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Biancaneve

Posted by Giro Batol on gennaio 10, 2009
cronache, ritratti / Nessun commento

31/12/2008, h 20.00: ho ancora negli occhi mio figlio che stamattina sciava con me, ma ho già addosso la casacca azzurra un po’ stinta e l’immancabile fonendoscopio portafortuna al collo, un Littmann cardiologico da sballo: qualche piccolo vezzo bisogna anche concederselo!
Neanche il tempo dei saluti e “Pronti,via!”: paziente in edema polmonare acuto in cardiologia. Situazione seria: ottantenne, agitato, ipossico, al saturimetro 72% e ovviamente nessun posto libero nelle terapie intensive; e allora via, in Sala Emergenza di Pronto Soccorso. All’arrivo le ormai solite schermaglie di battute con medici, infermieri ed OSS, più amici che colleghi, quasi ad esorcizzare l’implacabile ripetersi di scene che ci augureremmo sempre irripetibili. Ma questa volta le cose vanno bene, per le 23.30 il paziente si è ripreso ed è stabile: intorno a lui in compenso il Pronto Soccorso freme del solito caos per nulla calmo:
“Non respiro, mi manca l’aria, toglietemi questa maschera vi dico!”
“Aiutatemi, ho dolore al torace.”
“La faccia, la faccia, mi è andato l’olio bollente in faccia!”.
Riesco a salire in Rianimazione in tempo per gli Auguri ed un accenno di brindisi: siamo nel 2009, chissà che cosa ha in serbo per noi:
Driinn, Driinn!!!!, 2240 la MedUrg, accidenti. “Ehi, scherzavo, non avevo alcuna fretta di scoprirlo, sono solo le 00.15! Ma forse è solo per gli auguri”, pensa tra sè e sè quell’inguaribile ottimista che mi porto dentro.
” Un anestesista urgente, paziente in arresto, stanza C, letto 10″.
“Alla faccia degli auguri, però precisi quelli della MedUrg, gli unici che quando ti chiamano ti dicono dove andare e non giocano a nascondino: stanza C, letto 10.”
Arrivo nel corridoio del reparto ed individuo da lontano la stanza C: accanto ad una porta infatti vi sono una giovane donna, di circa 30 anni ed il suo fidanzato, come poi mi verrà presentato. Lei piange, singhiozza, urla “E’ morta, la mamma è morta”! Lui freddo, “Dai, chiama tuo padre!”
Entro nella stanza in cui sono già febbrilmente in corso le manovre rianimatorie, massaggio cardiaco, ventilazione con AMBU, monitoraggio ECG, Carrello Emergenza dispiegato in tutta la sua operatività. Saluto, dò una sommaria occhiata alla paziente che a prima vista appare molto anziana e segnata da parecchie malattie e vado alla sua testa per la gestione delle vie aeree: quante volte quella stessa scena, quante volte quelle stesse facce e quelle stesse espressioni!
Chi guarda il monitor corrucciato come cercando di carpire il segreto di quell’arresto, la sua causa e magari la sua terapia; chi ha le gote rosse, la fronte imperlata di sudore ed il fiato sempre più grosso causato dallo sforzo del massaggio; chi si muove freneticamente intorno al carrello per prendervi l’occorrente con movimenti talmente automatici da sembrare quasi marionettistici: “larincoscopio, tubo numero sette, siringa per cuffiare, fonendoscopio, cerotto, adrenalina 1 fiala ogni tre minuti” e così via.
Anche la signora del letto 11, la sua compagna di stanza, ha assunto quella che ormai ho capito essere la modalità di risposta classica a quella situazione: è girata su un fianco, verso la finestra, apparentemente come se dormisse e come se gli eventi che si stanno svolgendo a poco più di un metro da lei altro non fossero che un fastidioso temporale estivo che presto si risolverà permettendole di riprendere il meritato riposo.
Le prime volte che ho notato questi comportamenti mi sembrava impossibile che le persone potessero assumerli.
“Ma come, dicevo tra me e me, una persona con la quale parlavi fino a mezz’ora fa sta morendo, e tu ti giri dall’altra parte? Non dico di venire ad aiutarci, non dico di stare lì ad incoraggiare gli sforzi rianimatori almeno con lo sguardo, ma addirittura far finta che non stia accadendo nulla mi sembra eccessivo!”
Eppure passando gli anni, rispondendo agli immancabili Driinn!, aprendo porte e porte su rianimazioni in corso, ho osservato che è proprio questo il comportamento della maggior parte dei “compagni di sventura”.
Penso che sia spiegabile con la paura di ciò che più temiamo, la morte, vissuta per giunta proprio in un momento di maggior fragilità come può essere quello di un ricovero. In questi momenti torniamo fragili come bambini e, come i bambini pensano di nascondersi portando le mani davanti agli occhi, noi ci nascondiamo alla morte girandoci dall’altra parte e pensando che la campana non stia suonando per noi.
Ma torniamo alla mia signora della stanza C: dopo quaranta minuti di manovre rianimatorie inutili constatiamo il decesso: la mia collega ed io ci guardiamo in faccia e sappiamo entrambi che adesso stiamo per affrontare il momento che ognuno di noi detesta più di ogni altro, la comunicazione del lutto. Portiamo con fatica la figlia della signora ed il suo fidanzato in uno studio tranquillo, li facciamo sedere e gli comunichiamo la morte della signora. Inaspettatamente la figlia pur tra lacrime e sussulti si rasserena ed assume un contegno da moderna principessa (Biancaneve, penso guardando fuori). Si assicura che la madre non abbia sofferto e dopo essere stata confortata su ciò, ci dice di come ormai si fosse resa conto che le sofferenze legate alle malattie fossero divenute per lei insopportabili. Ci dice che i suoi genitori sono separati e che il padre ha rifiutato il suo invito a giungere in Ospedale asserendo di essere troppo stanco: in fin dei conti è stata pur sempre la notte del Veglione di Capodanno, le ha consigliato di andare anche lei a riposare che poi se ne sarebbe riparlato l’indomani mattina. Mentre ci racconta tutto ciò è proprio triste la nostra Principessa Biancaneve, quasi più che per la morte della madre. Cerca conforto nel suo fidanzato, il suo Principe Azzurro, il quale non trova di meglio che consolarla così: “Faresti meglio a dire a tuo padre di alzare il culo dal suo letto”.
Driinn! E’ il Ponto Soccorso: “serve un anestesista per una cardioversione
Urgente”.
“Povera principessa Biancaneve, penso mentre mi allontano dal reparto, se è questo il principe azzurro che ti ha trovata…”
E intanto la neve fiocca copiosa.

Giro Batol

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una nuova strategia

Posted by il guardiano on ottobre 25, 2008
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Era meglio parlare chiaro. La mamma era in coma. Il dottore aveva impiegato un bel po’ a spiegare questa cosa al ragazzino. Aveva anche parlato di un nuovo tubicino che le avevano messo in testa. Sembrava una cosa dell’altro mondo. Un sensore proprio dentro il cervello. Chissà quali informazioni avrebbe potuto dare. Il ragazzino immaginava tutta una serie di onde, di segnali, di flussi che messi insieme avrebbero dato un quadro molto preciso della malattia della mamma. Una specie di tac (aveva già visto una tac) ma non degli organi, proprio dei pensieri. Così quando era entrato e aveva visto quel piccolo monitor che indicava un numero scritto grande, come per essere letto da un bambino dell’elementari, c’era rimasto un po’ male. Era molto più interessante l’altro monitor, quello colorato, o il ventilatore (anche quello gliel’avevano già spiegato). Comunque non disse niente. Non voleva offendere quel dottore che gli aveva fatto lo spiegone. Certo che avrebbe preferito qualcosa di un po’ più sofisticato per frugare nel cervello della mamma.

Il quadro dei papaveri era appeso proprio sopra al letto. L’infermiere che si occupava della mamma (c’era anche lui di là con il dottore), gli disse che era molto bello quel quadro. Gli disse che lui non sapeva disegnare neppure una casetta ed ammirava molto chi invece aveva queste doti (disse proprio la parola “doti” che colpì il ragazzino, perché era una di quelle parole che usavano spesso gli adulti per fare un complimento, senza accorgersi che non c’era niente da essere contenti a possedere una “dote”; era più una scocciatura che altro).
Tornando a casa pensò a quando avrebbe potuto raccontare tutto a Miriam. Immaginava i discorsi, le parole precise che le avrebbe detto, e le sue reazioni. Ogni piccolo gesto. Immaginava i loro sguardi aggrappati l’uno all’altro, e le loro bocche impigliate fra dolci parole . Immaginava il suo sorriso, e le sue risate. Poi improvvisamente, poco prima del bacio, la scena ritornava dall’inizio, e ricominciava tutto. Ma ad un certo punto si era accorto che c’era proprio poco da ridere in tutta quella faccenda. Con che scusa avrebbe potuto invitare Miriam? E come avrebbero pututo trascorrere un pomeriggio insieme a divertirsi? “Ciao Miriam, vieni a casa mia a vedere il crocifisso che ho appena finito di dipingere?” oppure “Mi spiace, ma devo proprio tornare a casa per le 5 – se potessimo baciarci entro quell’ora! Mia madre è all’ospedale, in coma, che mi aspetta…”
No, così, non avrebbe mai funzionato.

il guardiano

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l’arabo

Posted by Giro Batol on ottobre 18, 2008
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Finalmente una notte tranquilla! Sono già le tre ed il telefono tace; d’altronde l’avevo promesso al Guardiano: ”Vedrai, stanotte ti scrivo!” DRIIN,DRIIN,DRIIIIN! Accidenti alla mia mania di sfidare la sorte: eppure me lo dico sempre che la persona intelligente risolve i problemi, ma il saggio li evita. DRIIN,DRIIN, DRIIIIN! 2437: è la Sala Emergenza del Pronto Soccorso: anche per questa notte la saggezza è un’utopia! “Abbiamo un ragazzo di vent’anni, alto circa un metro, con un quadro di tetraparesi spastica, che si è fratturato il femore destro e non riusciamo a prendergli un accesso venoso in nessun modo;forse serve una centrale”. “Arrivo” In pochi secondi sono in Pronto ed incrocio un’infermiera delle ”vecchie”; mi guarda, mi sorride e scuote sconsolata la testa, come a dire: ”Di nuovo tu?”. Poi mi indica un letto in una zona poco luminosa della degenza verso il quale mi dirigo a passo rapido. Avvicinatomi, scopro un gomitolo di pelle ed ossa, dal torace deforme, le braccia rattrappite, le gambe in una posizione innaturale in parte anche a causa della frattura. Ma da un collo inesistente si erge un viso pieno, ben nutrito, dalla pelle ambrata, sormontato da folti riccioli neri, con incastonati al suo interno due occhi scuri ricolmi di paura. Mi rendo conto che il mio incedere aggressivo potrebbe averlo spaventato e cerco di riguadagnare posizioni con il miglior sorriso che possa venirmi fuori dinnanzi a tanta sofferenza. Poi gli accarezzo il capo e gli chiedo se capisce quello che gli dico. Dall’oscurità ai lati del letto una voce calma e sicura con forte accento straniero mi risponde che il ragazzo capisce la sua lingua ma che non riesce a parlare. Solo ora mi accorgo di una signora vestita con abiti orientali, dall’età indecifrabile che si china sul suo capo e gli sussurra alcune parole in arabo di una dolcezza e di un’armonia che mai avrei immaginato fosse possibile per tale lingua. Effettivamente paiono infondergli un minimo di serenità. Spiego ai due pazienti, non riesco a considerarli entità distinte, quel che devo fare e mi ripropongo di farlo rapidamente e cagionando loro il minor disagio possibile. Mi carico, come quando giocavo a pallavolo: ”Pensi di essere bravo? Ed allora dimostralo, pallone gonfiato”. E con non poca buona sorte che individuo una vena sull’avambrccio destro e con l’aiuto della mia infermiera riesco effettivamente a incannularla senza difficoltà. L’espressione di gratitudine che ho potuto apprezzare sul viso della madre ed appena intravedere su quello del ragazzo è il più bel ricordo di questa nottata. Mentre mi allontano dal Pronto Soccorso non posso fare a meno di riflettere su quanto sia stato e sia stupido da parte degli uomini combattersi per difendere il nome di un dio, Allah o Elohim che sia, che se esiste mi pare davvero un gran pasticcione per non dire di peggio. DRIIN,DRIIN,DRIIIIN! “Abbiamo una signora di sessant’anni con una tachi a complessi larghi, batte a 210” “Arrivo”, ma questa è un’altra storia”.

Giro Batol

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la fine del mondo

Posted by il guardiano on ottobre 04, 2008
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Il giovane dottore arrivò in pronto soccorso che il consulto era già cominciato. Il medico di guardia, il radiologo, il chirurgo vascolare erano tutti davanti alla TAC. Il referto era chiaro: aneurisma dell’aorta addominale in fase di rottura. Il giovane dottore chiese se si andava in sala. La risposta arrivò secca dal chirurgo. Ovviamente si andava in sala. Ma nessuno si muoveva da lì. Il fatto è che la signora sapeva dell’aneurisma, e 2 anni prima aveva rifiutato l’intervento.  La signora aveva dei problemi? chiese il giovane dottore. Era depressa? Demente? O cosa? No, niente. 84 anni, senza parenti. Bisognava solo convincerla. Mancava il consenso firmato.

La paziente era in sala emergenze, attaccata ai monitor, separata dagli altri ospiti da una tenda che scendeva dal soffitto. Tranquilla, respirava bene, la pressione era stabile. Una nonnina dagli occhi vivaci, un po’ sofferenti. Il giovane dottore la salutò, lei rispose. Le chiese come stava. Aveva male alla pancia. Il giovane dottore le somministrò un analgesico, lei ringraziò. Poi dopo qualche minuto di silenzio iniziarono a parlare. La nonnina era ben conscia di quanto era successo. Sapeva che l’aneurisma prima o poi si sarebbe rotto, ma lei non aveva voluto farsi operare. Non voleva morire in ospedale. Tutti le avevano detto che se si rompeva sarebbe morta, lì, su due piedi, senza neanche accorgersene. E questo in fondo la tranquillizzava. Così quando le era venuto quel mal di pancia terribile, mai più pensava all’aneurisma. Se avesse sospettato che era quello, se ne sarebbe stata a casa, così nessuno l’avrebbe operata. Ma quei dottori là volevano operarla a tutti i costi. E lei non voleva farli arrabbiare. Il giovane dottore la rassicurò sul fatto che se lei era contraria all’intervento, nessuno avrebbe potuto operarla. Se voleva poteva anche ritornarsene a casa. A queste parole lo sguardo della nonnina si accese di una nuova luce. Davvero poteva tornarsene a casa? E morire nel suo letto? E vedere per l’ultima volta le sue amiche? Certamente. Non era una cosa semplicissima, bisognava organizzarsi, ma era assolutamente possibile.

Quando il giovane dottore tornò dai suoi colleghi, e spiegò la situazione, nessuno lo prese sul serio. Nessuno pensò che era ragionevole lasciare perdere e fare in modo che la nonnina se ne tornasse a casa a morire nel suo letto. Ma il giovane dottore rimase fermo nella sua posizione: lui non avrebbe mai addormentato una persona perfettamente sana di mente, orientata nel tempo e nello spazio, che rifiutava (in maniera del tutto ragionevole) un intervento che (in quelle condizioni) ha una mortalità elevatissima, e un rischio altrettanto elevato di complicanze future. Cosa si poteva fare allora? Semplice. Ognuno avrebbe scritto la sua consulenza, il suo parere diagnostico, terapeutico e prognostico, e sotto tutte queste belle parole la signora avrebbe dichiarato la propria volontà.

Con il cellulare del giovane dottore (lei nella fretta e nella confusione aveva dimenticato il suo a casa), la nonnina chiamò due sue amiche (le più care), e un vicino di casa (infermiere). Raccontò loro tutto quello che era successo e invitò tutti a casa sua per un’ultima partita a carte. Poi firmò i fogli. Il giovane dottore aspettò che la caricassero sull’ambulanza, e poi fece ancora una cosa (che forse non avrebbe potuto, ma che gli sembrava indispensabile). Diede alla nonnina una siringa con dentro diluita una fiala di morfina. Le disse di farsi aiutare dal suo vicino di casa (l’infermiere), e di farsela fare, lentamente e a piccole dosi, se il dolore fosse di nuovo comparso.

Ho pensato un sacco di volte al giovane dottore e alla nonnina. Ho pensato a queste due persone che percorrono un tratto di strada insieme. Quella strada che porta all’orizzonte. Un giovane, figlio di tutti i figli, e una vecchia, madre di tutte le madri, che arrivati là dove il mondo finisce, di fronte al buio cosmico, si salutano. Lei per continuare, mite e coraggiosa, il suo cammino verso l’infinito, lui per tornare, chino e impotente sui suoi passi, e negli occhi le tracce di un nuovo stupore .

 il guardiano

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Tatiana

Posted by Herbert Asch on settembre 20, 2008
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Tatiana ha uno sguardo dolce ed un poco assente di occhi verdi, chiarissimi, liquidi, i capelli sono morbidi riccioli lunghi, ancora neri, appena spruzzati di bianco. Ha un grosso orecchino da gitana ed una collanina di perline di plastica annodata al collo. L’aspetto è sporco e un po’ trasandato come di gente che arriva da chissàdove.Di lei dicono sia rumena, avrà sui quarant’anni e nonostante l’obesita il suo corpo lascia trasparire delle fattezze piacevoli in gioventù. È enorme, nel letto d’ospedale, dove è stata ricoverata dopo il suo ictus che le ha tolto la parola e paralizzato metà del corpo. Per la verità è già arrivata così dal suo paese: sulla strada dell’emigrazione le è preso il coccolone, e l’hanno brevemente ricoverata in un paese vicino alla frontiera, lo testimonia un burocratico foglietto scritto in una indecifrabile lingua dell’est, dove si comprende solo il nome di un farmaco, ma poi è stata caricata in auto o chissà con quali altri mezzi e per quali strade è stata portata in Italia.

Del ricovero conservava ancora il catetere vescicale, nascosto sotto le gonne Poi i parenti hanno chiamato l’ambulanza, un po’ perchè imbrogliava, dava fastidio, la vita è dura per chi viene da fuori così, forse non c’è tempo, nessuno può accudirla e poi sanno che qui qualcosa le faremo, cercheremo di curarla, in fondo è un attestato di stima anche questo.

Mia madre sta male, avranno detto in una stentato italiano, e così eccola qui.

Adesso è qui davanti a me, con lo sguardo imbambolato un po’ perso nel vuoto, guarda fuori della finestra, non sono sicuro che sia per la sua lesione o solo che cerchi di capire fuori dove si trova. So solo che è afasica, non riesce a parlare, non si capisce se comprende quanto le viene detto (puo’ esserci una afasia anche in questo senso); sicuramente non capisce una parola di italiano. Ed io dovrei incannulare a lei una vena centrale, cioè pungerla al di sotto della clavicola con un ago sufficientemente lungo da raggiungere la vena succlavia, ma anche (e malauguratamente, provocando qualche danno) la pleura, se lei non starà ferma. Dovrei cercare di spiegarglielo.

Gli infermieri mi hanno detto che non è venuto nessuno a trovarla in questi giorni, che ormai è quasi due settimane che è qui; e non hanno né un indirizzo né un numero di telefono di parenti. Anche se dall’aspetto non era una zingara.

Ho già cercato in ospedale se ci fosse qualche rumeno, tra i parenti dei ricoverati, in Pronto mi hanno detto che c’è un’allieva infermiera rumena, ma oggi non è di turno, forse in chirurgia c’è un’infermiera extracomunitaria: la cerco, peccato è polacca e non parla il rumeno. Pazienza Cerchero’ di spiegarmi a gesti, le faccio vedere una flebo, le parlo e le spiego in italiano, sommariamente, lo sguardo si ravviva una attimo: percepisco che intende che le sto dicendo qualcosa, anche se non ne capirà il senso.

L’infermiera la posiziona, io agisco, lei rimane ferma durante tutta la procedura, forse le ho fatto un po’ male. Quando ho finito rimane con la testa voltata verso la finestra le passo davanti per andare via, le faccio segno che abbiamo finito, le sorrido, per farle capire che tutto è andato bene, batte le ciglia, forse ha capito.

Lascio lì Tatiana a guardare fuori.

Herbert Asch

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era solo una questione di volume

Posted by il guardiano on settembre 07, 2008
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Caterina domani va in reparto. Caterina va in reparto dopo 54 giorni di ricovero, 40 chili in meno, e senza nemmeno una tac. Se ne va portandosi via il suo letto, il suo sorriso, e il suo appetito. Ed è strano, ma da noi quando se ne vanno via così, un po’ ci dispiace. Anche se in realtà ci fa veramente piacere (non è facile da spiegare). Non è guarita, Caterina, la strada verso casa è ancora lunga, ma sicuramente non è più in salita, non è più nel buio, non è più alla giornata. Caterina può ricominciare a fare dei progetti, ad organizzarsi la vita. Adesso la via è sicura, è segnata. Salvo complicazioni (ovviamente).Caterina è arrivata avvolta nel tappeto di casa, trasportata dai vigili del fuoco, calata dal balcone, poggiata su di una barella traballante. Non respirava più. 170 chili (mai misurati, perché in ospedale non c’è nessuna bilancia in grado di farlo) ammucchiati sul torace, sull’addome, contro il diaframma… Impossibile respirare.

Il letto l’abbiamo dovuto fare arrivare apposta perché quelli normali non erano omologati per pesi superiori a 130 chili. Un tubo in gola e via. I ventilatori non si spaventano, loro spingono finché ce n’è, finché vuoi tu, e l’aria ha ricominciato a circolare, il sangue ad ossigenarsi. Quanto a fare una tac non era pensabile. Il lettino non l’avrebbe retta, e si rischiava di farla restare incastrata dentro. Va be’, pazienza, facciamo senza. Le radiografie sembravano più delle machhie Rorschach che non immagini di organi intratoracici, ma anche lì che potevamo farci? Le abbiamo interpretate secondo pulsioni inconsce…

Poi la tracheo (fatta dal primario ovviamente) e un lento, lungo, graduale processo di guarigione. Roba che da un giorno all’altro sembrava sempre ferma lì, ma a distanza di una settimana il miglioramento lo vedevi eccome. Nessuno ci credeva, ovviamente. Nessuno ci avrebbe scommesso dieci euro.

Eppure Caterina, paziente, ostinata, sorridente, ha ricomicniato a respirare, ad aprire gli occhi, poi a muoversi, poi a dimagrire.

Domani se ne va senza cannula, con la sua voce un po’ chioccia. Guarita da non si sa che cosa, dopo 54 giorni di rianimazione, senza aver mai fatto neppure una tac. Buona fortuna.

il guardiano

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Giuanin d’la crava

Posted by Herbert Asch on agosto 24, 2008
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L’omino magro e segaligno era accudito dalla figlia, una donna di piccola statura non carina, ma dall’aria sveglia, che gli faceva aria nel corridoio. Ricordo che l’avevo fatto accompagnare in antisala per incannulare una centrale, poi una serie di eventi l’aveva fatto passare in cavalleria e ormai attendeva da un po’. Si lamentava che gli mancava il fiato e la povera figliola sventolava la rivista che si era portata per tener compagnia al papà, non sapendo cos’altro fare di fronte a questa sofferenza triste e lamentosa. Alla fine lo feci entrare scusandomi e presi la cartella per controllare la richiesta e qualche notizia precedente. Poi, richiudendola, mi era saltata all’occhio nell’intestazione una parola strana, atipica per le solite banalità che si ritrovano nei documenti burocratici. Professione: ACROBATA.

Lo guardai, gli chiesi. – Oh sì, mi conoscevano tutti in valle: “Giuanin d’la crava”; perché, sa, avevo una capra ammaestrata e poi facevo il fantasista! – Improvvisamente il documento, freddo e burocratico, si era colorato di tanti colori, un po’ sbiaditi dal ricordo, ma ancora vivi comunque, pensa un po’: “acrobata”.

Ci sono andato ancora qualche volta in questi circhi piccoli e scalcagnati , dove in una famiglia o due, sempre tanti sono, fanno tutto, dai numeri di pista alla maschera sulle tribune, tutti interpretando più ruoli, perché la roba da fare è tanta e la gente è poca, o meglio, più si è e più bisogna dividere il magro gruzzolo. Doveva essere stata dura da queste parti per l’epoca. Avrei voluto parlarne ancora, ma non mi son sentito, l’uomo era stanco, di quella stanchezza finale, esaurita, che ritrovo talvolta non nei moribondi, ancora, ma come dire, nei segnati, in quelli che è destino finisca da lì a poco. Feci quanto richiesto, non aveva più voglia di stare lì, poi l’ho rimandato nel suo letto, frasi di circostanza. Ho pensato che magari passavo più tardi in reparto con la scusa di vedere se tutto andava bene, ma poi la cosa è passata, altri eventi hanno coperto lo spiraglio, e via andare! Quante storie ci sono attorno, ognuna portata dentro da ciascuno, con il suo fardello di vita, i suoi ricordi: è stata la maestra di quel paesino per tanti anni… E’ stato in campo di concentramento…, trent’anni di Fiat, ma dagli anni venti!… quante testimonianze di realtà ormai distanti molto più nei fatti che nel tempo. Povero Giuanin, col suo fiato corto che lo aspetta forse pure una morte dura, brutta, soffocato dal suo cancro al polmone. Eppure ce n’è mica tanti che sulla cartella hanno scritto, come fosse una pennellata d’acquarello: “Professione, ACROBATA”.

 Herbert Asch

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