racconti

sogno di una notte di mezza estate

Posted by blue dolphin on ottobre 03, 2010
racconti / 3 Commenti

Notte di Agosto. La terra restituisce all’aria il calore accumulato durante il giorno; un vento leggero scuote le chiome dei pini. I grilli coprono con prepotenza ogni altro suono. Le stelle cadono in silenzio, promettendo sogni a chi ne colga la scia.
Ovviamente tutto questo lo posso solo immaginare, visto che è da poco prima che il sole tramontasse che sono chiusa in sala operatoria. E per come si sta mettendo, temo che mi dovrò immaginare anche l’alba. Benvenuti nel mondo notturno degli anestesisti.
E’ la mia ultima notte di guardia in questo ospedale rosso e grigio, gioiello vintage dei mitici anni ’70, in una sola parola brutto, ma così brutto che dopo un po’ ti fa anche tenerezza, figlio senza colpa di un crudele architetto daltonico. Sarà che da domani questo ospedale me lo sarò lasciato alle spalle (per sempre?), ma stasera mentre lo vedevo avvicinarsi parcheggiando l’auto, mi sembrava quasi bello. Senza contare che gli interni non sono poi così male, in fondo…
Sto per ricominciare tutto da capo: nuovo ospedale, nuovi corridoi, nuove sale, nuovi colleghi. Impossibile non farsi prendere dalla malinconia: qui ho fatto il mio primo incarico, fresca fresca di specializzazione, vivendo le prime piccole gratificazioni professionali, i primi tragici disastri (e dubito che saranno gli ultimi…), quelle prime gelide mattine invernali a strisciare il badge, con addosso la consapevolezza che, da quel momento, sarei stata sola con i miei pazienti, la mia autonomia decisionale e le mie responsabilità… Conseguenza inevitabile di tale consapevolezza mattutina, il puntualissimo e subitaneo aumento del transito intestinale, che mi costringeva (tutti i giorni per i primi 2 mesi) ad una necessaria sosta in bagno subito prima di gettarmi nella mischia quotidiana. Poi la paura ha lasciato progressivamente il passo ad una controllata agitazione, con il vantaggioso risultato di trasformare i minuti dedicati alla toilette in ricche colazioni al bar dell’ospedale.Ricorderò con affetto anche la mensa aziendale, la vera prova del fuoco per ogni neo-assunto. Credo che nessun altro luogo all’interno di un’azienda – sanitaria o meno – rifletta la popolarità o l’impopolarità di un dipendente, come la mensa. Vestiti in borghese (divieto assoluto di indossare qualunque indumento sanitario), siamo tutti nudi, senza quel confortante travestimento verde o bianco che ci consente, tutti i giorni, di calarci in un ruolo.
La gerarchia viene completamente stravolta: non esistono dottori, infermieri, amministrativi, né tecnici: strano a dirsi, ma senza divise è difficile riconoscersi, soprattutto quando si è arrivati da poco. I primi tempi non sono ancora molti quelli che mi conoscono, sono ancora di meno quelli con cui la pausa pranzo riesce a coincidere, e dei pochi rimasti quasi nessuno mi riconosce, senza cuffietta: in seguito saprò che la gente, per un motivo che tuttora ignoro, sotto la mia cuffia rossa, immagina un caschetto nero e liscio tipo Valentina di Crepax (sic!) e non la massa scomposta di capelli castano rossicci. Dopo pochi timidi tentativi di salutare qualche faccia nota da lontano, mi arrendo di fronte ai volti poco interessati dei presenti. Forse non mi hanno riconosciuta o più semplicemente non vogliono mangiare con me -penso nel delirio di persecuzione che mi assale tutte le volte che mi trovo in un posto nuovo… Ed ecco spiegati i miei pasti solitari.
Sembra uno di quei telefilm americani, in cui alla mensa della High School fa bella mostra di sé il tavolo dei più fighi: giocatori di football e cheer-leader (i chirurghi vascolari e le ostetriche, ovviamente), mentre la sfigata che suona nella banda della scuola appoggia il vassoio traballante sul tavolo in fondo, sperando con tutto il cuore di non inciampare durante il tragitto. Il che mi promuoverebbe da trasparente a decisamente sfigata.
Ma ecco che con il passare delle settimane, le mani si cominciano ad alzare in segno di saluto, i colleghi chirurghi iniziano a farsi una ragione del fatto che io non abbia un caschetto né nero, né tantomeno liscio, invitandomi al loro desco ed il pranzo diventa finalmente un momento piacevole per fare due chiacchiere su qualcosa che non sia necessariamente il lavoro.

Trascorsi i mesi, sono passata decisamente a rapporti amichevoli con gran parte del personale, il che, in una città chiusa come questa (la mia, del resto) è un mezzo miracolo. Da cui il dispiacere e la fatica all’idea di ricominciare tutto dall’inizio. Ma fino a domattina… gioco ancora in casa!
Sono stati tutti molto affettuosi in questi giorni e per la mia ultima guardia mi sento particolarmente coccolata. Ricevo un sacco di complimenti, alcuni dei quali forse poco professionali, ma vabbè, i chirurghi son chirurghi anche nei momenti nostalgici e poi stanotte lasciatemi vivere il mio piccolo Amarcord!
Non mi dispiace affatto questo ruolo da piccola del gruppo… certo, all’inizio è stata dura far capire a medici e infermieri che non avevano davanti una specializzanda, né tantomeno una nuova infermiera (ma insomma, lo stetoscopio al collo cosa lo porto a fare??), bensì un’anestesista che senza make-up non riesce a dimostrare più di 24-25 anni neanche se si sforza (e poi, perchè si dovrebbe sforzare?). Stessa cosa per i pazienti, che, soprattutto nella fascia 50-70, di fronte ad un medico giovane sono spesso scettici. Forse perché abbiamo l’età dei loro figli e siamo per questo poco convincenti come adulti? Effettivamente mia madre sarebbe la prima, nel vedermi lavorare, a non prendermi sul serio e pensare che io abbia ancora 7 anni e stia giocando al dottore. E come dimenticare quell’ortopedico un po’ sbadato che, fatte le presentazioni, mi guarda con stupore e diffidenza e mi chiede – senza alcuna ironia, ahimè – “Scusa ma almeno sei maggiorenne?”.
Eppure, chiariti ruoli e competenze, essere “la minorenne” del comparto non è più stato un handicap, ma un modo affettuoso per scherzare nel gruppo, senza mai sentirmi mancare di rispetto per questo.
I colleghi del pomeriggio si sono congedati con tante pacche sulle spalle, promesse di mantenersi in contatto, augurio di una luminosa carriera e magari, chissà, di lavorare di nuovo insieme.
Nel frattempo chiamano dalla rianimazione: mi chiedono se mi devono aspettare per la cena… rispondo sconsolata di aspettarmi per la colazione. Ho fame!
Chissà come sarà la mensa del mio prossimo ospedale…

Blue Dolphin

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storie di pronto soccorso (prima notte)

Posted by rem on maggio 19, 2010
racconti / 4 Commenti

Ci sono capitato per caso in un PS
non per scelta. Un giorno il direttore sanitario mi chiama e mi chiede se mi va di fare Pronto Soccorso
Rifletto lo guardo poi dico: certo che sì
So che è la risposta giusta
Come lo so ?
Un’intuizione, il mio spirito guida, la mia innata capacità di fare la cosa giusta al momento giusto? No.
È solo il terzo mese di prova e posso essere licenziato senza preavviso.
E’ un’ottima scelta che contribuirà alla mia crescita professionale
e personale
– dice il Direttore – anche lui, se solo potesse tornare indietro farebbe la stessa cosa, è veramente stufo di continuare a stare dietro alle scartoffie, alle beghe sindacali e a tutto quello che comporta un incarico come il suo, vorrebbe tornare a fare il medico se solo potesse, ma tant’è. Così è la vita.
A proposito…
inizio domani notte.
E’ un vero bastardo il direttore Sanitario

La prima notte

Prendo servizio alle 8 di sera percorro la lunga linea gialla che porta dalla Radiologia alle Sale di visita, ho un camice bianco pulito e degli zoccoli, per il resto sono un perfetto borghese: camicia blu pantaloni di velluto, non ho indossato la classica tuta verde per scelta, non voglio tirarmela, anche perchè a ben vedere non so fare un cazzo, fino a ieri mi occupavo di Geriatria poi hanno ridotto drasticamente i posti-letto del reparto perché rendeva poco, solo pensionati in bilico sulla soglia dell’indigenza, e oggi sono qui nel Dipartimento di emergenza-urgenza-accettazione.
Nessuno mi ha spiegato niente, nessuno mi ha portato a vedere i luoghi o mi ha illustrato le procedure, non mi hanno fatto alcun corso specifico.
Da questa sera sono un medico dell’urgenza
spero in bene per me
e anche un po’ per i pazienti.
Che Dio me la mandi buona.
Anche se non sono credente.
Spero che non voglia farmi un dispetto per così poco, e poi negli ultimi tempi incomincio ad avere qualche ripensamento.
Lo giuro.

Franco l’infermiere più esperto del PS, che chi sa come mai la Caposala ha deciso di affiancarmi in questa prima notte, mi dà le prime coordinate:
di notte siete due medici, tu e il chirurgo, coprite il PS e anche i reparti se vi chiamano,
naturalmente può allontanarsi uno solo per volta,
non ci sono i radiologi e le radiografie te le devi refertare da solo,
non ci sono specialisti neurologi, otorino,oculisti, neurochirurghi né chirurghi vascolari
anche se qualcuno è reperibile telefonicamente.

Sono proprio le parole che avrei voluto sentirmi dire.
Ingoio una compressa di alprazolam e comincio a lavorare.
Per fortuna c’è Franco, per fortuna ci sono gli infermieri.
Lo vedo lavorare e mi chiedo io cosa ci sto a fare qua sotto.
Sa sempre cosa fare e fa sempre la cosa giusta.
Quando mi vede titubante mi dà indicazioni, ma come se fossi io ad avere l’idea.

Arriva mattino, è sempre una buona cosa, ma oggi mi sembra anche meglio.
Me ne vado con un certo grado di soddisfazione: è andata, ho rotto il ghiaccio, non dovrei aver fatto grosse cazzate, ora vado a dormire il sonno dei giusti.

E’ solo un’illusione.
I casi mi ritornano su come cipolle.
tutti i pazienti che ho mandato a casa mi appaiono in sogno puntandomi l’indice contro perché sono morti poco dopo, quelli che ho ricoverato erano quelli che in realtà non avevano un cazzo.
Bastava invertirli.
Che razza di stupido, era così semplice.

Non sono portato per questa professione.
Potevo studiare chimica inorganica.
Mi assalgono tutti i dubbi, ho una crisi d’identità che mi fa fare certi salti nel letto, non riesco a dormire
C’è anche troppa luce.
E’ contro natura dormire la mattina.
Poi crollo e mi addormento profondamente, quando mi sveglio è già ora di andare a lavorare.

rem

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il cappotto blu (frammenti di memoria)

Posted by Garganico on aprile 12, 2010
racconti / 1 Commento

Durante le ultime festività e dopo numerosi tentativi miseramente falliti, ho trovato un po’ di tempo per sistemare la mia vecchia e polverosa soffitta piena di tante cose, tutte assolutamente inutili, che, chissà perché, non hanno mai trovato la loro collocazione terminale definitiva.
In uno scatolone ben chiuso ho trovato un vecchio cappotto di colore blu, con il bavero completamente consunto e logoro, che ho fatto fatica a riconoscere: ecco dov’era finito il compagno di tante notti passate insieme durante il servizio di guardia medica sul territorio svolto da neolaureato.
A pensarci bene non so quanto tempo è passato. Forse venticinque anni, forse di più. Sicuramente nella memoria sembra in un’altra epoca, in un’altra era, un secolo fa. Il ricordo chiaro e lucido è per il mio cappotto blu, pesante, con un collo ampio, che, alzato, mi riparava e mi proteggeva dal gelido clima delle notti invernali della periferia torinese. Con me i miei pochi strumenti di lavoro: il fonendo, lo sfigmo, una pila, dei farmaci, un ricettario. Ero laureato da poco tempo e per un neolaureto, in quel periodo, c’era la possibilità di fare il medico frequentatore volontario in qualche reparto ospedaliero e sperare in qualcosa o in qualcuno, oppure iniziare a darsi da fare in prima persona mettendo a disposizione le poche nozioni apprese all’università. Scelsi di fare entrambe le cose. Di giorno il medico volontario, pulito, elegante. Di notte il medico di guardia medica in una delle zone più degradate e difficili della periferia torinese. Il medico di frontiera, come amavo chiamarmi. Ero l’istituzione sanitaria a cui di notte tutti potevano rivolgersi per qualsiasi motivo, anche non medico. L’ASL di competenza metteva a disposizione del coraggioso sanitario per le visite domiciliari una 126 con i finestrini rotti e bloccati in fase di apertura, che la rendeva per questo motivo assai simile a una moto. Per questo, forse, il ricordo e l’amore indelebili per il mio superprotettivo cappotto blu. Come sede un garage, che funzionava anche come ambulatorio, dotato di una segreteria telefonica capace di accumulare decine di chiamate in pochi minuti. Si iniziava alle otto di sera, si finiva alle otto del mattino. Ogni notte era, per qualche motivo, indimenticabile. Gli utenti reclamavano il loro diritto ad essere visitati presto, velocemente e possibilmente bene.
Personalmente sono arrivato a farne più di cinquanta in un solo turno di queste visite “urgenti”, salendo e scendendo dalla 126, cercando vie sullo stradario, suonando a campanelli che spesso non funzionavano. Il mio cappotto blu mi proteggeva dal freddo e da qualche paura che inevitabilmente viene quando si lavora al buio, di notte, da soli.
Quella notte che i carabinieri di Orbassano mi chiamarono per una constatazione di decesso di un suicida nei boschi tra Stupinigi e Orbassano, infilai il mio cappotto blu, alzai il bavero a protezione non solo del freddo. Era buio veramente ed io i boschi di solito non li frequentavo neanche di giorno. Il viottolo era stretto, sconosciuto, impenetrabile. Per vedere meglio abbassai il bavero protettivo del cappotto. Non fu una buona idea perché subito dopo vidi la vecchia 126 lentamente scivolare sul lato destro della strada per fermarsi nella cunetta laterale. Per fortuna ero solo ammaccato ma intero. Come comunicare a qualcuno il mio incidente, la mia posizione, che ora avevo difficoltà ad espletare il compito per cui ero stato così prontamente chiamato? Diamine! Potevo ancora camminare e avevo anche la pila che di solito serviva per i riflessi pupillari. Allora in marcia. Si, ma, verso dove? Non si vedeva assolutamente nulla. In lontananza mi sembrò di intravedere un casolare. Mi diressi là. Dopo un po’ arrivai e fui veramente fortunato perché trovai un contadino che, senza troppe spiegazioni, tirò fuori il suo trattore e raggiunse la mia, ormai più vecchia, 126 rimettendola sul viottolo, e che, miracolosamente, era ancora in grado di procedere. Non so quanto tempo fosse passato ma mi rimisi alla ricerca di quel dannato posto per la constatazione del decesso del suicida. Finalmente nei meandri del bosco incontrai i carabinieri che mi salutarono cordialmente, mi ringraziarono e mi dissero che essendosi accorti che il suicidio era avvenuto nel territorio di Orbassano, avevano chiamato la guardia medica di quell’ASL e che le procedure burocratiche erano comunque state espletate. Mantenni apparente calma e professionalità e, nonostante il freddo, durante il ritorno, non provai neanche a proteggermi dai finestrini perennemente aperti. La segreteria telefonica, nel frattempo, aveva accumulato un numero imprecisato di messaggi registrati. Iniziai ad ascoltare il numero 1, il 2, il 3,il 4. Il messaggio numero 5 era un vero e proprio grido di dolore assoluto, un urlo che in quel garage semibuio avrebbe spaventato anche uno più coraggioso di me: “Dottore, dottore, per favore, faccia qualcosa! Durante il rapporto si è rotto il preservativo! Adesso siamo nei guai, abbiamo bisogno subito del suo aiuto! Ci dia qualcosa, la pillola del giorno prima o del giorno dopo, non so come si chiama, comunque faccia qualcosa!” Avevo ancora diverse chiamate da ascoltare, ma la disperazione di questo utente meritava sicuramente una pronta risposta. Così feci. Non chiedetemi cosa dissi a questa coppia. Non me lo ricordo chiaramente. Espletai le visite richieste, alcune delle quali in condomini dove la maggior parte dei campanelli erano bruciati e dove gli ascensori non funzionavano. Al sesto piano di uno di questi mi aprì un signore con una vistosa ferita sanguinante alla testa dicendomi: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato questo disgraziato!”. Il mio istinto mi suggerì di non muovermi, spostai solo leggermente la testa, ma fu sufficiente a vedere tutto il corridoio funestato di pezzi di vetro e oggetti di vario tipo con parte di un armadio reclinato su stesso. In fondo al corridoio si scorgeva un giovane sdraiato per terra con la canottiera inzuppata di sangue e con una mazza in mano. La persona che aveva aperto la porta e che sembrava essere il genitore continuava a ripetere: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato, faccia qualcosa!” Risposi di stare tranquillo. Non impiegai molto a raggiungere la 126, che sebbene avesse i finestrini rotti aveva il pregio di una messa in moto fulminea. Alzai il bavero del mio cappotto blu e mi recai alla stazione dei carabinieri pretendendo un accompagnamento a questa visita. I carabinieri indossarono a loro volta un cappotto blu e sorridendo dissero che loro quei due li conoscevano da tempo e che in effetti era meglio essere accompagnati. Nell’appartamento entrarono prima loro, poi io con la mia borsa da medico, mentre i due litiganti incuranti continuavano a fare e a dire di tutto. Feci una veloce medicazione e somministrai un sedativo ad entrambi, quindi chiamai due ambulanze, una per il padre che mandai al pronto soccorso di Moncalieri, l’altra per il figlio al pronto soccorso delle Molinette. Ringraziai i carabinieri che, chissà perché, a loro volta ringraziarono me. Mentre tornavo per l’ennesima volta al mio garage si intravedevano le prime luci del nuovo giorno e stringendomi nel mio cappotto blu pensavo che tutto sommato sarebbe potuto andare anche peggio. Non c’è mai un limite al peggio!
Alle otto con la barba lunga e il cappotto blu con il bavero ancora alzato ma vistosamente sgualcito, portai i registri e i ricettari negli uffici dell’ASL. Come al solito ero già in ritardo e anche quella mattina non avrei fatto in tempo a fare la barba. Gli impegni istituzionali di medico frequentatore volontario mi attendevano… ma questa è un’altra storia.

Garganico

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Sull’orlo dello sfratto

Posted by Ania on febbraio 21, 2010
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” [….] Se io fossi malato mi piacerebbe non dover soffrire per le mie miserie fisiche, non dovermi vergognare per i segni del tempo sul mio corpo.
Vorrei potermi muovere ed esistere in un mondo che ancora mi appartiene e non sentirmi costantemente sull’orlo dello sfratto.
Se io fossi malato vorrei sentirmi dire in Ospedale “può tornare a casa perchè sta meglio” e non perchè “non ci sono posti”.
Vorrei potermi svegliare da un breve sonno e ritrovarmi accanto un volto noto che mi riporti un pizzico di mondo, non di nostalgia, ma di continuità, un attimo di speranza da leggere in un sorriso che crede e non finge.
Se io fossi malato vorrei conservare tutta la mia dignità, il mio nome, il mio “dottore”, non vorrei mai più essere un numero.
Anche se tutti mi dicessero che non serve a niente in quelle condizioni, io vorrei pensare che la malattia è solo una condizione dell’uomo, non è la distruzione dell’uomo.
Se io fossi malato vorrei essere trattato con rispetto vero e non con falsa affettuosità, vorrei che le mie paure non mi facessero deridere, vorrei che su di me si praticassero solo le cure necessarie.
Non vorrei diventare inconsapevole terreno di battaglia fra la morte e qualche medico assetato della gloria dei numeri; non vorrei essere un percento statistico in coma irreversibile.
Se io fossi malato vorrei attendere la guarigione e continuare a vivere fino a quando la morte non venga a concludere la mia vita. [….] ”

 (da “Il cavallino di pietra” di E. Carchietti).

Ania

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viaggiare di traverso

Posted by Orso on febbraio 02, 2010
racconti / Nessun commento

1998, mese di febbraio

“Vado, il vento mi chiama”.
Mi è sempre piaciuto scherzare con questa frase un po’ melodrammatica per salutare gli amici, calzandomi il casco in testa e preparandomi a partire. A volte si scherza sulle cose alle quali si è più affezionati. È un modo come un altro per difendere i propri sentimenti, quelli più profondi, più intensi.
E del resto la vita è una cosa troppo seria per prenderla sul serio. Qualche volta fa bene recitare. Lo facciamo già infinite volte ogni giorno, per costrizione, per dovere, per necessità.
Perché non puoi mandare all’inferno il capufficio, il caposquadra, il capoofficina, i clienti, la moglie (o il marito), gli sbirri o chiunque altro se lo meriti ogni volta che vorresti farlo.
Allora tanto vale recitare per scelta, e trasformare la nostra tragedia in una farsa e la commedia in un dramma. In fondo non fa male a nessuno.
???
Salvo che a noi stessi, un po’, ogni tanto.

“Vado, il vento mi chiama”.
Meno di dieci minuti più tardi ero riverso a terra, con la gamba destra fracassata in sei o sette punti. Avevo trovato il mio, quello giusto. Quello che con l’auto non si ferma allo STOP perché lui ha una bella macchina, un po’ di fretta e tanto, dall’altra parte, arriva soltanto una moto.
Andavo piano, forse meno di trenta all’ora, e lui mi investe in pieno, centrandomi proprio all’altezza della gamba destra con il muso dell’auto. Un dolore intensissimo e la sensazione di un calore bruciante; mi rendo subito conto che qualche osso si è fratturato. Guardo in basso e vedo che il piede non poggia più sulla pedana: piegato innaturalmente verso l’esterno, pochi centimetri sopra la caviglia, è scomparso sotto il paraurti dell’auto.
“Puttana Eva, – penso – è andato!”
Ma non è finita. Il tizio è rimasto paralizzato dallo shock (lui!), e non riesce a frenare. L’auto procede nella sua marcia, continuando a spingermi lateralmente, mentre io riesco a rimanere in equilibrio sulla moto.
Mi sembra di vivere un incubo. La moto si è leggermente inclinata verso il muso della macchina che continua ad avanzare, sospingendola; i pneumatici stridono sull’asfalto, costretti ad una direzione di marcia che non è propriamente quella più normale. In equilibrio sulla moto, sento di nuovo un dolore atroce alla gamba: stritolata tra il muso dell’auto ed il motore della moto si è fratturata in un altro punto, qualche dito sotto il ginocchio.
Urlo: “Fermati, bastardo!”, e sferro un pugno sul cofano. Bella ammaccatura, ma quello non è in grado di reagire. L’auto continua ad avanzare, lentamente ma inesorabilmente, e mi sospinge con la moto per tutta la carreggiata; dopo aver superato la linea di mezzeria attraversa anche l’altro senso di marcia. Sto viaggiando di traverso, cazzo! e la cosa non è affatto divertente, considerate le circostanze.
“È assurdo – mi dico – non sta succedendo!”
Finalmente, giunto all’altezza del marciapiede che era alla mia sinistra, il tizio riesce a frenare.
La moto si inclina di colpo verso sinistra, ma, prima che rovini a terra, riesco a gettarmi all’indietro e ad evitare che l’altra gamba vi rimanga sotto. Il casco mi risparmia, se non proprio una commozione cerebrale, per lo meno un gran bel bernoccolo.
Accorre gente. Riverso a terra, supino, vedo alcune mani che si protendono verso di me.
“Lasciatemi stare – riesco ancora a grugnire – ho una gamba fracassata!”
Qualcuno chiama l’ambulanza.
Mi sfilo i guanti e meccanicamente cerco il pacchetto delle sigarette, ma non riesco a trovarlo: non ricordo in quale tasca l’ho messo. Rinuncio a fumare e cerco di guardarmi un po’ intorno, ma riesco soltanto a vedere, in alto, sopra di me, i volti di quelli che si avvicinano maggiormente per godersi lo spettacolo di un cavaliere disarcionato e ferito. Mi appoggio sui gomiti e cerco di mettermi a sedere, forse perché mi sento un po’ ridicolo, disteso lì, a terra, come un salame sul tagliere.
Non ce la faccio. La gamba mi fa un male atroce, ma per fortuna ancora non svengo.
Dove cristo avrò messo le sigarette? Cazzo! Se almeno avessi con me un po’ di fumo, anche solo qualche boccata, di quello buono, sono sicuro che la gamba mi farebbe meno male. Assurdamente, ma nemmeno poi tanto, a pensarci bene, mi viene in mente una canzone, gli accordi di chitarra struggenti di Keith Richards e la voce sgraziata di Mick Jagger.

“… Tell me, Sister Morphine,
when are you comin’ round again?
Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that my pain is strong

Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that I’m not that strong
The scream of the ambulance
Is soundin’ in my ear
Tell me, Sister Morphine,
How long have I been lyin’ here?
What am I doing in this place? …”1

Finalmente arriva l’ambulanza, con tanto di sirena che mi fa sentire maledettamente importante, e da quel momento hanno inizio le comiche.
Vedo un uomo chinarsi su di me. Mi parla. Dapprima le solite domande di routine che servono ad attenuare lo stato di shock. Poi comincia ad inquadrare meglio la situazione.
“Ascolta, io sono un medico, stai tranquillo che adesso mettiamo tutto a posto. Comincio a toglierti il casco, ma tu non devi fare nessun movimento”.
“OK” gli dico, e annuisco con la testa.
“No, fermo! Ti ho detto di stare fermo!”
“Va bene, va bene, non mi muovo più”.
Mentre mi solleva delicatamente la testa per sfilarmi il casco intravedo una ragazza con la divisa da barelliere che si aggira all’altezza dei miei piedi con un paio di cesoie in mano, poi sento che traffica qualcosa laggiù, in quel magma ribollente di dolore che è la mia gamba. Drizzo di colpo la testa:
“Cosa diavolo sta facendo, quella?”
“Cristo santo! – mi riprende il dottore – vuoi stare fermo? Ti sta tagliando lo stivale, per sfilarlo!”
“Ma porca puttana! Non vedi che c’è la cerniera?”, abbaio verso di lei.
La ragazza mi sente, e provvede a togliermi gli stivali senza farne delle bistecche.
Poi mi coglie uno scrupolo di coscienza.
“Senti, guarda che porca puttana non lo dicevo mica a te “, dico alla ragazza.
Sarà anche un po’ imbranata, la tipa, ma in fondo non si merita un giudizio così severo. Così si limita a tagliare i pantaloni.
Comunque sono davvero bravi. Riescono persino a caricarmi sulla barella senza farmi ululare come un lupo incazzato.
Mi infilano nell’ambulanza. Si riavvicina il dottore e mi fa:
“Senti, adesso ti dobbiamo tagliare il gilet ed il giubbotto”
“No, cazzo, non se ne parla nemmeno!”
Scherziamo? Il gilet con i colori!2 E neanche il giubbotto! È un po’ vecchio, d’accordo, ma mi costa qualche centone, e non è che io ne abbia tanti da gettar via così. E poi gli sono affezionato, quasi come ai colori.
“Ascolta – riprende il dottore – non possiamo correre rischi facendoti muovere per sfilarlo; possono esserci delle lesioni alla colonna vertebrale. Dobbiamo tagliare tutto!”
“No, doc, non si taglia proprio niente. Andiamo in ospedale così”
Vedono che proprio non intendo mollare, allora si consultano tra loro. Infine si arrendono.
“Va bene, te li sfiliamo, tu lascia fare a noi, non muoverti, mi raccomando”.
“D’accordo”, gli faccio, e questa volta senza assentire anche con la testa.
Con infinita pazienza, centimetro dopo centimetro, mi sfilano il tutto dalle spalle e poi lo fanno scorrere lungo la schiena, sollevandomi con mani sapienti. Se fossi stato io al loro posto, ad un rompiballe così avrei dato una botta sulla testa, e dopo averlo messo a cuccia avrei fatto quello che più mi sarebbe sembrato opportuno. Ma per fortuna (fortuna? fortuna un accidente!) ognuno è al posto suo: io faccio il ferito e loro i soccorritori; è così che funziona la cosa.
Comunque non è ancora finita. La tipa di prima, l’imbranata, mi solleva la manica destra del maglione, probabilmente per infilarmi qualche ago nel braccio, e quasi grida:
“Oh, mio Dio!”
“Che accidenti c’è, ancora?” le faccio. Sta’ a vedere che mi sono giocato anche il braccio e non me ne sono neppure accorto!
“I ragni! I ragni!”
Con una faccia inorridita indica i ragni tatuati sul mio braccio.
“Ma porca vacca, bimba, con tutto quello che sei abituata a vedere ti spaventi per un tatuaggio?”
“Mi fanno impressione!”
“Ma fammi il piacere! Conosco tanta gente che è molto più repellente dei ragni, te l’assicuro. Dai, fa’ quello che devi fare”.
Finalmente riusciamo a partire per l’ospedale, e quasi con soddisfazione ascolto l’ululato singhiozzante della sirena dell’ambulanza. Nel frattempo mi accorgo che il dolore sta diminuendo; non so cosa mi abbiano iniettato, però funziona.
Pronto soccorso. Mi portano subito dentro la sala di medicazione. È la prima volta che mi capita di non dover aspettare almeno quattro ore in sala d’attesa. Sono i vantaggi che ti derivano dal fatto di essere conciato piuttosto male.
Un infermiere mi si avvicina.
“Come va?”, mi chiede.
“Da Dio!”, gli rispondo.
“Bene, adesso vediamo meglio”.
Solleva il telo con cui mi avevano coperto quelli dell’ambulanza e fa una brutta faccia. Mi punto sui gomiti e do un’occhiata anch’io.
Vorrei non averlo fatto. Mi viene da vomitare. La gamba, dal ginocchio in giù, è proprio conciata male.
Bel lavoro, cazzo! Frattura multipla scomposta ed esposta.
Arriva un chirurgo (almeno, spero che lo sia, anche perché non è propriamente un ginecologo quello che mi serve). Guarda con un certo interesse la mia gamba e si rivolge all’infermiere:
“Mettiamo un catetere”, gli fa.
“No, guardi, non mettiamo nessun accidente di catetere!” ringhio io, un po’ sull’incazzoso, anche se sto cercando di moderare il mio linguaggio – in fin dei conti, come si dice, è lui ad avere “il coltello dalla parte del manico” – ed evito di dirgli che il catetere può metterselo lui, se proprio vuole.
“Perché, lei riesce ad orinare?”
“Gliene faccio anche un litro, se proprio ci tiene. Ma adesso è proprio la cosa più importante?”
Non mi risponde, ma per fortuna sembra perdere interesse per le mie urine. Debbo riconoscere che si stanno dando da fare: medico ed infermieri mi fanno un paio di iniezioni e mi infilano l’ago di una flebo nel braccio. Devono avermi imbottito di sedativi: poco dopo la gamba mi fa ancora meno male ed il tempo sembra essersi fermato.
E forse succede proprio una cosa del genere, perché la faccenda andrà maledettamente per le lunghe. Dopo l’intervento e venti giorni in ospedale, dieci mesi con le stampelle perché le mie vecchie ossa se la prendono piuttosto comoda a rimettersi insieme, e poi la riabilitazione; insomma: un anno senza la mia piccolina. Un anno quasi gettato via.
Ma non era ancora finita.
Allora dovevo ancora imparare quanto è meschina e crudele certa gente, quando ha la possibilità di sfogare il proprio odio verso chi, come un animale ferito, non può difendersi.
Se io sono Orso, di soprannome e di carattere, di sciacalli ne ho incontrati parecchi.
Ma questa è un’altra storia. (tratto da “Racconti bikers”; Edizioni 9Muse)

Orso

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Federico “ho fatto la mia parte”

Posted by folfox4 on gennaio 26, 2010
racconti / 3 Commenti

La comunicazione per me più difficile è stata quella che mi sono ritrovato a fare una notte ai genitori di un bambino di 5 anni che giunse alla mia osservazione dopo 3, 4 giorni passati in chirurgia con un’appendicite evoluta in shock settico.
Quando Federico giunse in reparto era allo stremo ed ebbe quasi subito un’arresto cardiaco.
Per non perderlo e prima di andare in sala operatoria furono necessari 45 minuti di rianimazione cardio-polmonare. Quando rianimi qualcuno ed in particolare un bimbo, il cui torace lo tieni tra le mani, ti senti travolgere da un istinto fortissimo quasi incontrollabile che ti spinge a fare qualsiasi cosa per tenere l’essere umano che ti è stato affidato in vita.
La sensazione che provai quella notte fu quella di riversare la mia energia vitale nel corpo di quel bambino. Essendo Federico un bimbo piccolo, la sensazione che provai era quella di essere dentro il suo corpo, come se stessi tenendo tra le mani il suo cuore.
Quando polso e pressione finalmente ricomparvero provai un temporaneo sollievo, come dire: “l’abbiamo ripreso”, “ci stava sfuggendo e siamo riusciti a riacchiapparlo”.
L’infermiera che era con me e con la mia collega mi disse, in seguito, che ritmavo la rianimazione bestemmiando, sinceramente non lo ricordo così come ho dimenticato il corpo e il viso di Federico.
Dopo 45 minuti di rianimazione, travolto dall’imperativo quasi diabolico di tenere in vita Federico ero prostrato fisicamente e psichicamente e senza il tempo di riflettere su ciò che avevo vissuto mi disposi a parlare con i genitori che erano rimasti fuori dalla porta senza sapere costa stesse accadendo.
Li feci accomodare nella stanza dei colloqui e gli dissi che Federico aveva avuto un’arresto cardiaco, che era pressoché morto e rischiava ancora di morire da un momento all’altro.
Mentre parlavo ebbi la sensazione che il padre mi ascoltasse, che in base alle mie parole comprendesse le gravi condizioni del figlio e rimettesse insieme i pezzi dei giorni trascorsi in ospedale, quando probabilmente non si era reso conto della gravità della situazione.
Dal modo in cui mi ascoltava e mi guardava ebbi la sensazione che avesse compreso che ci eravamo veramente fatti in quattro per salvare almeno temporaneamente la vita al figlio.
Della madre invece ricordo lo sguardo ostile, ebbi la sensazione di essere il primo medico che si offriva veramente al dialogo da quando il figlio era stato ricoverato e tutto in lei esprimeva un forte astio nei miei confronti che diceva: “me lo avete ammazzato”.
Fu estremamente duro per me quel colloquio: era evidente che c’erano in scena due dolori distinti, quello dei familiari, certamente centrale e devastante e il mio di operatore dell’ospedale che sentivo sulle spalle la responsabilità di ciò che non era stato fatto, di ciò che non si era compreso tanto che il bambino si trovava in fin di vita.
Il caso clinico di Federico mi metteva paura, il bambino era più morto che vivo immaginavo che la sepsi e l’arresto fossero conseguenti all’appendicite che i chirurghi, inspiegabilmente, per giorni non avevano voluto operare.
Percepivo un forte imbarazzo, mi sentivo in colpa, ci si sente sempre in colpa quando le cose vanno male. Fui invaso da un’intensa sensazione di colpa come se tutto dipendesse da ciò che avevo fatto o mancato di fare nell’assistere il paziente, mi rendo conto che è una specie di delirio di onnipotenza, ma è esattamente ciò che si prova.
Adesso narrando di quella notte mi viene in mente che, per la prima volta da quando avevo 18 anni, mi ritrovavo in un contatto fortemente sentito con un bambino.
Fino a 18 anni avevo sempre avuto una grande intesa con i bambini, se ne incontravo uno ero contento e loro in genere erano entusiasti di me, poi improvvisamente persi questa capacità, era come se inspiegabilmente fossi diventato indifferente nei loro confronti. Questa sensazione di distanza emotiva dai bimbi era sorta in coincidenza con i primi rapporti sessuali quando, sperimentai il terrore di poter avere un figlio.
Ricordo che dopo una delle mie prime esperienze la ragazza con cui stavo ebbe un ritardo e fui colto dall’angoscia fortissima di averla messa incinta. Avevo un pensiero ossessivo che mi martellava la testa: “oddio è incinta, oddio aspetto un figlio”.
L’intensità di quell’angoscia a mio avviso anormale, mi riporta ad una sensazione simile che sperimentai intorno ai 9 anni, quando ci fu il forte rischio di una guerra atomica: era la crisi di Cuba … La televisione bombardava di informazioni ed io ricordo quell’angoscia; delle volte mi dondolavo e dicevo; “Ho paura della radioattività. Ho paura della radioattività”.
Questa stessa sensazione la provavo anche a 4-5 anni, la stessa età di Federico, quando passavo le mie giornate nel grande armadio di legno della nonna; dentro c’era la biancheria, un profumo di lavanda ed io guardavo il mondo sbirciando dalle ante.
Il giorno in cui mi ritrovai a rianimare Federico, ritrovai l’intenso trasporto fisico ed emotivo che provavo per i bambini ma questa volta non stavamo giocando; tenevo tra le mani il suo cuore e provavo a non farlo morire.
L’energia che si è mobilizzata in termini di quantità era la stessa di quando ero giovane solo che questa volta la qualità dell’energia era diversa.
Come dicevo non ricordo l’aspetto fisico di Federico, mentre ricordo bene che quando una settimana dopo lui morì, il primario mi chiamò a casa per dirmi che il padre mi voleva parlare. Sebbene fossi di riposo andai dai genitori, rimasi del tempo con loro e poi per la prima volta da quando ero in rianimazione andai al funerale di un malato morto.
Era giugno, quell’estate andai in montagna, ma i giorni passavano ed io mi sentivo incapace di godermeli, mi sentivo scombinato, aleggiava in me un intenso senso di tristezza che si rischiarò quando tornando giù da cima Tosa, pensai che potevo dedicare una via di ascesa a Federico.
Mi misi d’accordo con Demis la mia guida di Tione di Trento e ad ottobre tornai in montagna e aprii questa via, 150 metri di parete rocciosa, del 5° grado.
Fu una scalata impegnativa, che richiese sforzo, attenzione e molta concentrazione. Dopo 5 ore di scalata mi ritrovai in cima, era stupendo e pensai che quello era il posto adatto dove seppellire Federico, lì poteva riposare e guardare il magnifico panorama che lo circondava.
L’Adamello, la Presanella e giù giù monti fino al massiccio dell’Ortles.
Non ero riuscito a salvarlo, mi sentivo in colpa, mi domandavo se c’era qualcosa di più o di diverso che avrei potuto fare per garantirgli la vita e alla fine era importante per me accompagnarlo alla morte e seppellirlo simbolicamente.
La discesa in corda doppia durò solo 30 minuti e fu estremamente piacevole.
Si era compiuto un cerchio, si era chiuso un ciclo della mia esperienza professionale, da giovane medico a maturo signore che fa il medico. Una vera rivoluzione.
Dopo l’incontro con Federico ho perso una visione un po’ ideale della professione o forse posso dire che ho perso una corazza che mi permetteva di mantenere una distanza dal dolore che mi circondava quotidianamente.
Prima di Federico non avevo mai avvertito così intensamente la sofferenza, come se la vita mi avesse fatto capire attraverso quel bambino che cosa significa caricarsi sulle spalle un essere umano e portarlo verso la vita.
Oggi “sento” la malattia che devasta il corpo dei malati… una lastra, una TAC, un referto degli esami ematochimici, non sono più per me solo parole o numeri… “vedo” il disfacimento dell’organismo.
Questa percezione della malattia mi fa dolore e questo dolore mi fa sentire debole.
Via via nei miei 30 anni di pratica clinica la medicina è molto cambiata divenendo sempre più complessa. La malattia di un essere umano nasce appunto dall’incontro tra uno specifico essere umano con una specifica entità nosologica e questo incontro è unico per cui al medico è sempre richiesto di fare la spola tra quello specifico individuo malato e ciò che scientificamente si conosce di quella malattia.
Ci si muove quindi nell’incertezza di ciò che è meglio fare per quel singolo essere umano che hai davanti alla luce dell'”evidenza scientifica”.
Federico mi è morto
Non sono riuscito a salvarlo
Sono andato a dargli una degna sepoltura

Folfox4

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lost in translation

Posted by Morris on gennaio 09, 2010
racconti / 3 Commenti

Mio nonno Mario era un marinaio; o meglio, lo era stato negli anni della guerra. Faceva il macchinista sui sommergibili, e non parlava volentieri di quella esperienza.
Ma in quegli anni aveva maturato un amore per il mare che era durato per tutta la vita e una refrattarietà ai lunghi discorsi. Certi anni durante l’estate ospitava noi nipoti a un capanno da pesca che aveva in riva all’Adriatico, e anche noi bambini eravamo sottoposti alla disciplina marinaresca; non ci toccavano l’alzabandiera ed i comandi col fischietto, ma quasi. Era un uomo molto burbero ed incazzereccio, scettico a priori sul genere umano (l’aggettivo con cui più spesso lo sentivo definire una persona era “cl’imbazel”, quell’imbecille), ma talora capace di slanci sorprendenti.
Come quel giorno di fine estate in cui stavamo aiutandolo a portare le sue cose lontano da riva, perché si stava preparando una burrasca coi fiocchi.
Avevamo già tolto dalla barchetta con cui stendeva le reti “da imbrocco” i remi e tutte le parti rimovibili, portandole al capanno, e così alleggerita ci preparavamo a tirarla in secca quando notammo un assembrarsi di gente sulla riva che vociava e indicava al largo. Guardai nella direzione indicata e mi si drizzarono i capelli in testa; in lontananza, in mezzo a un mare teso dal vento di terra e ormai del colore del piombo, un uomo nuotava affannosamente rincorrendo un materassino rosso e blu, in volo sul pelo dell’acqua venti metri davanti a lui.
” E’ un tedesco, il vento gli ha portato al largo il materassino e quel patacca, anziché lasciarlo andare si è intestardito a riprenderlo”.
A quel tempo non c’erano, come adesso, bagnini tecnologici con l’acquascooter. Si poteva contare solo sul moscone rosso, e tornare indietro a forza di braccia con quel vento contrario sarebbe stato una bella rogna .
Mario non ci pensò su due volte. Avevamo smontato il fuoribordo dalla sua barchetta, ma non lo avevamo ancora portato al capanno. Lo rimise a posto avvitando i morsetti con due giri secchi e svitò il tappo del serbatoio, leggero in maniera inquietante. In fondo al contenitore sciacquettava un misero residuo di miscela.
“Nonno, devo andare al capanno a prenderti la tanica della benzina e i remi?”, chiesi.
” Si, così intanto cl’imbazel us’ anega” fu la risposta. Senza dire altro, Mario girò la barca, avviò il vecchio Mercury con uno strappo e si diresse verso il bagnante, ormai un puntino al largo. Raggiuntolo, lo fece salire a bordo e affrontò il ritorno con il povero 4 cavalli che ansimava per vincere il mare contrario.
Per fortuna la miscela bastò.
Giunsero a riva assieme con le prime gocce di pioggia. Il tedesco, stremato, fu abbracciato dalla moglie; nello scambio di parole con lei, mi parve però dall’intonazione di capire che fosse arrabbiato. Con un evidente imbarazzo il bagnino ci tradusse: ” E’ incavolato perché non è riuscito a recuperare il materassino….”.
Mio nonno alzò gli occhi al cielo e commentò lapidario: “A certa gente è più facile mettere qualcosa “int’e cul che non in testa”, e con questo chiuse la faccenda senza ulteriore superfluo uso di parole.
Una cosa che mi è sempre piaciuto del mestiere del medico è spiegare le cose; il chiarire le dinamiche del nostro corpo, il come “si guasta”, come dovrebbe funzionare una terapia è per me sempre un piacere, e nel farlo, soprattutto con i nostri anziani, mi giovo spesso del dialetto che grazie a tutor di madrelingua come Mario padroneggio bene.
Ciò nonostante talvolta ho la sensazione di parlare una lingua straniera, e quando dopo un bel discorso fatto evitando il più possibile tecnicismi, sigle e i termini anglosassoni tanto di moda mi sento rispondere “Eh?” da uno che mi guarda come un marziano appena sbarcato dal disco volante, mi prende lo sconforto.
Alcune notti fa mi capitò di essere chiamato in Reparto al capezzale di un’ anziana signora con una demenza vascolare, ricoverata per un focolaio broncopneumonico; la paziente, nonostante la terapia in corso, respirava con grande difficoltà, con uno spiccato broncospasmo. A rendere più difficoltoso il tutto, lì a fianco si trovava la figlia, agitatissima, che “esigeva” che si facesse subito qualcosa per la mamma. Scorrendo la cartella, alla voce allergie farmacologiche, trovai, orrore , un “allergica al cortisone”, che il collega redattore del documento aveva comunque cercato di mitigare con un punto interrogativo fra parentesi. Che lui per primo non fosse convinto dell’allergia lo testimoniava il fatto che la signora si stesse facendo da alcuni giorni uno steroide inalatorio. Interrogata su questa presunta intolleranza, la figlia fu categorica: “Ah, no, non lo può proprio fare, è allergica: una volta che lo ha fatto è diventata tutta rossa in faccia e le è salita la pressione!”
Indossando la mia miglior faccia tipo “maestro-elementare-che-spiega-le-divisioni-all’alunno-zuccone”, partii a spiegarle che quella non era un’allergia, erano effetti collaterali dipendenti dalla dose somministrata, dal tipo di cortisonico, perfettamente controllabili e comunque sicuramente quasi irrilevanti in una situazione grave come quella attuale. E poi , scusi , se la signora fosse veramente allergica, il cortisone non potrebbe farlo neanche per aerosol…
“Ah – mi sentii rispondere – ma quello lì non è mica cortisone sul serio!”
Sospirai, e con calma risposi che in ogni caso eravamo in un ospedale, che avremmo potuto gestire l’eventuale rialzo di pressione (in quel momento la paziente era anzi ipotesa), e che in definitiva mi prendevo io la responsabilità. La figlia brontolò qualcosa, ma finalmente diede il via libera; e così, dopo un oretta di attenzioni e cure fra le quali era compreso anche un bel boletto di idrocortisone, finalmente potei lasciare la signora con una obiettività e dei parametri decisamente migliorati.
Forse non saremmo andati molto in là, ma sicuramente avremmo passato la notte, che poi in fondo è l’inconfessato obiettivo di quasi tutti i medici di guardia.
La mattina, prima di smontare, mi andai a rivalutare la paziente: i parametri, riferitimi dall’infermiere erano soddisfacenti. Quando però entrai in stanza, dove la signora dormiva tranquilla con un respiro abbastanza regolare, ebbi un sobbalzo. La figlia, dopo aver passato la notte a fare assistenza, era tornata a casa a riposare. Non prima però di aver lasciato, a testimonianza che per quanto potessi aver detto o fatto non ero riuscito a convincerla, un post-it giallo attaccato alla testata del letto su cui era scritto, a lettere tutte maiuscole: “ALLERGICA AL CORTISONE! NON SOMMINISTRARE!!!”.
Oh, Mario, vecchio marinaio, quanto avevi ragione!

Morris

l’elisoccorso (seconda parte)

Posted by Herbert Asch on gennaio 03, 2010
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“l’uomo catarifrangente scese
dalla sua carrozza bianca illuminandola
di una luce azzurrissima, si avvicinò
gli disse ora cura di te mi
prenderò”

Max Pezzali – La volta buona

Ricordo però ancora adesso perfettamente come il giovine specialista che ero vent’anni fa non vedesse l’ora di mettere alla prova il suo ardimento.
Da agosto di quell’anno erano iniziati i turni del servizio di elisoccorso, ma riservati solo agli specializzati, e anche se lavoravi già da qualche anno (allora era possibile) l’accesso ai mitici turni non era possibile senza la specialità.
Ma alla sessione di ottobre di quell’anno, alè, eccomi specialista.

Finalmente potevo entrare anch’io nel Grande Circo dell’emergenza: ultima frontiera rimasta, terra dei gesti estremi e delle terapie eroiche, dove si Salvano le Vite Umane e non si guarda in faccia nessuno, dove si Intuba, si Incannula, si Defibrilla, friggendo e trafiggendo in tutti i modi e da tutti i buchi quel san Sebastiano di Paziente da Salvare. Dove si arriva in elicottero (vero Deus ex machina!) e si corre a Sirene Spiegate sulle Ambulanze.

Dove si lavora fianco a fianco con tutti gli altri Supereroi, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia, Protezione Civile, Guardaparco e Vigili Urbani, pardon, Polizia Municipale e poi l’arcobaleno delle croci Rosse, Verdi, Bianche, Gialle, Oro, Azzurre, e poi le Misericordie, i Samaritani ed i Cavalieri di Malta, tutti con le loro Superdivise ed i Superattrezzi, come nei fumetti giapponesi.

Superate alcune incombenze, tipo il matrimonio, il viaggio di nozze, l’allestimento della casa nuova, eccomi alla ricerca dell’aggancio per entrare nel giro.
Attivo radio flebo, il tam-tam sempre attivo tra gli specializzandi, chi gestiva la cosa di fatto pareva fossero gli anestesisti del Policlinico e quelli del Paride Campari, (un ospedale di zona), in particolare un tale Scèspir.
– Quello delle commedie? –
– Ma no, fa l’aiuto al Campari, però puoi provare a parlarne al Megaprofessore del Policlinico prima, se lui è d’accordo non c’è problema –
– già, ottima idea –
Peccato che parlare al megaprofessore non era così semplice.

Al Policlinico conoscevo un paio di Aiuti, che non sapevano come si scrivesse Scèspir, lo conoscevano appena, ma sapevano come potevo “casualmente ” incrociare il Megaprofessore. Vieni, mi dissero, alle 7.30 all’inizio seduta. Passa sempre a quell’ora poi… insh’allah.

In quelle sale un pochino mi conoscevano, avevo frequentato per tre mesi  non da molto. Quel mattino sono arrivato alle sette e un quarto, non troppo presto, per non aspettare fuori, il giusto per entrare con gli infermieri di seduta. Sapevo come entrare, dove cambiarmi, cerco la mia conoscenza in sala, mi affianco a lui e aspetto vigile.
Mentre aspetto gli chiedo se conosce Scèspir.
Ma, il mio contatto è troppo giovane, si è specializzato l’anno prima di me. No, non conosce. No non sa come si scrive, si scriverà così come si pronuncia, no?.. ci rinuncio.
Dopo poco arriva il Megaprof, faccio in modo di incrociarlo casualmente in sala, e, chiedo se fosse stato possibile parlare un attimo con lui.
– Certo caro, solo che oggi non riesco, passa in Istituto domani verso le 10.-

Il giorno successivo era già lì alle 9.30.
In istituto incontro un’altra conoscenza di qualche tempo prima, con cui avevo fatto un po’ di gavetta nelle sale del Pronto Soccorso. Ma neanche lui sa come si scrive Scèspir, si…lo conosce, ma…
Poi il Megaprof arriva e mi fa entrare nello studio. Una volta sentito il problema mi fece nell’ordine:
una testa così su tutte le cose che dovevo sapere,
un pistolotto sulla necessità, prima di intraprendere altre attività, di fare una salda gavetta di almeno due anni di sala operatoria
– sono quasi tre anni che lavoro, professore – esagero.
una manfrina tenace sulle abilità necessarie
– ma nel mio ospedale ho già visto parecchi traumi gravi, sa…-

quindi mi regala, togliendolo dal cassetto della scrivania come cosa preziosa, una copia di un suo libretto su come si fa l’Anestesia moderna.
– Grazie professore! lo cercavo da tempo, ma non ero mai riuscito a trovarlo!- mento.
E poi… mi rimanda comunque all’aiuto del Campari.
Era ora di andare, il colloquio era finito.
Mi alzo, ringrazio il professore.
– Solo una cosa, professore. –
rimaneva l’ultimo, pesante dubbio.
– Dimmi caro –
– Scèspir… come si scrive? –

Herbert Asch

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il riflesso di Lazzaro

Posted by Rabuccia on dicembre 20, 2009
racconti / 5 Commenti

Vi sono delle cose di questo mondo che sfuggono nella loro completezza alla umana comprensione. Questo “incipit” tra il solenne ed il banale farà da introduzione per descrivere quelli che lo scrittore H.P. Lovecraft avrebbe probabilmente definito: “I terribili fatti che si svolsero la notte tra il 12 e 13 Agosto 2001 presso i locali della radiologia dell’ ospedale della tranquilla cittadina di ***”.
E non sia casuale il fatto di voler scomodare l’inquietante scrittore. Anche se il mio ospedale è piuttosto lontano dalle nere acque del Miskatonic River il paragone non è né irriverente né esagerato, per quello che, amici lettori, andrò testé a raccontare. 
Il turno di guardia in rianimazione quella notte era apparso fin dal mio arrivo uno di quelli tranquilli. Le consegne delle otto non avevano posto in essere situazioni potenzialmente evolutive e/o difficili da gestire. Il colpo d’occhio sull’emiciclo del reparto era rassicurante. I pazienti erano quattro su nove posti. Tutti e quattro intubati e ventilati. Il leggendario senso pratico del rianimatore, spruzzato di larvato cinismo, gli fa sempre pensare, nel profondo dell’anima che “quando i pazienti sono intubati e sedati si lavora meno”. Questo solo perché la loro condizione è di “stabilizzazione”; in realtà questo è un eufemismo per non dover dire che non c’è bisogno di sedazioni raffinate, e poi quando sono già intubati si può stare tranquilli. Gli infermieri ai monitor conversavano del più e del meno programmandosi il resto della serata e si apprestavano con serenità al cambio turno delle dieci.
I rumors ospedalieri, ovvero quella serie di informazioni non ufficiali che fornivano prove non documentali della esistenza di urgenze in fieri, indicavano una intensa attività del Pronto Soccorso.
Telefono! “Dottore c’è da andare in TAC ad assistere un paziente mal messo appena arrivato”. L’assistenza in TAC è una delle grandi incognite di ogni rianimatore ed è una attività particolarmente temuta. Esiste in effetti un grading pressoché infinito delle situazioni cliniche che ci potrà trovare a gestire. Si va dal trauma cranico lieve in stato di agitazione psicomotoria in cui la abilità rianimatoria è limitata alla capacità di mantenere farmacologicamente legate le membra irrequiete, fino ad arrivare alle grandi catastrofi politraumatologiche in cui si entra rapidamente in un girone dantesco fatto di tubi, monitor, farmaci, comandi imperiosi ecc… La TAC, come è noto agli addetti ai lavori, è luogo di grande pericolosità per il paziente e per chi lo assiste. La destabilizzazione è fortemente condizionata dagli spostamenti fisici, inoltre i compromessi richiesti dai radiologi e le difficoltà ambientali fanno si che molti peggioramenti si verifichino proprio qui, dove si lavora in piena golden hour.
Quella sera avevo trovato però una situazione abbastanza rassicurante: un paziente anziano sveglio già posizionato sul lettino. Il mio arrivo era stato, come sempre, motivo di grande sollievo per il collega del Pronto Soccorso che si affrettava a darmi le informazioni del caso: “E’ un paziente di 77 anni arrivato qui con l’ ambulanza dei volontari di ***. Lo hanno trovato in casa i famigliari. Lui vive da solo. Lamenta dolori addominali e ipotensione. Abbiamo fatto liquidi, messo la dopamina. L’ addome è teso. Potrebbe essere un aneurisma in rottura. Ti ho chiamato perché è instabile emodinamicamente”. Guardo il mio paziente. E’ un vecchiettino pallido, sudato ed ansimante che guarda inerte il soffitto con occhi spenti. Gli si legge in faccia solo la consapevolezza della morte imminente. Non guardo il monitor, faccio come gli antichi colleghi: sento con le mani il polso periferico debolissimo e percepisco la vasocostrizione della cute. Settanta di sistolica con la dopa, obnubilamento sensoriale, dispnea crescente. Intubo senza difficoltà il paziente che con 50 mg di ketamina chiude gli occhi stanchi e vitrei.
Eseguiamo la TAC col paziente intubato, sedato e ventilato. Il radiologo lavora sereno e rapido. Il chirurgo appena arrivato attende il responso sullo schermo con la stessa ansia del giocatore di poker che apre le carte. Su quello schermo si disegnerà presto il destino del paziente. 
“Niente di chirurgico”. Una voce sicura alle mie spalle suggella definitivamente la questione. “Sarà probabilmente una ischemia intestinale. Mi pare fosse tabagista han detto i famigliari. Tabagista e vasculopatico”.
Mentre si discute della diagnosi, il paziente dopo un balletto elettrocardiografico di extrasistoli ventricolari comincia a salutare il mondo disegnando sul monitor una larga sinusoide che di fisiologico non ha proprio più nulla: fibrilla! E via con la sequenza rianimatoria tante volte eseguita: 200 joules col defibrillatore, massaggio cardiaco sul piano della TAC. Vado avanti per un quarto d’ora con tutto il possibile, e con la certezza della inutilità di tutto. Mi fermo. Venti minuti senza ripresa di circolo. Il paziente è esanime ancora in TAC. Il prezioso strumento diagnostico di fronte alla grandezza ed assolutezza della morte, più forte di ogni tecnologia, disegna sopra di lui una sorta di spaventoso catafalco.
Inizio la noiosa procedura della compilazione del foglio di consulenza. Il personale della radiologia si aggira attorno alla salma. E a quel punto accade. Il braccio sinistro del paziente si alza a quarantacinque gradi e dalla sua gola da cui ho tolto da qualche minuto l’ormai inutile tubo si leva un suono dell’oltretomba che risuona strozzato nella stanza. Un grido estremo che nulla ha di umano. I tecnici della radiologia mi gridano contro: ma è deceduto o no il paziente? La mia mente per un attimo vacilla. “Non può essere. Non è mai successo. Abbiamo sospeso la RCP da dieci minuti. Guardo il paziente: è immobile. Il braccio è ricaduto lungo il fianco. Ma il grido l’abbiamo sentito tutti. Sono certo, si sono certo. Son scappati via tutti. Sono solo col paziente che dovrebbe esser morto. Non è possibile! Prendo l’Ambu e per dieci secondi ventilo un paziente a cui sto facendo l’accertamento di morte. Io? Ma cosa sto facendo!Lavoro da quindici anni. Ne ho visti di decessi. Sono un rianimatore. Sono il più profondo conoscitore del confine tra la vita e la morte. Cosa sto vivendo? Un incubo? L’ imperscrutabile? Cosa?
Il paziente resta in asistolia ed in midriasi. Mi fermo definitivamente. Compilo la consulenza. Torno in rianimazione con addosso un senso di gelo e di ignoto, di inconcepibile. Racconto tutto al mio collega di guardia anestesiologica. Mi ascolta e sorride. Poi mi dà una pacca sulla spalla e mi spiega: era il “Riflesso di Lazzaro”. Sono clonie e riflessi spinali post mortem. Il grido altro non era che l’ aria intrappolata nei polmoni che è uscita facendo vibrare le corde vocali, quando si son contratti gli intercostali”.
“Ah si, ho capito. Mi sono un po’ spaventato”. Ma sarà così, penso. Anzi è così.
Solo a ripensare a quel suono dell’oltretomba, un brivido freddo mi percorre ancora la schiena però. Ancora adesso.

Rabuccia

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prime notti

Posted by Drkrishna on dicembre 05, 2009
racconti / Nessun commento

Era una delle mie prime notti di guardia. Fresca assunta, dopo la specializzazione in radiologia avevo lavorato più o meno in qualche centro privato, in qualche tranquillo ambulatorio di città ma mai, prima d’ora mi era capitato di lavorare in un ospedale di frontiera.
Dal PS sale un politrauma, uno di quelli che poi ho imparato a riconoscere come finti politraumi, nel senso che è uno di quelli per i quali non è stato facile inquadrare la dinamica dell’incidente per cui viene spedito in radiologia a fare un po’ di tutto: l’rx del rachide in toto, il torace per coste e parenchima, l’eco addome, la TC del cranio e se ha male da qualche parte in particolare, pure l’rx del segmento che ne so, un ginocchio o un gomito. Ma per la mia prima esperienza il “politrauma” era quello del libro, dove trovi le fratture cervicali, l’ESA, la rottura di milza etc… per cui sudavo freddo mentre il tecnico (TSRM) mi sfornava delle proieizioni tra l’altro da schifo (ed in seguito avrei imparato pure ad urlare per delle proiezioni come quelle).  Stavo per adagiare il paziente sul lettino TAC mentre dalla diagnostica affianco, dove uno dei TSRM stava nel frattempo facendo qualche esame ad un altro paziente, grida: “chist’ ten’ a botta ncuorpo!”. Gli altri tecnici saltano ed io come una marziana scesa sulla terra continuavo a non capire. Finalmente riprendo i contatti col pianeta terra, faccio un attimo mente locale su dove mi trovo, e cosa sta succedendo in questo periodo in questa città, guardo in faccia il paziente e capisco… è uno che hanno appena sparato, la botta è il proiettile.  Di lì a poco vengo a sapere che si tratta di un pezzo importante, che il 118 ha portato qui perché nell’altro ospedale, quello dove vanno tutti quelli come lui, non c’erano più posti. C’era una guerra in atto allora (parlo di pochi anni fa) e ci si sparava come a Kabul. E noi li dovevamo pure curare, e spendere soldi delle nostre tasse per loro…
Sbrigo il povero “politrauma” che alla fine non aveva un bel niente se non qualche piccola contusione, e mettiamo sulla TC lo sparato… non riuscivo a guardarlo in faccia: continuava a piangere come un bambino, gridava “mammina, mammina dove sei?” . Eppure piangeva, lui che chissà quante persone aveva fatto piangere, lui che aveva ucciso, lui che aveva picchiato a sangue un poliziotto…
Alla fine ne viene fuori che il proiettile gli aveva lacerato parte del fegato e si era fermato sotto il diaframma: si salverà.
Ancora non riesco a tradurre in parole il misto di sentimenti che provai in quel momento, tra l’ansia di tirar fuori una diagnosi, un’indicazione per il chirurgo che l’avrebbe dovuto operare, e la consapevolezza della persona che era… mi ripetevo solo “meno male che ho fatto il giuramento d’Ippocrate”

Drkrishna

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