Notte di Agosto. La terra restituisce all’aria il calore accumulato durante il giorno; un vento leggero scuote le chiome dei pini. I grilli coprono con prepotenza ogni altro suono. Le stelle cadono in silenzio, promettendo sogni a chi ne colga la scia.
Ovviamente tutto questo lo posso solo immaginare, visto che è da poco prima che il sole tramontasse che sono chiusa in sala operatoria. E per come si sta mettendo, temo che mi dovrò immaginare anche l’alba. Benvenuti nel mondo notturno degli anestesisti.
E’ la mia ultima notte di guardia in questo ospedale rosso e grigio, gioiello vintage dei mitici anni ’70, in una sola parola brutto, ma così brutto che dopo un po’ ti fa anche tenerezza, figlio senza colpa di un crudele architetto daltonico. Sarà che da domani questo ospedale me lo sarò lasciato alle spalle (per sempre?), ma stasera mentre lo vedevo avvicinarsi parcheggiando l’auto, mi sembrava quasi bello. Senza contare che gli interni non sono poi così male, in fondo…
Sto per ricominciare tutto da capo: nuovo ospedale, nuovi corridoi, nuove sale, nuovi colleghi. Impossibile non farsi prendere dalla malinconia: qui ho fatto il mio primo incarico, fresca fresca di specializzazione, vivendo le prime piccole gratificazioni professionali, i primi tragici disastri (e dubito che saranno gli ultimi…), quelle prime gelide mattine invernali a strisciare il badge, con addosso la consapevolezza che, da quel momento, sarei stata sola con i miei pazienti, la mia autonomia decisionale e le mie responsabilità… Conseguenza inevitabile di tale consapevolezza mattutina, il puntualissimo e subitaneo aumento del transito intestinale, che mi costringeva (tutti i giorni per i primi 2 mesi) ad una necessaria sosta in bagno subito prima di gettarmi nella mischia quotidiana. Poi la paura ha lasciato progressivamente il passo ad una controllata agitazione, con il vantaggioso risultato di trasformare i minuti dedicati alla toilette in ricche colazioni al bar dell’ospedale.Ricorderò con affetto anche la mensa aziendale, la vera prova del fuoco per ogni neo-assunto. Credo che nessun altro luogo all’interno di un’azienda – sanitaria o meno – rifletta la popolarità o l’impopolarità di un dipendente, come la mensa. Vestiti in borghese (divieto assoluto di indossare qualunque indumento sanitario), siamo tutti nudi, senza quel confortante travestimento verde o bianco che ci consente, tutti i giorni, di calarci in un ruolo.
La gerarchia viene completamente stravolta: non esistono dottori, infermieri, amministrativi, né tecnici: strano a dirsi, ma senza divise è difficile riconoscersi, soprattutto quando si è arrivati da poco. I primi tempi non sono ancora molti quelli che mi conoscono, sono ancora di meno quelli con cui la pausa pranzo riesce a coincidere, e dei pochi rimasti quasi nessuno mi riconosce, senza cuffietta: in seguito saprò che la gente, per un motivo che tuttora ignoro, sotto la mia cuffia rossa, immagina un caschetto nero e liscio tipo Valentina di Crepax (sic!) e non la massa scomposta di capelli castano rossicci. Dopo pochi timidi tentativi di salutare qualche faccia nota da lontano, mi arrendo di fronte ai volti poco interessati dei presenti. Forse non mi hanno riconosciuta o più semplicemente non vogliono mangiare con me -penso nel delirio di persecuzione che mi assale tutte le volte che mi trovo in un posto nuovo… Ed ecco spiegati i miei pasti solitari.
Sembra uno di quei telefilm americani, in cui alla mensa della High School fa bella mostra di sé il tavolo dei più fighi: giocatori di football e cheer-leader (i chirurghi vascolari e le ostetriche, ovviamente), mentre la sfigata che suona nella banda della scuola appoggia il vassoio traballante sul tavolo in fondo, sperando con tutto il cuore di non inciampare durante il tragitto. Il che mi promuoverebbe da trasparente a decisamente sfigata.
Ma ecco che con il passare delle settimane, le mani si cominciano ad alzare in segno di saluto, i colleghi chirurghi iniziano a farsi una ragione del fatto che io non abbia un caschetto né nero, né tantomeno liscio, invitandomi al loro desco ed il pranzo diventa finalmente un momento piacevole per fare due chiacchiere su qualcosa che non sia necessariamente il lavoro.
Trascorsi i mesi, sono passata decisamente a rapporti amichevoli con gran parte del personale, il che, in una città chiusa come questa (la mia, del resto) è un mezzo miracolo. Da cui il dispiacere e la fatica all’idea di ricominciare tutto dall’inizio. Ma fino a domattina… gioco ancora in casa!
Sono stati tutti molto affettuosi in questi giorni e per la mia ultima guardia mi sento particolarmente coccolata. Ricevo un sacco di complimenti, alcuni dei quali forse poco professionali, ma vabbè, i chirurghi son chirurghi anche nei momenti nostalgici e poi stanotte lasciatemi vivere il mio piccolo Amarcord!
Non mi dispiace affatto questo ruolo da piccola del gruppo… certo, all’inizio è stata dura far capire a medici e infermieri che non avevano davanti una specializzanda, né tantomeno una nuova infermiera (ma insomma, lo stetoscopio al collo cosa lo porto a fare??), bensì un’anestesista che senza make-up non riesce a dimostrare più di 24-25 anni neanche se si sforza (e poi, perchè si dovrebbe sforzare?). Stessa cosa per i pazienti, che, soprattutto nella fascia 50-70, di fronte ad un medico giovane sono spesso scettici. Forse perché abbiamo l’età dei loro figli e siamo per questo poco convincenti come adulti? Effettivamente mia madre sarebbe la prima, nel vedermi lavorare, a non prendermi sul serio e pensare che io abbia ancora 7 anni e stia giocando al dottore. E come dimenticare quell’ortopedico un po’ sbadato che, fatte le presentazioni, mi guarda con stupore e diffidenza e mi chiede – senza alcuna ironia, ahimè – “Scusa ma almeno sei maggiorenne?”.
Eppure, chiariti ruoli e competenze, essere “la minorenne” del comparto non è più stato un handicap, ma un modo affettuoso per scherzare nel gruppo, senza mai sentirmi mancare di rispetto per questo.
I colleghi del pomeriggio si sono congedati con tante pacche sulle spalle, promesse di mantenersi in contatto, augurio di una luminosa carriera e magari, chissà, di lavorare di nuovo insieme.
Nel frattempo chiamano dalla rianimazione: mi chiedono se mi devono aspettare per la cena… rispondo sconsolata di aspettarmi per la colazione. Ho fame!
Chissà come sarà la mensa del mio prossimo ospedale…
Blue Dolphin