pensieri

Se rinasco un’altra volta faccio il rianimatore

Posted by diprivan on ottobre 14, 2013
pensieri / 1 Commento

foto di EP

foto di EP

Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo.

No. Non è vero.

Il lavoro più bello del mondo è quello che ti fa vivere sereno facendo la cosa che più ti piace e facendoti pagare per farla e lasciandoti tanto libero per fare ciò che ti piace in egual modo.

Forse sì. Il mio lavoro è il lavoro più bello del mondo…se non fosse per quel piccolo dettaglio del farti vivere sereno.

Ci lamentiamo sempre di essere sottopagati…di meritare più di quanto spendiamo in energie mentali e fisiche e in responsabilità.

Ormai non faccio più il rianimatore “da strada” e mi manca l’ossigeno. Mi manca non potermi sporcare le mani. Mi manca il suono delle sirene. Mi manca non poter più condividere con chi sale con me in macchina di essere lì sul posto e di sentire che puoi fare la differenza. Quando sei per strada ci sei tu…e solo tu…e se non fai tu devi fare per forza tu.

Ormai faccio il rianimatore “di centrale” e sto risparmiando un sacco di soldi in benzina che investo puntualmente in pantoprazolo. Devi fare la magia e trasformare il tuo orecchio in un occhio e guardare attraverso la cuffia del telefono cercando, per quanto possibile, di non litigare, di fidarti, di organizzare, di far finta di essere lì anche tu e l’unica cosa che pensi è che vorresti con tutto il cuore sporcarti le mani.

Ormai faccio il rianimatore che porta notizie dal “fronte” pronto soccorso e quando sei lì ci sei tu, il collega più esperto (Dio sia lodato sempre sia lodato), il consulente, l’altro consulente, il tecnico, lo specializzando, l’internista, il medico accettante, ….vado avanti?

Ho capito perché lo faccio…non è vero che siamo sottopagati…sono tutte fregnacce…non c’è prezzo per un lavoro così.

L’unico motivo che mi spinge a farlo è perché lo amo alla follia. Non potrebbe essere altrimenti.

diprivan

Tags: , , , ,

Guardiani…

Posted by TNT69 on marzo 28, 2013
emozioni, pensieri / 3 Commenti

foto di MV

foto di MV

Ancora una notte, tranquilla, un incontro con la morte, che di notte è quasi sempre calma, silenziosa, attesa per alleviare le sofferenze di corpi ed anime angosciate. Leggo le vostre storie e in questa notte particolarmente tranquilla mi soffermo su titolo del blog “nottidiguardia”.

E’ vero siamo dei Guardiani, di eventi, storie, attimi fuggenti a volte così intensi e profondi da lasciare dei solchi nelle nostre anime. Dalle storie scritte emergono dei Guardiani attenti, premurosi, che ce la mettono tutta per salvare, guarire, curare o accompagnare. Ci mettono l’anima, il cuore, la passione, la fatica e la rabbia per poter fare al meglio nonostante i limiti e gli ostacoli della realtà quotidiana che vivono.

E così sono qui in questa notte tranquilla a leggervi con un groviglio di emozioni nella pancia che il silenzio della notte amplifica, sperando che i racconti continuino e che i Guardiani non si estinguano mai!

Grazie a tutti!

TNT69

Tags:

Lei

Posted by Pills on marzo 15, 2013
pensieri / 2 Commenti
Foto di MV

Foto di MV

Hai passato momenti bui e difficili, di cambiamento e di rinnovo.

C’è stata la “grande fuga” dei dipendenti, ci sono stati anni di magra, ci sono stati periodi di aumento impressionante di quote rosa (in arancione) con il successivo problema: “E mo’ le spinali chi le tira giù dalle scale?”.

Ora il trend pare essersi ripreso, sia in numero che in parità dei sessi.

Gente è entrata ed è rimasta, altri sono andati via per studiare e lavorare. Altri sono usciti e ora sono sposati. Il loro matrimonio è stato privato. Non una sola nota di arancione tra i banchi, neanche virtualmente sotto la giacca o l’abito elegante.

E’ aumentata la famiglia allargata grazie alle nascite di bambini molto voluti e travagliati. Non è stato semplice ma ora la felicità sprizza furiosa dagli sguardi dei miei compagni. Fuoriesce violenta dalle foto e video che fanno alle loro creature. Invade tutti senza pietà quando i pupi vengono a trovarci.

Dei “nuovi” c’è che si interessa, chi vivacchia, chi è sbruffone, chi è curioso e fa delle domande il suo pane, chi si esalta, chi ha un passato importante ma lo gestisce bene, chi sembra messo lì per caso, chi flirta, chi ride e basta, chi medita, chi ha una vita scombinata e tenta di ricucirla con la nostra attività.
Mi impensieriscono queste persone, perché Lei è impietosa con chi non ha proprio idea di dove inizi la sua esistenza. Porti i il valigione (ma basta anche una borsetta) di tuoi problemi alla guardia e Lei farà in modo che in serata ti si rovesci sulla testa con una violenza inaudita. E’ matematico. Crudele ma matematico.

Il tacito contratto recita:
“Non verrai in guardia coi cacchi tuoi ad occupare la tua mente. Tu servi focalizzato e sgombro da rimuginamenti.
Nel caso li avessi la cura è camerata con porta chiusa o garage o cucina. 10 respiri profondi, pensieri zen e si ricomincia in pieno stile Hakuna Matata ”

Mi è capitato di trasgredire, come capita a tutti prima o poi. A volte hai così tanti pensieri che ti sembra che la testa voglia scoppiare e non riesci nel tuo intento di astrazione.

Il duro suolo di cemento del garage, il piano d’acciaio della cucina, il sintetico arancio fluo e la pelle di viso, collo e mani accolgono bene le lacrime per poi farle scivolare via ed essere puliti come prima, solo un po’ più salati. Garantito al limone. Ho parlato troppo di Noi, torniamo a Lei (che in fondo è Noi).

Sta passando una durissima transizione. Ha qualche ematoma qui e là, ma guariscono per poi riformarsi per poi guarire ancora una volta. Ci sta lavorando su con qualche protezione di fortuna. E’ come se fosse un Irish coffee: è buona complessivamente ma è bifasica.

In superficie è trasparente, limpida, quieta anche durante movimenti bruschi e soprattutto omogenea. In profondità è opaca, torbida, scura, puoi vederci le onde se crei turbolenza e la sulla sua omogeneità ci sarebbe da argomentare.
Per quanto uno mischi, le due fasi a periodi tendono a tornare divise.

Lei sta solo aspettando che più di qualcuno si stufi di essere Irish Coffee e voglia diventare Bicerin: bifasico in origine ma mixabile con estrema facilità ed efficacia.
Ma se l’alcol che sta sopra al caffè, che è l’ingrediente maggiore, non ha alcuna volta di evaporare e di trasformarsi in panna liquida rinunciando ad un po’ della sua massa per guadagnarne in densità, palatabilità e omogeneità…se l’alcol non vuole saperne io da umile Bicerin non posso fare altro che dispiacermi un po’.

Mi dispiaccio perché Lei in fondo è una bella entità. Plasma i suoi componenti secondo l’indole di ognuno. Che tu tenda alla leadership moderata od estrema, che tu tenda a seguire le correnti maggiori e ad essere sbatacchiato da un fronte all’altro a seconda del vento, che tu tenda ad essere un outsider chiuso nel suo guscio ai più ma libro aperto per alcuni, che tu sia gasato, che tu sia non tagliato per l’attività, che tu abbia sete di sapere ed imparare…chiunque tu sia e che tu so sappia già o ne sia ancora all’oscuro, Lei ti farà sbocciare. Fiore o rovo, dipende da te e dalle tue motivazioni. Lei non nega nulla a quasi nessuno. Solo chi non sa chi è rimarrà in boccio ed uscirà in boccio. Lei non è il luogo per trovarsi, ma il luogo per scoprirsi.

La Squadra, se sai e vuoi viverla, ti dona splendide amicizie, furiose litigate, grandi pensieri, chili di senso di responsabilità, difficile vita di comunità se uno non è già abituato e molto altro che è meglio scoprire che elencare.

Mai precludersi niente una volta entrati. “Never say never”.
Ho iniziato con dei dubbi, sono cresciuta con delle certezze, ho continuato a crescere con degli amici (adesso anche fuori guardia), continuo il mio percorso cambiamenti di opinioni e e qualche scazzo, ho trovato il nirvana in borghese con un compagno arancione.

Un’estate di una notte ogni nove a parlare in garage o in postazione, ad aprirsi in ambulanza durante le check list, a dare piccoli segnali e ad instillarsi leggeri sospetti. E’ iniziata in arancione senza che nessuno dei due lo sapesse, scintillando coi catarifrangenti alla luce dei fari nella notte.
E’ finita dopo la cena di squadra con un bacio, tutti e due finalmente consapevoli dopo una rapida somma degli eventi. Ora risplendiamo anche senza fluo e catarifrangenti.
E Lei, alla fine, ad essere stata la nostra madrina, guardiana, chaperone.

Dunque, grazie Squadra, madre e matrigna. Grazie per tutto.

Pills

Tags: , , ,

Tre indizi fanno una prova

Posted by Davide_dlba on gennaio 16, 2013
pensieri / 1 Commento

foto di MV

foto di MV

Agatha Christie parlava di segni del delitto, io di casualità.

Casualità che possono portare a commettere l’atto finale di una scelta.

Indecisioni, confermate o sbaragliate dalla faccia della moneta che è voluta cadere a faccia in giù quella mattina.

In un gioco a testa o croce, io, in questi quattro mesi, è come se avessi sempre puntato su ‘testa’.

Sognato che la Croce fosse sparita dal mondo per un po’, semplificandomi le cose. Mattinate e Settimane di lancio della moneta. La gara è alla meglio dei 120 lanci, 119 volte è uscita testa, ogni mattina della mia vita universitaria è uscita testa.

Ma Il 120esimo è il lancio decisivo, rischi di buttare tutto a puttane per una cazzo di Croce. 119 indizi non fanno una prova, fanno una quasi vittoria, un quasi successo, un quasi. Se fosse un ‘quasi’ sarei Fottuto.

(Ciao a tutti, è stato un bellissimo periodo, ho trovato qualcosa da fare nella mia vita ma devo mollare perchè in questi quattro mesi, pardon centoventi giorni, mi è uscita una Croce proprio all’ultimo lancio. Mi cercherò altri posti e altre persone continuando a lanciare e a lanciare)

Quella spontaneità che era seduta di fianco a me mentre il neurochirurgo mi faceva la domanda dell’esame. In quei secondi ho visto davvero la monetina partire dal polso di un essere superiore ed invisibile. In quel secondo pensavo al fatto che se fosse uscita testa anche a quel lancio allora sarebbe stato il terzo indizio, avrei avuto tra le mani e formalmente sul mio libretto universitario blu, una prova. Quella prova è uscita, era la mia domanda, inesistente sui normali libri di testo, presa in prestito da linee guida specialistiche. Nella mia risposta c’era più passione che conoscenza, anzi la conoscenza era massima ma la passione che mi ci aveva condotto era stata ancora di più. Era come se per andare a prendere il mio jet privato avessi avuto a disposizione il teletrasporto. La passione è stata il mio teletrasporto, da bambino che leggeva gli articoli di focus sul cervello. Da ragazzino che impara il nome di malattia di Parkinson allo studente che argomenta i vantaggi della deep brain stimulation nella terapia a lungo termine del paziente con scomparsa di responsività alla L-Dopa. Tante persone hanno messo qualche euro per comprarmi la super macchina del teletrasporto. Quattro mesi, centoventi giorni, in cui ho capito quali erano le rotaie. Il primo lancio della moneta è stato un regalo del caso, che si è presentato il primo giorno di tirocinio sotto forma del mio attuale Prof. Tramite questo piccolo regalo, casualità dell’ordine alfabetico della segreteria di facoltà, sono entrato in quel mondo che volevo tanto conoscere, che spiavo negli articoli di giornale dell’inserto medico scientifico. Un camice addosso. Un punto di partenza.
Per me non era un semplice esame di Neurologia. Era tutta la fede in quel che avevo sempre pensato ad essere messa completamente in dubbio. Non tanto una scommessa alla Pascal, più come quella del vecchiaccio che con tre mesi di vita si gioca le sue ultime settantadue ore su questo fottuto pianeta giocando un numero fisso in cui ha sempre creduto alla Roulette di un casinò del Nevada. Estremo come gesto, patologico se visto in modo oggettivo, romantico se lo si guarda da un altro punto di vista

(Sto bene adesso, disintossicato da quello che eri stata, fiero di essere quello che sono in questo momento)


Ti rivedrò domani sera e mi chiederai dell’esame, nonno, non potendo mai venire a sapere che in questi centoventi lanci sei stato il mio unico e grande esempio di vita.
Te lo dimostrerò girandoti il caffè.

 

Davide_dlba

Tags: , ,

Scrivere per non svuotarsi

Posted by Liquida on gennaio 01, 2013
emozioni, pensieri / 6 Commenti

foto di HA

foto di HA

E voi chi siete? vi scopro stanotte… e vorrei stare a leggere tutti gli scritti, scoprire tutte le storie, le impressioni. Che bello trovare altri dottori che scrivono… che sentono il bisogno di tirare fuori qualcosa di buono da tutto questo, qualcosa di buono anche per loro, non solo per chi viene curato ed assistito. Vorrei leggervi… ma mi bruciano gli occhi, non riesco a stare troppo davanti allo schermo, lo sguardo traballa, gli occhi sono in fiamme, dopo già… quante? sedici ore di guardia? sì… e la mattina è ancora lontana.

E’ stato bello scoprirvi così, per caso, cercando i lattati alti su internet, che lo so che non si riesce mai a trovare niente di preciso sul web, ma non ho il libro adatto qui e poi confesso che…l ‘equilibrio acido base non l’ho mai capito! mai! La prima notte di guardia di settembre, e piove, e fa freddo anche! Era da un po’ che non facevo la notte… e riprendere con il (solito) turno di 24 ore dopo il sole, il caldo, le vacanze, il mare, le serate sul balconcino… è davvero dura.

Bello scoprire che c’è qualcuno che, dopo una guardia, vuole fissare le sue emozioni, impressioni, stanchezze e quant’altro, credo sia importante per non tornare a casa completamente svuotati.
Io prima scrivevo di più, per aggrapparmi alle cose. Negli ultimi mesi invece torno a casa svuotata (colpa anche di questi turni disumani e… lasciamo stare) e non voglio. Ora sorrido, vi ho scoperto, vi leggerò, scriverò. Mi sentirò meno sola, meno aliena.

buon lavoro e buona notte

Liquida

Tags: , ,

Passi perduti

Posted by Giramondo on settembre 01, 2012
pensieri / 2 Commenti
foto di DB

foto di DB

L’arredamento e’ piuttosto spartano: uno o due tavolini, alcune sedie, il computer o il registro per scrivere gli interventi.

In ogni blocco operatorio c’e’ sempre un corridoio; in genere unisce i lavandini, dove strumentisti e chirurghi si lavano le mani prima degli interventi, con la camera operatoria vera e propria.

E poi piastrelle sul pavimento e le immancabili lampade al neon con la loro luce pallida e gelida.

Rumori di monitor e di strumenti chirurgici.

Anche in questo ospedale c’e’ un corridoio che unisce le sale operatorie.

L’ospedale dove lavoro in questi mesi si trova piantato in un paese nel mezzo dell’Asia, in una Nazione dove e’ stata esportata “la democrazia” senza che nessuno lo richiedesse e con un risultato penoso ( letteralmente, penoso…).

In questo corridoio si mischiano i passi di anestesisti e chirurghi provenienti da diverse parti del mondo con i passi degli infermieri locali.

Non sempre questi passi hanno una meta.

I passi dei chirurghi, per esempio ( ed io sono uno di quelli ).

Li vedi che camminano avanti e indietro, tra un intervento e l’altro, mani dietro la schiena.

Sguardo a volte assente, a volte attento a cogliere eventuali segnali anomali provenienti dalle sale operatorie.

Avanti e indietro, per sciogliere un po’ le gambe e la tensione dalle ore spese fermi in piedi al tavolo operatorio.

Passi senza meta, passi perduti.

Passi per pensare.

Pensare al Paziente che ho appena operato per una ferita da arma da fuoco toraco-addominale: ho fatto tutto secondo i sacri testi di chirurgia; adesso pero’ serve soprattutto un aiuto di Dio, che qui viene chiamato con un altro nome.

E in questo ospedale, a diecimila chilometri da dove sono nato e cresciuto, questi passi servono anche per pensare a casa.

Pensare ai miei Genitori che invece di avere il conforto di un figlio vicino hanno lo sconforto di avere una persona lontana che lavora in una zona non certo tranquilla.

Pensare a mio fratello ed alla sua stupenda famiglia con due bambini.

Pensare ai miei amici, da quanti anni li conosco ( alcuni da tutta la vita ), e a come mi piacerebbe prendere con loro una birra stasera, seduti ad uno dei tavolini all’aperto di uno dei locali della nostra citta’.

Pensare a lei, che vedo al monitor del computer alla sera ( se c’e’ elettricita’, e fuso orario permettendo ). Lei che vorrei avere vicino per parlare e condividere le gioie e gli sconforti di questo lavoro. Lei che ha capelli ed occhi nerissimi, pelle liscia e mulatta.

Lei che e’ piccola di statura ma e’ una grande donna.

Lei che mi capisce perche’ lavora in un reparto di terapia intensiva.

Ma il suo reparto, e la sua vita, sono in Italia…

” Doctor come please, next Patient is ready in room 2 “

” I’m coming…”

Mi dirigo verso i lavandini per il “rito” del lavaggio delle mani.

I miei gesti ed i miei pensieri adesso sono solo per lo sfortunato disteso sul lettino operatorio.

I miei passi si dirigono verso la sala operatoria numero 2.

Giramondo

I miei tempi erano diversi

Posted by Pills on marzo 08, 2012
pensieri / 3 Commenti

“Ehhh, certo che ai miei tempi era tutto diverso!”
Ricordo chiaramente i miei pensieri di bambina e poi adolescente nel sentire questa frase.
Non potevo credere che gli anni e il tempo potessero plasmare le persone, o meglio generazioni intere in modo così radicale.
Non mi pareva possibile che i bambini non avrebbero più avuto voglia di vedere Spiderman, I Biker Mice, gli orsetti Gummi, la Pimpa e l’Albero Azzurro.
Non mi pareva possibile che la boy band “Blue” si potesse separare un giorno e che le borchie sulla cintura passassero di moda.
Non mi sarei mai immaginata di lasciar andare i miei compagni delle elementari e di non aver più voglia di vederli tutti i giorni, così per quelli delle medie e anche per quelli del liceo.
A quattordici anni non mi sarei mai immaginata a ventun anni, a perseverare nei miei errori sentimentali, dopo una storia prematuramente seria.

Mai mi sarei immaginata sulle ambulanze, con la divisa arancione ad alta visibilità. Mi ricordo perfettamente da piccola in compagnia del nostro pasticcere di fiducia. Alla sera a volte andava nel laboratorio ma non nell’angolo con la planetaria, le fruste, gli stampi e le farine. Andava in un angolino diverso e prendeva un vestito arancione, si metteva questa grossa giacca con strisce catarifrangenti ed usciva. Una volta siamo andati a trovarlo, io e il mio papà. Mi ha detto con fare curioso:”Vuoi vedere un’ambulanza?”. Ricordo di aver annuito un po’ timida e di essere salita su questo Ducato bianco che mi sembrava gigantesco. Era giallo dentro e sapeva di disinfettante.
C’erano un sacco di oggetti strani, delle cinture, la barella col materasso e le sue cinture di sicurezza e una coperta. C’era una tavola di plastica che serviva a portare le persone e un’altra barella metallica. C’erano mascherine e scatole di guanti e cose appese alle pareti e i cassetti straripanti di oggetti.
Sono scesa aiutata dal mio papà, perché c’era un gradino troppo alto per me.

Quattordici anni dopo sfrecciavo nelle notti invernali con la zip della giacca palesemente troppo grande per me tirata su fino al naso, accompagnata da altri due figuri ugualmente abbigliati, dalla luce azzurra dei “funghi” e l’ambulanza sapeva dell’odore acre dei malati.
Ero un’aggregata, “arrivata ieri e con decorrenza domani” come ama dire il mio capo. Non sapevo nulla. Non sapevo usare un ambu, non sapevo del pehaft, non sapevo delle forbici di Robin. Una cosa la sapevo: era il 14 novembre 2009 e ero agitata perché c’erano più di trenta persone che non conoscevo ed ero appena diventata parte di quel casino.
Mi hanno fatta uscire subito. Ho girato tantissimo. Due psichiatrici, un neurologico piuttosto grave, un tossico piuttosto violento.
Nelle guardie a seguire ho imparato i nomi di tutti e di tutti gli oggetti della borsa e dell’ambulanza. Pizzetto mi ha insegnato a sbarellare con lui sopra la barella. Skywalker mi ha insegnato come si massaggia durante un servizio particolarmente intenso.
Ho lavato miliardi di volte quel pentolone gigante, quella padella per il sugo incrostata.
Mi sono sentita poco considerata mille volte. Mi sono chiesta altrettante volte il perché dell’atteggiamento dei miei superiori. Perché l’arroganza, il tirarsela, l’essere scontrosi e borbottoni.
Non ho mai fiatato. Ho sempre sopportato e ho ricoperto il mio ruolo: l’apprendista.
Ho fatto il corso faticando per il tempo da passare sui manichini, alle lezioni, a fare pratica. Ho passato gli esami in un tripudio di gloria. Era il febbraio 2011.
Nel frattempo sono entrati altri aggregati, molti dei quali estremamente curiosi, umili ed operativi. Questi sono miei cari amici, di quelli ai quali puoi insegnare e raccontare, con i quali ridi davanti a vignette e video in internet, con i quali ti senti fuori dal servizio, con i quali puoi confidarti e anche piangere.
Da marzo dico sempre più spesso “Ai miei tempi…”
Sono entrati una serie di personaggi poco umili e poco capaci. Pretendono di sapere già tutto dopo una volta. Si offrono di fare delle attività quali cucinare o lavare i piatti e poi si lamentano delle stesse attività pretendendo di non stare in sede in servizio ma di andare in postazione nonostante le loro scarse capacità (molte volte non dovute a loro stessi).
Ai miei tempi ho aspettato con ansia e agitazione l’opportunità di andare in Medicalizzata e ora che finalmente ci vado spesso, godo della fiducia che mi danno (se mi mandano in Tango vuol dire che mi reputano una persona in grado di cavarsela).
Ai miei tempi ci rimanevo male se finivo al centralino per tante volte di fila o se finivo in una postazione loffia.
Ai miei tempi stavo zitta per tutto e me la cavavo da sola e mi lamentavo tornata a casa
Adesso pretendono si scavalcare chi ha più esperienza, di andare dove vogliono loro, di non lavare mai, di non cucinare e di fare cose che non spettano ai non Militi.
Vogliono il sangue. Ma senza umanità, umiltà, pazienza e capacità di ascolto , il sangue ferisce e basta. Oppure ti passa addosso come acqua su un k-way. E perdi il senso di quello che fai e della persona che sta soffrendo dietro al sangue. Perdi il senso della parola Volontario. Diventi Sanguinario e basta.
Ed è da persone vuote.
Ho ventun anni. E in squadra c’è chi dice che io sia più umile, matura ed esperta di persone di trenta-quaranta-cinquanta che sono capricciose ed impazienti.
Ai miei tempi questo non era la norma.

Pills

Tags:

oggi per domani

Posted by folfox4 on aprile 28, 2011
pensieri / 6 Commenti

LE DIRETTIVE ANTICIPATE DI UN ANESTESISTA-RIANIMATORE

Le un giorno mi succedesse di non poter più scegliere per me e la mia sorte fosse affidata ai miei colleghi, desidero, prima di tutto, che nella fase più acuta della mia malattia sia fatto il possibile per salvarmi: credo nella scienza e amo la vita.

Desidero però che fin dall’inizio il loro impegno non sia profuso acriticamente, ma costantemente ispirato alle migliori evidenze scientifiche da un lato, e al minor grado d’incertezza possibile dall’altro.

Laddove non vi fossero certezze, desidero che sia la buona pratica clinica a guidarli.

Così, chiedo loro di accettarmi in Rianimazione solo se saranno sufficientemente sicuri di poter fare qualcosa per me.

Altrimenti di non farmi soffrire.

Una volta ammesso in reparto, desidero che essi, nel corso della malattia, mantengano costantemente ancorati ad un ben bilanciato rapporto costo/beneficio il giudizio clinico e le successive decisioni.

Per interpretare il senso che io do alla parola “costo”, desidero sia ascoltata mia moglie, l’unica in grado di dire al posto mio per che cosa valga la pena per me vivere.

Quello che in merito posso affermare io oggi è di aver sempre cercato una proporzione tra quantità e qualità della vita.

Per qualità di vita intendo la possibilità di avere coscienza di me nel mondo, memoria di me e dei miei cari, di essere per loro un riferimento affettivo, ma anche un utile appoggio nelle diverse congiunture della loro esistenza.

Non voglio invece essergli di peso.

Durante il periodo di mia “non presenza” desidero che i miei cari possano essermi accanto in Rianimazione senza limiti di tempo, liberamente.

Così, gli si allevierà l’angoscia dell’impotenza, e, vedendomi, si renderanno conto del mio reale stato giorno dopo giorno, facilitando ai colleghi il compito di informarli.

A questo riguardo, chiedo ai colleghi di essere chiari.

Perché i miei cari possano comprendere senza dover sopportare ansie inutili, ma anche senza farsi illusioni.

Ove possibile, sarebbe opportuno che fosse sempre lo stesso medico a rapportarsi: “una faccia, una parola”.

Desidero che i colleghi fondino poi le loro decisioni sulla prognosi, non su ciechi tentativi.

Desidero che ricordino di condividere con i miei cari le scelte terapeutiche che dalla prognosi deriveranno.

La responsabilità di quelle scelte non dovrà né ricadere totalmente sui miei cari, per un malinteso senso di rispetto della mia autonomia, lasciandoli soli a decidere senza gli strumenti per farlo, né dovrà essere avocata totalmente ai colleghi escludendo i miei cari dalla possibilità, in futuro, di ricordare di aver contribuito a fare qualcosa di buono per me.

Se le cose dovessero andare male, una volta maturato il profondo convincimento dell’inutilità di continuare con le terapie, desidero che i colleghi lo dicano chiaramente ai miei cari e condividano con loro la scelta di desistere da ogni ulteriore trattamento, avendola i colleghi stessi, per primi, condivisa.

Desidero che questi ultimi compiano ogni sforzo per far comprendere ai miei cari che l’unico modo per dimostrarmi ancora affetto è lasciarmi morire.

Desidero che i miei cari rispettino questa mia volontà.

In quel momento sarà importante per loro che sia un collegio medico, rappresentativo di quel reparto, a esprimere la prognosi, non un medico solo.

Perché credo che la scelta di lasciar morire sia tanto responsabile quanto angosciosa, e che la solidarietà espressa da una comunità umana di fronte alla morte aiuti tutti i suoi componenti ad affrontarla: familiari dei malati, medici, infermieri.

In questo caso desidero che mi siano garantite una totale analgesia e una profonda sedazione e che mi sia concesso morire con i miei cari accanto.

Se durante la mia malattia dovessi invece rimanere cosciente e consapevole, desidero essere informato di ogni situazione e messo nella possibilità di scegliere io per me.

Di scegliere anche di rifiutare trattamenti vitali, se giudicassi il vivere nella nuova condizione non consono al mio concetto di dignità.

Folfox 4

Tags:

attimi

Posted by Icy24 on marzo 18, 2011
pensieri / Nessun commento

La sigaretta si consuma lenta sul posacenere mentre il fumo lentamente si dissolve davanti allo schermo… so ch’è tardi e so che domani avro difficoltà a svegliarmi così come accade ogni volta che indossiamo quella maglietta blu scuro con una grande croce rossa sulla schiena… ma anche stanotte ho (abbiamo) aggiunto qualche altro mattoncino prezioso su quello che sarà, un domani, il muro dei ricordi…
…mattoncini senza nome…
…mattoncini con volti e parole……come quello che descrive Claudietta che medica e pulisce tranquillamente una ferita aperta e da suturare quando, poco tempo fa, sarebbe inorridita al solo pensiero… che ogni volta che la guardo… sono orgoglioso di Lei…

…come il falegname poeta con la distrofia muscolare che la moglie ci dice avere un brutto caratteraccio e di stare attenti ma che con un paio di parole e un sorriso si ammansisce e comincia a parlare, parlare, parlare e incantare…

…come i volti di tanti bambini che entrano con i lacrimoni e quanche urlo che farli calmare a volte è una impresa ma che quando escono sorridono ed esibiscono un piccolo cerotto o un braccino ingessato come un trofeo…

…mattonicini di gente allo sbando in cerca di un posto dove pasare la notte da gestire spesso non senza qualche difficoltà affinchè non rechino disturbo a chi soffre davvero…

…mattoncini di paura vera durante un collasso e la corsa con le ali ai pedi verso il box di emergenza rossa… mattoncini di un certo Luca che alla fine, ringraziando il cielo, era solo una crisi di panico, panico vero ma…. cavolo… m’è preso un colpo pure a me…

…mattoncini che non si fermano un secondo e girano per il pronto soccorso con veloce e silenziosa efficenza dalle 20:00 alle 24:00… e più…

…e mattoncini di gente che si ferma a leggere con più attenzione la scritta “VOLONTARI del soccorso” che circonda la croce rossa che portiamo sul petto… e ci dice semplicemente GRAZIE… e che raramente esce dal policlinico senza passare a salutare con una silenziosa ma bellissima stretta di mano…

…mattoncini che a fine serata, davanti a uno schermo e con la sigaretta che ormai sfuma nel nulla, guardi… sfiori con la mente… respiri… e che ti regalano il vero perchè tu sai qual è la risposta alla domanda “…ma chi ve lo fa fare?” che troppo spesso ci vien fatta… perchè alla fine… già…

…chissà perchè…

Icy24

Tags:

l’alfa e l’omega

Posted by Herbert Asch on novembre 26, 2010
pensieri / 5 Commenti

Se riesci ti piace arrivare un po’ prima sul cambio. Intanto perché trovi parcheggio più facilmente.
E poi perché chi è dentro da dodici ore ne ha già abbastanza e l’unica certezza che ha, è che qualcuno, dopo un tot di tempo, verrà a dargli il cambio.
E non è poco.

Già lungo il percorso di ingresso raccogli una serie di informazioni: davanti al chiosco qualche infermiere che ha appena smontato dal turno di notte anticipa qualche novità, passando dal Pronto Soccorso basta uno sguardo per dirti se è tutto tranquillo (per ora, ma non diciamolo, per scaramanzia!) o già sovraffollato.
L’ascensore ti deposita proprio davanti alla rianimazione.
Qualche volta davanti alla porta campeggiano parenti tristi, assonnati e preoccupati, che trasalgono ogni volta che la porta si apre. E dagli sguardi, dall’età, dal comportamento già intuisci una parte della storia. Genitori o figli? Amici o parenti? Giovani o vecchi? Spesso non è difficile decodificare.
Poi entri: quanti zaini di trasporto ci sono? Tanti ne mancano, tanti sono i pazienti in giro. Tutti gli zaini a posto: buon segno!
Insomma già prima di entrare uno un’idea se la può fare.

Un saluto a chi c’è, togli dalla tua borsa qualche cosa per il pasto che depositi in cucina.
Ti avvii verso lo spogliatoio nel corridoio, trovi le chiavi in una delle sedici tasche dove potresti averle messe ieri sera, ed entri.

Quanti anni sono che vieni a cambiarti in questo spogliatorio? E quante stanze-spogliatoio hai cambiato in venticinque anni?

La fila degli armadietti fronteggia un doppio schieramento di scarpe, anzi una parete bifilare di zoccole dove alcuni paia di scarpe, o qualche stivale d’inverno, si inseriscono come le molecole della pompa del sodio nella membrana della parete cellulare.
E il gioco sta nell’indovinare chi c’è di là a partire dalle scarpe che ha lasciato di qua.
Le scarpe sempre leziose della collega che ne ha una intera collezione e che non ti ricordi la volta che ha messo lo stesso paio due giorni di seguito. E poi i dr.Martin della tosta elisoccorsista, le lumberjack del collega giramondo, le scarpe seriose di buona fattura del collega anziano, le paperine allegre della collega creativa, le scarpe un po’ petulanti della collega precisina, e quelle un po’ scalcagnate del collega sfigato, a cui accosti le tue barche oversize, che ormai trovi solo più in Germania.

Ti piace fare con calma i gesti preparatori, moderna vestizione del cavaliere, che invece dell’armatura indossa un comodo pigiama.

Mentre ti cambi non potrai fare a meno di pensare come sarai questa sera, quando ti ritroverai di nuovo qui, davanti a questo specchio. Stanco ma ancora presente o assolutamente tritato? Contento di quello che hai fatto, o pensieroso su dilemmi insoluti? Sarà stato un giorno utile o inutile?

E poi sei pronto.

Spegni la luce, chiudi la porta alle tue spalle e via. Lì ci ritornerai solo dopo dodici ore, al momento del cambio.
Ora sentirai le consegne, con un rituale che si ripeterà identico dopo dodici ore
…E dopo dodici ore, come in un confessionale laico, in una cronaca che ha del religioso, lascerai memoria di quel ch’è stato al tuo collega, e di quel che ancora c’è da fare, di quello che hai pensato ed imbastito, infilandoci se del caso anche qualche fatto curioso avvenuto, qualche prodezza compiuta, o qualche svista occorsa.
E l’ironia con cui saprai condire il racconto sarà il sale di quella giornata o nottata, che nel solo racconto, nudo, dei fatti, potrebbe semplicemente risultare tecnico, arido, squallido o terrificante, o tutte queste cose insieme.
Intanto, elencando le tue prodezze o le tue viltà lentamente smetterai di risuonare di tutti gli echi che ti rimandano le cose che hai fatto, i pazienti che hai visto, le decisioni che hai dovuto prendere. Con calma ti potrai avviare, lasciando cadere pezzo per pezzo gli episodi mentre ti avvicini all’uscita.
Quasi prepari uno stato di vuoto mentale, hai il bisogno fisico di segnare il cambiamento avvenuto.
E ti vengono in mente le parole di Roy Batty in Blade Runner: “…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…”

Herbert Asch

Tags: