio dinosauro con il camice che stranamente mi somiglia.

La signora emana una dignità austera che il turbante di velluto blu, con cui cela la nudità del cranio, non sminuisce certo, anzi accentua, come se quel simbolo inconfutabile di malattia le conferisse un’aura speciale. Non so cosa risponderle, ma mi accorgo che le sue parole mi fanno bene. Desidero che riprenda a parlare. E lei parla, serena, della battaglia che sta per perdere, mi tiene una mano tra le sue, asciutte e calde, come fossi io il malato da confortare.

Poi tace. Si toglie il turbante e lascia che il mio sguardo si posi sul suo cranio lucido. Non abbiamo più pudore. Ci fissiamo muti e sorridiamo senza sapere perché.

La donna si alza in piedi con qualche fatica e mi dà il braccio. Sono le cinque del mattino quando l’accompagno al suo reparto.

Ci lasciamo come due vecchi amici. Un breve cenno della mano che vale più dei tanti insulsi auguri che scambieremo in questi giorni.

massimolegnani

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Pronto…?

Posted by Bellerophontes on Dicembre 05, 2011
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Quasi finita.
Esco.
Sigaretta.
Fa caldo oggi, quel caldo afoso che contrasta con il fisiologico bisogno di assumere al più presto il clinostatismo e lasciare calare l’adrenalina.
Non cala, sono le otto del mattino in questa caotica città: i bambini vanno a scuola, il bar dell’ospedale serve i pochi cornetti avanzati dall’orda dei “ragazzi del pronto” che, puntualmente alle sei mezza cercano coccole in un cappuccino forse troppo tiepido, mai così buono eppure necessario.
Occhi gonfi… ok sta scendendo, il parasimpatico riprende con prepotenza il suo ruolo evolutivo e spinge l’uomo al letto e la donna -toste le donne del pronto- a casa,dai bambini o dai mariti, che forse a volte non capiscono perché cazzo la loro compagna di vita abbia scelto quel lavoro.
Jeans, Converse rosse e maglia di qualche festival reggae di chissà dove, sigaretta in bocca e come uno zombie vengo travolto dalla miriade di impegni quotidiani altrui…
-ecchecazzo scansati,non vedi che sei in mezzo alla strada? ma sei fatto?-
-magari-
-vaffanculo-

Vai in edicola
E chiedi il tuo Corriere, non altro.
Sembri solo uno mediamente sfatto che compra un giornale, abbastanza invisibile per i più, riconoscibile appena per il fonendo che tracima dalla borsa col suo plumcake spiaccicato in fondo.
Forse solo per quello in edicola non controllano se i soldi sono buoni.
Stai pensando a cosa avresti sbagliato al posto dei tuoi strutturati e dei tuoi specializzandi, chè rappresenti il fondo della catena alimentare dell’AZIENDA-oddio-ospedaliera e sparare a te non è come sparare alla Croce Rossa, non buchi nemmeno la gomma, al limite, nell’ “area calda” rantoli nel tuo emotorace, questione di dieci minuti, del tutto fisiologica.
Quando esco conto trentadue passi.
Il parcheggio bici delle aule.
Questa sigaretta non è per me, è per festeggiare chi vedo uscire sulle proprie gambe e persino io lo immaginavo sin da subito, ma a volte non ci speravo, quelli che invece riempiranno con gioia le consegne delle cliniche d’accoglimento e quelli che vengono presi mezz’ora prima, sul retro da quell’anonimo furgone bianco senza scritte, interni in nichel, ragazzi 9,30 autopsia….
Pensavo all’inizio che ognuno di quei camioncini rappresentasse un nostro errore, il classico momento in cui ti penti di non aver scelto l’avvocatura, in cui ti chiedi se forse non era quello l’unico caso in cui andava applicato ciò che stai studiando su tomi da duemila e passa pagine, e per gli altri hai avuto solo culo.
Invece ho capito che rappresenta la vita come le auto in coda, il caffè schifoso delle macchinette alle tre del mattino, i maghrebini ammanettati alle barelle da sbirri che portano una bandiera in cui credo e che a volte -poche- meriterebbero che qualcuno gliela facesse mangiare in corsia, la gente che litiga in fila alle poste, quell’ EPA che EPA magari boh…, mah… forse proprio EPA non è fino a che il valore del D-Dimero non sembrava un jackpot dell’enalotto.
O per quel sogno, quel cucciolo con i capelli d’oro che fissi come un ebete, e raccogliere l’anamnesi, da grande onore diventa una seccatura, perché devi scrivere al computer e non puoi perderti nei suoi occhi, e tutto ciò che vorresti dirle è solo: “andrà tutto bene perché io sono qui”, anche se tutto sommato non conti un cazzo.

È particolare.
È dura, ti serve un maestro.
Io l’ho trovata…

Ho ormai fumato la mia quarta sigaretta.
Questa è per voi che entrate distesi in area rossa, col fiato che si spezza nella gola con valori tennistici al saturimetro, forse la squallida lampada al neon sopra il vostro letto sarà l’ultima immagine impressa nelle vostre rètine .
Combatteranno con il cuore di chi non può permettersi di sbagliare ed insieme a volte sbaglia di proposito, perché ricorda che non si cura un cuore malato, ma una persona malata di cuore.

La quinta mi porta a casa e mi insegna che di strada ne manca e tanta…
Darò tutto per i miei pazienti, amore fraterno a tutti coloro che mi lavoreranno a fianco, il mio rispetto e l’obbedienza al mio maestro.

Grazie Pronto,
Sto diventando grande

Bellerophontes

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