LE DIRETTIVE ANTICIPATE DI UN ANESTESISTA-RIANIMATORE
Le un giorno mi succedesse di non poter più scegliere per me e la mia sorte fosse affidata ai miei colleghi, desidero, prima di tutto, che nella fase più acuta della mia malattia sia fatto il possibile per salvarmi: credo nella scienza e amo la vita.
Desidero però che fin dall’inizio il loro impegno non sia profuso acriticamente, ma costantemente ispirato alle migliori evidenze scientifiche da un lato, e al minor grado d’incertezza possibile dall’altro.
Laddove non vi fossero certezze, desidero che sia la buona pratica clinica a guidarli.
Così, chiedo loro di accettarmi in Rianimazione solo se saranno sufficientemente sicuri di poter fare qualcosa per me.
Altrimenti di non farmi soffrire.
Una volta ammesso in reparto, desidero che essi, nel corso della malattia, mantengano costantemente ancorati ad un ben bilanciato rapporto costo/beneficio il giudizio clinico e le successive decisioni.
Per interpretare il senso che io do alla parola “costo”, desidero sia ascoltata mia moglie, l’unica in grado di dire al posto mio per che cosa valga la pena per me vivere.
Quello che in merito posso affermare io oggi è di aver sempre cercato una proporzione tra quantità e qualità della vita.
Per qualità di vita intendo la possibilità di avere coscienza di me nel mondo, memoria di me e dei miei cari, di essere per loro un riferimento affettivo, ma anche un utile appoggio nelle diverse congiunture della loro esistenza.
Non voglio invece essergli di peso.
Durante il periodo di mia “non presenza” desidero che i miei cari possano essermi accanto in Rianimazione senza limiti di tempo, liberamente.
Così, gli si allevierà l’angoscia dell’impotenza, e, vedendomi, si renderanno conto del mio reale stato giorno dopo giorno, facilitando ai colleghi il compito di informarli.
A questo riguardo, chiedo ai colleghi di essere chiari.
Perché i miei cari possano comprendere senza dover sopportare ansie inutili, ma anche senza farsi illusioni.
Ove possibile, sarebbe opportuno che fosse sempre lo stesso medico a rapportarsi: “una faccia, una parola”.
Desidero che i colleghi fondino poi le loro decisioni sulla prognosi, non su ciechi tentativi.
Desidero che ricordino di condividere con i miei cari le scelte terapeutiche che dalla prognosi deriveranno.
La responsabilità di quelle scelte non dovrà né ricadere totalmente sui miei cari, per un malinteso senso di rispetto della mia autonomia, lasciandoli soli a decidere senza gli strumenti per farlo, né dovrà essere avocata totalmente ai colleghi escludendo i miei cari dalla possibilità, in futuro, di ricordare di aver contribuito a fare qualcosa di buono per me.
Se le cose dovessero andare male, una volta maturato il profondo convincimento dell’inutilità di continuare con le terapie, desidero che i colleghi lo dicano chiaramente ai miei cari e condividano con loro la scelta di desistere da ogni ulteriore trattamento, avendola i colleghi stessi, per primi, condivisa.
Desidero che questi ultimi compiano ogni sforzo per far comprendere ai miei cari che l’unico modo per dimostrarmi ancora affetto è lasciarmi morire.
Desidero che i miei cari rispettino questa mia volontà.
In quel momento sarà importante per loro che sia un collegio medico, rappresentativo di quel reparto, a esprimere la prognosi, non un medico solo.
Perché credo che la scelta di lasciar morire sia tanto responsabile quanto angosciosa, e che la solidarietà espressa da una comunità umana di fronte alla morte aiuti tutti i suoi componenti ad affrontarla: familiari dei malati, medici, infermieri.
In questo caso desidero che mi siano garantite una totale analgesia e una profonda sedazione e che mi sia concesso morire con i miei cari accanto.
Se durante la mia malattia dovessi invece rimanere cosciente e consapevole, desidero essere informato di ogni situazione e messo nella possibilità di scegliere io per me.
Di scegliere anche di rifiutare trattamenti vitali, se giudicassi il vivere nella nuova condizione non consono al mio concetto di dignità.
Folfox 4