il cappotto blu (frammenti di memoria)

Scritto da Garganico il 12 Aprile, 2010
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Durante le ultime festività e dopo numerosi tentativi miseramente falliti, ho trovato un po’ di tempo per sistemare la mia vecchia e polverosa soffitta piena di tante cose, tutte assolutamente inutili, che, chissà perché, non hanno mai trovato la loro collocazione terminale definitiva.
In uno scatolone ben chiuso ho trovato un vecchio cappotto di colore blu, con il bavero completamente consunto e logoro, che ho fatto fatica a riconoscere: ecco dov’era finito il compagno di tante notti passate insieme durante il servizio di guardia medica sul territorio svolto da neolaureato.
A pensarci bene non so quanto tempo è passato. Forse venticinque anni, forse di più. Sicuramente nella memoria sembra in un’altra epoca, in un’altra era, un secolo fa. Il ricordo chiaro e lucido è per il mio cappotto blu, pesante, con un collo ampio, che, alzato, mi riparava e mi proteggeva dal gelido clima delle notti invernali della periferia torinese. Con me i miei pochi strumenti di lavoro: il fonendo, lo sfigmo, una pila, dei farmaci, un ricettario. Ero laureato da poco tempo e per un neolaureto, in quel periodo, c’era la possibilità di fare il medico frequentatore volontario in qualche reparto ospedaliero e sperare in qualcosa o in qualcuno, oppure iniziare a darsi da fare in prima persona mettendo a disposizione le poche nozioni apprese all’università. Scelsi di fare entrambe le cose. Di giorno il medico volontario, pulito, elegante. Di notte il medico di guardia medica in una delle zone più degradate e difficili della periferia torinese. Il medico di frontiera, come amavo chiamarmi. Ero l’istituzione sanitaria a cui di notte tutti potevano rivolgersi per qualsiasi motivo, anche non medico. L’ASL di competenza metteva a disposizione del coraggioso sanitario per le visite domiciliari una 126 con i finestrini rotti e bloccati in fase di apertura, che la rendeva per questo motivo assai simile a una moto. Per questo, forse, il ricordo e l’amore indelebili per il mio superprotettivo cappotto blu. Come sede un garage, che funzionava anche come ambulatorio, dotato di una segreteria telefonica capace di accumulare decine di chiamate in pochi minuti. Si iniziava alle otto di sera, si finiva alle otto del mattino. Ogni notte era, per qualche motivo, indimenticabile. Gli utenti reclamavano il loro diritto ad essere visitati presto, velocemente e possibilmente bene.
Personalmente sono arrivato a farne più di cinquanta in un solo turno di queste visite “urgenti”, salendo e scendendo dalla 126, cercando vie sullo stradario, suonando a campanelli che spesso non funzionavano. Il mio cappotto blu mi proteggeva dal freddo e da qualche paura che inevitabilmente viene quando si lavora al buio, di notte, da soli.
Quella notte che i carabinieri di Orbassano mi chiamarono per una constatazione di decesso di un suicida nei boschi tra Stupinigi e Orbassano, infilai il mio cappotto blu, alzai il bavero a protezione non solo del freddo. Era buio veramente ed io i boschi di solito non li frequentavo neanche di giorno. Il viottolo era stretto, sconosciuto, impenetrabile. Per vedere meglio abbassai il bavero protettivo del cappotto. Non fu una buona idea perché subito dopo vidi la vecchia 126 lentamente scivolare sul lato destro della strada per fermarsi nella cunetta laterale. Per fortuna ero solo ammaccato ma intero. Come comunicare a qualcuno il mio incidente, la mia posizione, che ora avevo difficoltà ad espletare il compito per cui ero stato così prontamente chiamato? Diamine! Potevo ancora camminare e avevo anche la pila che di solito serviva per i riflessi pupillari. Allora in marcia. Si, ma, verso dove? Non si vedeva assolutamente nulla. In lontananza mi sembrò di intravedere un casolare. Mi diressi là. Dopo un po’ arrivai e fui veramente fortunato perché trovai un contadino che, senza troppe spiegazioni, tirò fuori il suo trattore e raggiunse la mia, ormai più vecchia, 126 rimettendola sul viottolo, e che, miracolosamente, era ancora in grado di procedere. Non so quanto tempo fosse passato ma mi rimisi alla ricerca di quel dannato posto per la constatazione del decesso del suicida. Finalmente nei meandri del bosco incontrai i carabinieri che mi salutarono cordialmente, mi ringraziarono e mi dissero che essendosi accorti che il suicidio era avvenuto nel territorio di Orbassano, avevano chiamato la guardia medica di quell’ASL e che le procedure burocratiche erano comunque state espletate. Mantenni apparente calma e professionalità e, nonostante il freddo, durante il ritorno, non provai neanche a proteggermi dai finestrini perennemente aperti. La segreteria telefonica, nel frattempo, aveva accumulato un numero imprecisato di messaggi registrati. Iniziai ad ascoltare il numero 1, il 2, il 3,il 4. Il messaggio numero 5 era un vero e proprio grido di dolore assoluto, un urlo che in quel garage semibuio avrebbe spaventato anche uno più coraggioso di me: “Dottore, dottore, per favore, faccia qualcosa! Durante il rapporto si è rotto il preservativo! Adesso siamo nei guai, abbiamo bisogno subito del suo aiuto! Ci dia qualcosa, la pillola del giorno prima o del giorno dopo, non so come si chiama, comunque faccia qualcosa!” Avevo ancora diverse chiamate da ascoltare, ma la disperazione di questo utente meritava sicuramente una pronta risposta. Così feci. Non chiedetemi cosa dissi a questa coppia. Non me lo ricordo chiaramente. Espletai le visite richieste, alcune delle quali in condomini dove la maggior parte dei campanelli erano bruciati e dove gli ascensori non funzionavano. Al sesto piano di uno di questi mi aprì un signore con una vistosa ferita sanguinante alla testa dicendomi: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato questo disgraziato!”. Il mio istinto mi suggerì di non muovermi, spostai solo leggermente la testa, ma fu sufficiente a vedere tutto il corridoio funestato di pezzi di vetro e oggetti di vario tipo con parte di un armadio reclinato su stesso. In fondo al corridoio si scorgeva un giovane sdraiato per terra con la canottiera inzuppata di sangue e con una mazza in mano. La persona che aveva aperto la porta e che sembrava essere il genitore continuava a ripetere: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato, faccia qualcosa!” Risposi di stare tranquillo. Non impiegai molto a raggiungere la 126, che sebbene avesse i finestrini rotti aveva il pregio di una messa in moto fulminea. Alzai il bavero del mio cappotto blu e mi recai alla stazione dei carabinieri pretendendo un accompagnamento a questa visita. I carabinieri indossarono a loro volta un cappotto blu e sorridendo dissero che loro quei due li conoscevano da tempo e che in effetti era meglio essere accompagnati. Nell’appartamento entrarono prima loro, poi io con la mia borsa da medico, mentre i due litiganti incuranti continuavano a fare e a dire di tutto. Feci una veloce medicazione e somministrai un sedativo ad entrambi, quindi chiamai due ambulanze, una per il padre che mandai al pronto soccorso di Moncalieri, l’altra per il figlio al pronto soccorso delle Molinette. Ringraziai i carabinieri che, chissà perché, a loro volta ringraziarono me. Mentre tornavo per l’ennesima volta al mio garage si intravedevano le prime luci del nuovo giorno e stringendomi nel mio cappotto blu pensavo che tutto sommato sarebbe potuto andare anche peggio. Non c’è mai un limite al peggio!
Alle otto con la barba lunga e il cappotto blu con il bavero ancora alzato ma vistosamente sgualcito, portai i registri e i ricettari negli uffici dell’ASL. Come al solito ero già in ritardo e anche quella mattina non avrei fatto in tempo a fare la barba. Gli impegni istituzionali di medico frequentatore volontario mi attendevano… ma questa è un’altra storia.

Garganico

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dottore, che Apgar mettiamo?

Scritto da Rabuccia il 03 Aprile, 2010
cronache / 2 Commenti

L’ ostetricia extraospedaliera, chiamamola così, è sempre stata oggetto di grande timore per gli operatori del 118… ad un certo punto in una piovosa notte d’estate i timori stessi erano diventati cosa concreta…Sono passati tanti anni ma, con un piccolo sforzo, facendo riemergere i ricordi ed il loro sapore come faceva Proust con la sua madeleine nel the… ecco riaffiorare pienamente questo indimenticabile episodio…

Era ancora, per il sottoscritto, il periodo della specializzazione in Anestesia e a completamento ore svolgevo dei turni di 118 in montagna presso il servizio di P. L’attività non era particolarmente affaticante… i codici rossi erano pochi, l’ambiente giovane, e l’esperienza che si accumulava in sala operatoria dava garanzie di sempre crescente manualità… insomma lavoravo sereno con quel candido entusiasmo, quella santa voglia di fare e strafare che tutti noi conosciamo bene…

L’operatrice della centrale fa squillare il telefono in stanza alle tre e mezza di una notte d’agosto da tregenda in cui, proprio in quel momento, un temporale si abbatteva gagliardo su tutta la valle con un repertorio completo di lampi e tuoni…

Quello che nell’obnubilamento del sonno interrotto sentivo al telefono mi faceva subito accapponare la pelle: “C’è una ragazza che sostiene di essere sul punto di partorire nel bagno di casa a B. Alla fine del paese c’è una casa bassa sulla destra… Non sa più cosa fare… Non è venuta subito in ospedale perchè dice di aver nascosto la gravidanza ai genitori… Dottore, sembra quasi uno scherzo a dir la verità, ma bisogna andare a verificare. Tra l’altro ha chiuso il telefono.”

L’operatrice mi dà l’indirizzo completo. Il paese di B. è piccolo e dista dieci chilometri… Il posto è piuttosto semplice da raggiungere. Partiamo con l’ambulanza veloci ma senza troppa convinzione. C’erano stati diversi procurati allarmi provenienti da B. nelle settimane precedenti quindi… onestamente dentro di noi si sperava, soprattutto stavolta, nell’ennesimo scherzo…

Il pensiero di quello che ci poteva aspettare sul posto però aveva spento gli sbadigli molto rapidamente… nessuno apriva bocca… Si, beh dai l’assistenza al parto… più o meno sappiamo cosa fare…
“Hai preso la borsa da rianimazione pediatrica?”
“Si dottore”

Il tergicristallo dell’ ambulanza col suo scrin-scran seguiva in perfetta sincronia la rotazione della luce blu… le case dei paesi lungo la valle del B. sfilavano attraverso dai finestrini… e le facciate e sembravano arcigni spettatori intenti a guardare con dileggio dei concorrenti dilettanti intenti ad una gara troppo grande… Pensieri…

“Abbiamo il kit ostetrico in ambulanza?”
Il mio infermiere stavolta rispondeva con solo un grugnito di affermazione…

L’autista ad un certo punto rallenta, si ferma: “Dottore siamo arrivati. Deve essere questa la casa”
Mentre cercavamo il civico in mezzo allo scrosciar del diluvio, una figura si avvicinava spuntando dal buio dalla nostra destra. Un fantasma. Un lampo illumina la strada… Una ragazza bionda ed alta si avvicinava a noi con in mano un fagotto… In quel momento abbiamo capito che non si trattava affatto di uno scherzo. Scendiamo tutti dall’ ambulanza sotto la pioggia… “Sali, sali… presto…”

Dal fagotto spuntava quella che senza alcun dubbio era una placenta sanguinante…

“Ma cosa hai fatto…!” Non sapevamo cosa dire… La neo mamma era frastornata… e noi anche… “Partite subito che i miei genitori si svegliano…”

Non avevo dubbi: partiamo subito… Distendiamo la ragazza sulla barella. Prendo in mano il fagotto inzuppato di pioggia e e due occhioni azzurri mi fissavano accompagnati da uno di quei meravigliosi sbadigli che solo i neonati possono fare! Il mio infermiere mi fa: “Dottore che Apgar metto sulla scheda…?”

“Apgar?… si,si… ah… si… beh metti 9…!!!”

Apriamo il pacchetto ostetrico e senza pensarci troppo zac! due clamp sul cordone, taglio… controllo che la paziente non sanguini… il bambino non era neanche da aspirare in bocca. Un virgulto di vitalità… Comunicavo alla radio: “Rientro con parto espletato. Avvisate il pediatra reperibile. Neonato vivo con Apgar 9. Codice 2 per la madre”

Il bambino era splendido… Un maschietto biondino… Si guardava attorno con due occhi da aquilotto… Lo tenevo in braccio io… Lo asciugavamo per bene…

“Ma come è successo… perchè? Perchè così?”
“Ho nascosto per nove mesi la gravidanza. I miei me le avrebbero date… ed ora è nato in bagno… nel water… Ho chiamato col cellulare… non mi credeva quella del 118… Ma il bambino non voglio riconoscerlo… non so neanche chi sia suo padre…”

A quelle parole… beh non sapevo davvero cosa dire. Ho stretto il neonato più forte e ho pensato:
“Ce la farai… lo hai già dimostrato!”

In ospedale compilavo il modulo di assistenza al parto obbligatorio sotto lo sguardo incuriosito della ostetrica di turno… Il mattino dopo, smontando dalla guardia, mi recavo io personalmente a registrare la nascita nel comune di B. visto che nessuno si era fatto vedere. Il funzionario del comune che non aveva ben realizzato chi fossi… mi ha chiedeva con curiosità e stupore se ero il padre. “No, no lei scherza! Non sono io il padre ma un pò forse si…! E’ come se lo fossi”

Una notte-di-guardia un pò diversa… dolce ed un pò amara, come la vita.

Rabuccia

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angeli custodi

Scritto da Gaddo il 25 Marzo, 2010
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Cos’è che accade veramente quella volta che ti chiamano in piena notte per il solito incidente stradale, e tu arrivi in pochi minuti, e c’è sul lettino della Tac un ragazzo di diciannove anni privo di conoscenza, tu fai l’esame, ti siedi alla consolle per cercare di capirci qualcosa e sembra tutto a posto, dico sembra perchè scorri le immagini avanti e indietro e tutto sembra a posto ma una vocina dentro ti spinge a continuare a guardare, ti implora di non chiudere la faccenda con un referto negativo mentre tu muori dal sonno e hai voglia di ritornartene a letto, cos’è che accade veramente quando continui a guardare quelle immagini in cui tutto sembra a posto e cominci a sentirti un deficiente perchè anche il tecnico se ne è andato via e dal pronto soccorso aspettano soltanto il tuo via per decidere cosa fare, eppure all’improvviso, proprio quando stai per mollare, ti accorgi che c’è una bollicina di aria accanto al margine del fegato, una bollicina di aria così talmente piccola che se tu avessi eseguito lo stesso esame altre diecimila volte non te ne saresti accorto, e tu sai bene che in quel posto lì non deve esserci nessuna bollicina di aria, cos’è che accade quando afferri il telefono in mano e chiami il chirurgo e gli dici di venire in sezione Tac, poi gli mostri l’esame e gli dici che c’è dell’aria in pancia, e lui ti guarda un pò male perchè neanche lui alle tre di notte ha voglia di andare in sala operatoria e ti chiede, ma sei sicuro, e tu gli dici, si che sono sicuro, lì c’è aria, e allora arrivano gli infermieri con le barelle e il chirurgo ti augura buonanotte e tu gli auguri buon lavoro perchè tu torni a letto ma lui rimane lì a cercare di scrollarsi il sonno da dosso perchè dovrà aprire la pancia di un adolescente alle tre di notte o di mattina, che poi è uguale, cos’è che accade quando imbocchi lemme lemme il corridoio centrale sperando di non aver sparato una cazzata perchè mandare un ragazzo in sala operatoria non è come bere una lattina di aranciata, e dormi male perchè aspetterai le otto di mattina per telefonare al chirurgo, o incontrarlo al bar, e domandargli com’è andata, ma poi è lui che chiama te alle otto e dieci e ti dice, c’era un’ansa intestinale perforata, un buchino millimetrico ma c’era, volevo che tu lo sapessi, e senti nella sua voce qualcosa che da lontano somiglia un pò a sollievo e un pò a gratitudine, e la tensione dentro di te si affloscia come un palloncino bucato?
Insomma, non lo so cosa accade in quei momenti: so soltanto che a volte la diagnosi brillante che ottieni, l’intuizione che risolve un caso difficile, il paragrafo da tre righe che hai studiato mille anni fa e che ti viene in mente senza che tu l’abbia cercato e proprio nel momento giusto, tutte queste cose non dipendono da te ma è come se una mano pietosa te le inculcasse nella testa e ti mettesse a forza sulla retta via.
Quello che voglio dire, in definiva, è che sono davvero convinto che a volte non siano i medici a essere bravi, ma gli angeli custodi ad avere due maroni così.

Gaddo

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anima grande

Scritto da tartaruga il 16 Marzo, 2010
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C’è un’Anima Grande, che passa dalle pareti bianche e verdi del Pronto Soccorso, soffia tra i ventilatori della Rianimazione, pervade le stanze di tutti i reparti, fino ad arrivare ai pavimenti polverosi del “Pronto Vecchio”…
E’ un’anima che spesso prende, spesso toglie, ma altrettanto spesso concede… e se ti fermi un attimo isolandoti dal caos che ti circonda la senti…
La senti che ti accarezza la pelle mentre aspetti il tuo defibrillatore al passa-malati della Sala Operatoria, non c’è nessuno, dai finestroni del corridoio solamente il buio e qualche piccola luce nei palazzi davanti, senti solo il rumore lontano delle attività della Sala e l’adrenalina dell’ultima urgenza inizia a scemare… la senti che arriva vigliacca da dietro, ti passa sulle spalle e ti stringe la gola mentre leggi la frase tatuata sul braccio di un ragazzo della tua età, che adesso è coperto da un lenzuolo bianco… la senti che ti parla all’orecchio mentre guardi uno dei migliori medici che tu conosca assistere il suo papà, mentre vorresti poter risolvere tutto e dirgli: “Guarda, è come nuovo…!” La vedi nel sorriso bambino del tuo collega che addobba l’albero di Natale, mentre tu cerchi di sabotarlo, perché in fondo il Natale non ti è mai piaciuto… la vedi che ti sfida ogni volta che passi dal corridoio che dal Pronto Soccorso porta ai reparti e la tua immagine appare in quell’oblò di plastica sul soffitto, che forse nessun altro ha mai notato e che riflette te e le tue paure e devi ammettere che oggi, vista in quello specchio strano, la divisa arancione che indossi per la tua prima volta fa una certo effetto… la puoi addirittura sentire arrivare, quando si aprono le porte di un’ambulanza e sei invasa da tutto quello che è successo a casa del paziente… la vedi passare nelle finestrone illuminate dell’ospedale, che sembra una grande balena o un transatlantico con i suoi tanti oblò… la odi quando ti strattona, mentre l’ennesima paziente di un pomeriggio disastroso ti spiega che non seguirà la dieta che il medico le ha appena prescritto perché il suo unico cibo a colazione, pranzo e cena è la pasta, sempre, solo e unicamente la pasta, pasta e nient’altro, perché è la sola cosa che la sua pensione permetta… la vedi nel sorriso dell’anestesista che ti ruba lo zaino dei trasporti nonostante la fretta del momento perché a suo dire lui è troppo “uomo del Sud” per lasciarlo a te, basta uno sguardo e sai che tutto andrà per il meglio, che qualsiasi intoppo non sarà insormontabile… la vedi passare negli occhi tristi di due genitori attoniti e sai che continuerà a passare senza sosta come un vento freddo su un prato di gennaio coperto di brina… la vedi in lontananza quando sotto un ombrello con il tuo mito del Pronto Soccorso scopri che non sei l’unica a cui quel corso non è andato esattamente come atteso… la senti che ti fa tremare le mani quando durante un’urgenza tiri fuori tutta la grinta che una collega speciale ti ha insegnato ed è come se lei fosse lì ad osservarti, anche se adesso non è in turno con te… la senti che ti gela le vene quando ti volti e vedi G. e la sua decompressione cranica coperta da un fazzolettone colorato, G. e i suoi grandi occhioni persi a guardare qualcosa che a te non è dato vedere…
Alcuni la chiamano Anima Grande, altri Dio, alcuni Buddha, altri Allah… non so se esista un nome appropriato… io chiedo solo di poter continuare a sentirla, giorno per giorno…

tartaruga

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mio

Scritto da Magamagò il 08 Marzo, 2010
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Quand’è che si passa dall’altra parte? Quand’è che si attraversa la sottile linea,invisibile ma rigida,che separa il te medico comprensivo, amante del tuo lavoro, disponibile verso i pazienti,dal te non quello malato, quella è cosa semplice, chiara,facile da gestire, ma il te ” parente di malato” ?
Non te ne accorgi, non lo sai la mattina quando ti svegli, e stai già pensando a cosa ti aspetterà in reparto, fra i tuoi malati di ieri o quelli nuovi di stanotte, non lo puoi sapere; ma forse il Padreterno qualche indizio te l’aveva dato, come quando hai comprato quel libro dal titolo “A parte il cancro tutto bene”. Sì, ok, lo hai comprato perché sei da sempre autoironica, perché ti piacciono i libri “ammalloppati” come dice tuo marito, o forse perché ti sarebbe riuscito utile un giorno?
Allora, spieghiamo subito, facciamo una flow-chart della situazione, cosi diventa tutto chiaro.
Marito chirurgo, abbastanza giovane, avvisaglia banale del Padreterno (sia ringraziato), TAC, tumore al colon (lui è anche endoscopista , ironia della sorte); va bene, guardiamolo in faccia, letteralmente, insieme a tutti quelli che ci vogliono bene, e che sperano di sbagliarsi; ok di nuovo, andiamo avanti, il tempo di smaltire, lui, la sedazione, e io, la moglie anestesista, la mazzata e ho già organizzato tutto il percorso diagnostico futuro, trovando anche il tempo, en passant, di consolare figlia, amici e colleghi. Nelle flow-chart le opzioni sono sempre due, e nella vita anche: fare o non fare. Io faccio, mentre una parte di me, fuori di me, pensa e piange. Poi tutto in salita, o in discesa, insomma verso il meglio. Però da quel momento tutta la tua vita interiore è scandita da quella opzione, e vedi tutto attraverso il vetro della malattia, un po’ smerigliato, per cui le cose, le persone, le situazioni, hanno contorni ondulati, diversi da come li vedono gli altri.
Il paziente con sepsi ricoverato in Rianimazione nel postoperatorio, è in realtà una persona simile al tuo amore a cui è andata peggio, e questo ogni volta ti fa ritornare indietro a ripercorrere tutte le tappe della tua vicenda personale, e questo ti svuota, ti prosciuga e ti arricchisce, come la vasca da bagno dei problemi alle elementari, quella che si doveva riempire d’acqua ma aveva un buco nel fondo… a volte il buco è grosso, e si svuota più in fretta di quanto si riempia, a volte è quasi piena, ma sempre a rischio, e quel problema non si risolverà mai in questa vita. Gli anziani del paese dove ho lavorato all’inizio mi dicevano stupiti: ma come anche i dottori si ammalano? Ed io rispondevo: bastasse una laurea per stare bene… Invece capita, anche a noi, eccome, l’importante è avere un male adatto alla tua mentalità: un chirurgo abituato al taglio netto e risolutivo non puù avere una malattia cronicissima, andrebbe ai matti! Ma qualcuno lassù ci pensa, e non ti lascia mai solo. Il turno di notte in Rianimazione, quando finalmente verso le tre c’è un momento di tregua, e perfino i monitors sono più sommessi, e quando il relativo buio si fa più denso, ti libera anche la mente che così si ricongiunge a tutti gli spiriti che aleggiano nel reparto, spiriti di quelli che ci sono transitati e di quelli che ci arriveranno, con le loro storie che d’ora in poi saranno sempre o più simili alla mia, o più dissimili, e che tutto sommato non vorrei cambiare mai.

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il criceto non è un animale notturno

Scritto da rem il 02 Marzo, 2010
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Notti di guardia a dire il vero non ne posso più, avrei solo voglia di starmene nel mio letto, a casa con la mia famiglia, mi viene la nausea mentre preparo la borsa, mentre saluto mio figlio sulle scale ci vediamo domani vengo a prenderti a scuola. Sono stanco. Mi sembra tutto così inutile, ore di sonno perse, neuroni che non rivedrò mai più domani mattina. Domani mattina sarà già troppo tardi ma è l’unico concetto a cui penso, domani mattina; perché la mattina arriva sempre, le primi luci dell’alba ad illuminare il Pronto Soccorso, i minuti che scorrono lentissimi come se gli avessero messo un freno, i primi pazienti della mattina quelli che vengono perché sanno che non c’è fila, oppure l’infarto che da tre giorni ha un dolore tra le scapole e sta prendendo dell’aulin ma non passa, un bel culo, ma va bene così, abbiamo superato la golden hour ma va bene lo stesso. Sarà che non sono un medico dell’emergenza, che non sono un anestesista, un rianimatore, un cardiologo, sono un povero geriatra che lavora in pronto soccorso, che fa le guardie, che fa ambulatorio, segue il reparto e così via come il criceto nella gabbietta. Non penso più di fare il medico per salvare le vite, tanto le vite non si salvano, non penso più di fare diagnosi, le diagnosi non si fanno in pronto soccorso, distinguo tra un urgenza e una cazzata ed è già abbastanza, anzi qualche volta mi sbaglio

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Sull’orlo dello sfratto

Scritto da Ania il 21 Febbraio, 2010
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” [….] Se io fossi malato mi piacerebbe non dover soffrire per le mie miserie fisiche, non dovermi vergognare per i segni del tempo sul mio corpo.
Vorrei potermi muovere ed esistere in un mondo che ancora mi appartiene e non sentirmi costantemente sull’orlo dello sfratto.
Se io fossi malato vorrei sentirmi dire in Ospedale “può tornare a casa perchè sta meglio” e non perchè “non ci sono posti”.
Vorrei potermi svegliare da un breve sonno e ritrovarmi accanto un volto noto che mi riporti un pizzico di mondo, non di nostalgia, ma di continuità, un attimo di speranza da leggere in un sorriso che crede e non finge.
Se io fossi malato vorrei conservare tutta la mia dignità, il mio nome, il mio “dottore”, non vorrei mai più essere un numero.
Anche se tutti mi dicessero che non serve a niente in quelle condizioni, io vorrei pensare che la malattia è solo una condizione dell’uomo, non è la distruzione dell’uomo.
Se io fossi malato vorrei essere trattato con rispetto vero e non con falsa affettuosità, vorrei che le mie paure non mi facessero deridere, vorrei che su di me si praticassero solo le cure necessarie.
Non vorrei diventare inconsapevole terreno di battaglia fra la morte e qualche medico assetato della gloria dei numeri; non vorrei essere un percento statistico in coma irreversibile.
Se io fossi malato vorrei attendere la guarigione e continuare a vivere fino a quando la morte non venga a concludere la mia vita. [….] ”

 (da “Il cavallino di pietra” di E. Carchietti).

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se fossi Marco…

Scritto da Ultiva il 11 Febbraio, 2010
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Ho incontrato G. al terzo anno, docente di Area Critica ed Emergenza. Lui è uno dei miei Medici, e soprattutto, uno dei miei Maestri. Sempre gentile, mai brusco, perennemente pronto a difendere la causa di chi si guadagna da vivere maneggiando cateteri e padelle (o almeno così pensa il pubblico…). Mio relatore di tesi, rappresenta il mio gancio per entrare a lavorare nel reparto di Terapia Intensiva del mio Ospedale. Da allora è passata diversa acqua sotto i ponti.
E’ un bel pomeriggio di giugno quando dal 118 arriva la richiesta di usufruire del nostro posto letto per un ragazzo di 23 anni precipitato da 10 metri. Marco, per l’appunto.
Marco è sempre stato triste, ce lo dicono i genitori. Fin dall’adolescenza soffre di una grave forma di depressione, dominata con difficoltà dai farmaci. Ha minacciato il suicidio più volte, senza mai provarci. Marco ha una sorellina. Oggi sembrava che fosse su di giri: dice al papà che gli piacerebbe fare una passeggiata con lui, quando rientra dal supermercato. Mentre il padre si avvia, Marco esce sul balcone e si butta.
I soccorsi sono tempestivi: l’equipe dell’elicottero arriva immediatamente, l’evento è pressoché di fronte all’elibase. 
In ospedale Marco arriva intubato, con la pressione più bassa del suo umore. Mentre i ragazzi della CRI lo passano dalla barella al lettino della shock room, Marco va in arresto. F., del Trauma Team pratica una toracotomia resuscitativa ed una splenectomia che sono seguite da un invio a razzo in sala per una revisione chirurgica ed un emostasi più approfondita. Il tutto coronato da un angiografia intraoperatoria che non evidenzia altri sanguinamenti.
Marco entra in reparto alle 15:00; prima del rumore dell’ambu, il monitor GE ci informa con il suo laconico “BEEEEEEP” che la PA è molto bassa (50/–). La linea verde dell’ECG danza veloce sotto il nostro sguardo: tachicardia sinusale, FC 150 bpm. La PVC è bassa, emoglobina e crasi ematica fanno ridere i polli, mentre a toccarlo Marco sembra un ghiacciolo. Le due anestesiste-galline della camera operatoria se la ridono e se la raccontano mentre spingono il mobilizer della CO. I loro risolini isterici non riescono a coprire la tensione e a mascherare il problema: se Marco è ipoteso, loro non sanno perchè. Nulla di cranico, niente di mielico. Perdite intraoperatorie corrette. Nulla dal drenaggio in emitorace sinistro.
Now, it’s our job: PiCCO, riscaldamento, gasanalisi venosa e arteriosa, lattati, emocromo, funzionalità epatica e renale, coagulazione, TEG, riscaldamento attivo, 7 french in femorale e Voluven come se piovesse. Con il consueto “savoir faire” G. coordina: adrenalina a 20 ga/kg, nora idem, vasopressina… non cambia un tubo. L’assetto emodinamico è pessimo: l’indice cardiaco è depresso, le resistenze inesistenti. L’ecocardio mostra un cuore complessivamente ipocinetico. Non pnx iperteso o tamponamento. Massa nobile a non finire, coagulopatia trattata come da manuale e anche di più, grazie al VII ricombinante. Tentiamo provvedimenti quasi fantascientifici: vasopressina, idrocortisone. 
Mentre qualcuno dice ECMO, V. propone di lasciarlo andare. Voleva morire, c’è praticamente riuscito. Non accaniamoci. Ma G. no, proprio non ce la fa a lasciare andare quello che fino a ieri era un bambino. Si legge nel suo sguardo. 
Andiamo avanti, l’addome si gonfia sempre di più. La IABP sempre più alta. Sanguinamento a nappo, dicono i chirurghi. Sarà, ma in quella Marco inizia a buttare anche dal drenaggio toracico, andiamo in emorecupero. Al monitor la stessa fotografia di ormai ore prima: 150 di frequenza, 50 di sistolica. 20 i lattati. Midazolam e remifentanil scendono lentamente erogati dalle pompe siringa nel tentativo di proteggere Marco dal nostro accanimento, nel senso buono del termine.
Sono passate 6 ore. Richiamiamo i chirurghi. Fino ad allora G. si era espresso parlando al plurale: “facciamo questo, istituiamo quell’altro…”. La mia collega L. è sfatta, anche S., stoico per anzianità e per credo, accusa i colpi del fallimento. Poi, ad un certo punto, intorno al letto, G. dice “Ragazzi, adesso vediamo se i chirurghi possono metterci mano: diversamente, STACCO tutto”. F., il chirurgo, dice che in sala con 50 di pressione non ce lo può portare. G. concorda e incassa, sempre più curvo, sempre più tirato. Si avvicina a noi e ci dice: “Ragazzi, basta”. Spegne le pompe della nora, dell’adrenalina, della vasopressina. Ferma i liquidi e il sangue. Passa Marco in pressure support, a FiO2% 21%. Aumenta Ultiva e Ipnovel. Ha gli occhi lucidi. Mi avvicino, e lo aiuto a spegnere, a chiudere. Non può, non deve, non vuole sopportare tutto questo da solo. 
Mi tolgo i guanti, prendo la mano di Marco, lo accarezzo sulla testa fino a quando il monitor GE inizia il suo concerto di allarmi. E’ finita.
In corridoio devo avere più o meno le sembianze di un lombrico. G. mi fa una carezza sulla nuca, ha quasi l’età per essere mio padre. 
“Andiamo a fumare?” Ma si, proviamoci, anche se oggi mi sa che una sigaretta e qualche lacrima non bastano a lavare via tutto ciò che ci è arrivato addosso.

Ultiva

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viaggiare di traverso

Scritto da Orso il 02 Febbraio, 2010
racconti / Nessun Commento

1998, mese di febbraio

“Vado, il vento mi chiama”.
Mi è sempre piaciuto scherzare con questa frase un po’ melodrammatica per salutare gli amici, calzandomi il casco in testa e preparandomi a partire. A volte si scherza sulle cose alle quali si è più affezionati. È un modo come un altro per difendere i propri sentimenti, quelli più profondi, più intensi.
E del resto la vita è una cosa troppo seria per prenderla sul serio. Qualche volta fa bene recitare. Lo facciamo già infinite volte ogni giorno, per costrizione, per dovere, per necessità.
Perché non puoi mandare all’inferno il capufficio, il caposquadra, il capoofficina, i clienti, la moglie (o il marito), gli sbirri o chiunque altro se lo meriti ogni volta che vorresti farlo.
Allora tanto vale recitare per scelta, e trasformare la nostra tragedia in una farsa e la commedia in un dramma. In fondo non fa male a nessuno.
???
Salvo che a noi stessi, un po’, ogni tanto.

“Vado, il vento mi chiama”.
Meno di dieci minuti più tardi ero riverso a terra, con la gamba destra fracassata in sei o sette punti. Avevo trovato il mio, quello giusto. Quello che con l’auto non si ferma allo STOP perché lui ha una bella macchina, un po’ di fretta e tanto, dall’altra parte, arriva soltanto una moto.
Andavo piano, forse meno di trenta all’ora, e lui mi investe in pieno, centrandomi proprio all’altezza della gamba destra con il muso dell’auto. Un dolore intensissimo e la sensazione di un calore bruciante; mi rendo subito conto che qualche osso si è fratturato. Guardo in basso e vedo che il piede non poggia più sulla pedana: piegato innaturalmente verso l’esterno, pochi centimetri sopra la caviglia, è scomparso sotto il paraurti dell’auto.
“Puttana Eva, – penso – è andato!”
Ma non è finita. Il tizio è rimasto paralizzato dallo shock (lui!), e non riesce a frenare. L’auto procede nella sua marcia, continuando a spingermi lateralmente, mentre io riesco a rimanere in equilibrio sulla moto.
Mi sembra di vivere un incubo. La moto si è leggermente inclinata verso il muso della macchina che continua ad avanzare, sospingendola; i pneumatici stridono sull’asfalto, costretti ad una direzione di marcia che non è propriamente quella più normale. In equilibrio sulla moto, sento di nuovo un dolore atroce alla gamba: stritolata tra il muso dell’auto ed il motore della moto si è fratturata in un altro punto, qualche dito sotto il ginocchio.
Urlo: “Fermati, bastardo!”, e sferro un pugno sul cofano. Bella ammaccatura, ma quello non è in grado di reagire. L’auto continua ad avanzare, lentamente ma inesorabilmente, e mi sospinge con la moto per tutta la carreggiata; dopo aver superato la linea di mezzeria attraversa anche l’altro senso di marcia. Sto viaggiando di traverso, cazzo! e la cosa non è affatto divertente, considerate le circostanze.
“È assurdo – mi dico – non sta succedendo!”
Finalmente, giunto all’altezza del marciapiede che era alla mia sinistra, il tizio riesce a frenare.
La moto si inclina di colpo verso sinistra, ma, prima che rovini a terra, riesco a gettarmi all’indietro e ad evitare che l’altra gamba vi rimanga sotto. Il casco mi risparmia, se non proprio una commozione cerebrale, per lo meno un gran bel bernoccolo.
Accorre gente. Riverso a terra, supino, vedo alcune mani che si protendono verso di me.
“Lasciatemi stare – riesco ancora a grugnire – ho una gamba fracassata!”
Qualcuno chiama l’ambulanza.
Mi sfilo i guanti e meccanicamente cerco il pacchetto delle sigarette, ma non riesco a trovarlo: non ricordo in quale tasca l’ho messo. Rinuncio a fumare e cerco di guardarmi un po’ intorno, ma riesco soltanto a vedere, in alto, sopra di me, i volti di quelli che si avvicinano maggiormente per godersi lo spettacolo di un cavaliere disarcionato e ferito. Mi appoggio sui gomiti e cerco di mettermi a sedere, forse perché mi sento un po’ ridicolo, disteso lì, a terra, come un salame sul tagliere.
Non ce la faccio. La gamba mi fa un male atroce, ma per fortuna ancora non svengo.
Dove cristo avrò messo le sigarette? Cazzo! Se almeno avessi con me un po’ di fumo, anche solo qualche boccata, di quello buono, sono sicuro che la gamba mi farebbe meno male. Assurdamente, ma nemmeno poi tanto, a pensarci bene, mi viene in mente una canzone, gli accordi di chitarra struggenti di Keith Richards e la voce sgraziata di Mick Jagger.

“… Tell me, Sister Morphine,
when are you comin’ round again?
Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that my pain is strong

Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that I’m not that strong
The scream of the ambulance
Is soundin’ in my ear
Tell me, Sister Morphine,
How long have I been lyin’ here?
What am I doing in this place? …”1

Finalmente arriva l’ambulanza, con tanto di sirena che mi fa sentire maledettamente importante, e da quel momento hanno inizio le comiche.
Vedo un uomo chinarsi su di me. Mi parla. Dapprima le solite domande di routine che servono ad attenuare lo stato di shock. Poi comincia ad inquadrare meglio la situazione.
“Ascolta, io sono un medico, stai tranquillo che adesso mettiamo tutto a posto. Comincio a toglierti il casco, ma tu non devi fare nessun movimento”.
“OK” gli dico, e annuisco con la testa.
“No, fermo! Ti ho detto di stare fermo!”
“Va bene, va bene, non mi muovo più”.
Mentre mi solleva delicatamente la testa per sfilarmi il casco intravedo una ragazza con la divisa da barelliere che si aggira all’altezza dei miei piedi con un paio di cesoie in mano, poi sento che traffica qualcosa laggiù, in quel magma ribollente di dolore che è la mia gamba. Drizzo di colpo la testa:
“Cosa diavolo sta facendo, quella?”
“Cristo santo! – mi riprende il dottore – vuoi stare fermo? Ti sta tagliando lo stivale, per sfilarlo!”
“Ma porca puttana! Non vedi che c’è la cerniera?”, abbaio verso di lei.
La ragazza mi sente, e provvede a togliermi gli stivali senza farne delle bistecche.
Poi mi coglie uno scrupolo di coscienza.
“Senti, guarda che porca puttana non lo dicevo mica a te “, dico alla ragazza.
Sarà anche un po’ imbranata, la tipa, ma in fondo non si merita un giudizio così severo. Così si limita a tagliare i pantaloni.
Comunque sono davvero bravi. Riescono persino a caricarmi sulla barella senza farmi ululare come un lupo incazzato.
Mi infilano nell’ambulanza. Si riavvicina il dottore e mi fa:
“Senti, adesso ti dobbiamo tagliare il gilet ed il giubbotto”
“No, cazzo, non se ne parla nemmeno!”
Scherziamo? Il gilet con i colori!2 E neanche il giubbotto! È un po’ vecchio, d’accordo, ma mi costa qualche centone, e non è che io ne abbia tanti da gettar via così. E poi gli sono affezionato, quasi come ai colori.
“Ascolta – riprende il dottore – non possiamo correre rischi facendoti muovere per sfilarlo; possono esserci delle lesioni alla colonna vertebrale. Dobbiamo tagliare tutto!”
“No, doc, non si taglia proprio niente. Andiamo in ospedale così”
Vedono che proprio non intendo mollare, allora si consultano tra loro. Infine si arrendono.
“Va bene, te li sfiliamo, tu lascia fare a noi, non muoverti, mi raccomando”.
“D’accordo”, gli faccio, e questa volta senza assentire anche con la testa.
Con infinita pazienza, centimetro dopo centimetro, mi sfilano il tutto dalle spalle e poi lo fanno scorrere lungo la schiena, sollevandomi con mani sapienti. Se fossi stato io al loro posto, ad un rompiballe così avrei dato una botta sulla testa, e dopo averlo messo a cuccia avrei fatto quello che più mi sarebbe sembrato opportuno. Ma per fortuna (fortuna? fortuna un accidente!) ognuno è al posto suo: io faccio il ferito e loro i soccorritori; è così che funziona la cosa.
Comunque non è ancora finita. La tipa di prima, l’imbranata, mi solleva la manica destra del maglione, probabilmente per infilarmi qualche ago nel braccio, e quasi grida:
“Oh, mio Dio!”
“Che accidenti c’è, ancora?” le faccio. Sta’ a vedere che mi sono giocato anche il braccio e non me ne sono neppure accorto!
“I ragni! I ragni!”
Con una faccia inorridita indica i ragni tatuati sul mio braccio.
“Ma porca vacca, bimba, con tutto quello che sei abituata a vedere ti spaventi per un tatuaggio?”
“Mi fanno impressione!”
“Ma fammi il piacere! Conosco tanta gente che è molto più repellente dei ragni, te l’assicuro. Dai, fa’ quello che devi fare”.
Finalmente riusciamo a partire per l’ospedale, e quasi con soddisfazione ascolto l’ululato singhiozzante della sirena dell’ambulanza. Nel frattempo mi accorgo che il dolore sta diminuendo; non so cosa mi abbiano iniettato, però funziona.
Pronto soccorso. Mi portano subito dentro la sala di medicazione. È la prima volta che mi capita di non dover aspettare almeno quattro ore in sala d’attesa. Sono i vantaggi che ti derivano dal fatto di essere conciato piuttosto male.
Un infermiere mi si avvicina.
“Come va?”, mi chiede.
“Da Dio!”, gli rispondo.
“Bene, adesso vediamo meglio”.
Solleva il telo con cui mi avevano coperto quelli dell’ambulanza e fa una brutta faccia. Mi punto sui gomiti e do un’occhiata anch’io.
Vorrei non averlo fatto. Mi viene da vomitare. La gamba, dal ginocchio in giù, è proprio conciata male.
Bel lavoro, cazzo! Frattura multipla scomposta ed esposta.
Arriva un chirurgo (almeno, spero che lo sia, anche perché non è propriamente un ginecologo quello che mi serve). Guarda con un certo interesse la mia gamba e si rivolge all’infermiere:
“Mettiamo un catetere”, gli fa.
“No, guardi, non mettiamo nessun accidente di catetere!” ringhio io, un po’ sull’incazzoso, anche se sto cercando di moderare il mio linguaggio – in fin dei conti, come si dice, è lui ad avere “il coltello dalla parte del manico” – ed evito di dirgli che il catetere può metterselo lui, se proprio vuole.
“Perché, lei riesce ad orinare?”
“Gliene faccio anche un litro, se proprio ci tiene. Ma adesso è proprio la cosa più importante?”
Non mi risponde, ma per fortuna sembra perdere interesse per le mie urine. Debbo riconoscere che si stanno dando da fare: medico ed infermieri mi fanno un paio di iniezioni e mi infilano l’ago di una flebo nel braccio. Devono avermi imbottito di sedativi: poco dopo la gamba mi fa ancora meno male ed il tempo sembra essersi fermato.
E forse succede proprio una cosa del genere, perché la faccenda andrà maledettamente per le lunghe. Dopo l’intervento e venti giorni in ospedale, dieci mesi con le stampelle perché le mie vecchie ossa se la prendono piuttosto comoda a rimettersi insieme, e poi la riabilitazione; insomma: un anno senza la mia piccolina. Un anno quasi gettato via.
Ma non era ancora finita.
Allora dovevo ancora imparare quanto è meschina e crudele certa gente, quando ha la possibilità di sfogare il proprio odio verso chi, come un animale ferito, non può difendersi.
Se io sono Orso, di soprannome e di carattere, di sciacalli ne ho incontrati parecchi.
Ma questa è un’altra storia. (tratto da “Racconti bikers”; Edizioni 9Muse)

Orso

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Federico “ho fatto la mia parte”

Scritto da folfox4 il 26 Gennaio, 2010
racconti / 3 Commenti

La comunicazione per me più difficile è stata quella che mi sono ritrovato a fare una notte ai genitori di un bambino di 5 anni che giunse alla mia osservazione dopo 3, 4 giorni passati in chirurgia con un’appendicite evoluta in shock settico.
Quando Federico giunse in reparto era allo stremo ed ebbe quasi subito un’arresto cardiaco.
Per non perderlo e prima di andare in sala operatoria furono necessari 45 minuti di rianimazione cardio-polmonare. Quando rianimi qualcuno ed in particolare un bimbo, il cui torace lo tieni tra le mani, ti senti travolgere da un istinto fortissimo quasi incontrollabile che ti spinge a fare qualsiasi cosa per tenere l’essere umano che ti è stato affidato in vita.
La sensazione che provai quella notte fu quella di riversare la mia energia vitale nel corpo di quel bambino. Essendo Federico un bimbo piccolo, la sensazione che provai era quella di essere dentro il suo corpo, come se stessi tenendo tra le mani il suo cuore.
Quando polso e pressione finalmente ricomparvero provai un temporaneo sollievo, come dire: “l’abbiamo ripreso”, “ci stava sfuggendo e siamo riusciti a riacchiapparlo”.
L’infermiera che era con me e con la mia collega mi disse, in seguito, che ritmavo la rianimazione bestemmiando, sinceramente non lo ricordo così come ho dimenticato il corpo e il viso di Federico.
Dopo 45 minuti di rianimazione, travolto dall’imperativo quasi diabolico di tenere in vita Federico ero prostrato fisicamente e psichicamente e senza il tempo di riflettere su ciò che avevo vissuto mi disposi a parlare con i genitori che erano rimasti fuori dalla porta senza sapere costa stesse accadendo.
Li feci accomodare nella stanza dei colloqui e gli dissi che Federico aveva avuto un’arresto cardiaco, che era pressoché morto e rischiava ancora di morire da un momento all’altro.
Mentre parlavo ebbi la sensazione che il padre mi ascoltasse, che in base alle mie parole comprendesse le gravi condizioni del figlio e rimettesse insieme i pezzi dei giorni trascorsi in ospedale, quando probabilmente non si era reso conto della gravità della situazione.
Dal modo in cui mi ascoltava e mi guardava ebbi la sensazione che avesse compreso che ci eravamo veramente fatti in quattro per salvare almeno temporaneamente la vita al figlio.
Della madre invece ricordo lo sguardo ostile, ebbi la sensazione di essere il primo medico che si offriva veramente al dialogo da quando il figlio era stato ricoverato e tutto in lei esprimeva un forte astio nei miei confronti che diceva: “me lo avete ammazzato”.
Fu estremamente duro per me quel colloquio: era evidente che c’erano in scena due dolori distinti, quello dei familiari, certamente centrale e devastante e il mio di operatore dell’ospedale che sentivo sulle spalle la responsabilità di ciò che non era stato fatto, di ciò che non si era compreso tanto che il bambino si trovava in fin di vita.
Il caso clinico di Federico mi metteva paura, il bambino era più morto che vivo immaginavo che la sepsi e l’arresto fossero conseguenti all’appendicite che i chirurghi, inspiegabilmente, per giorni non avevano voluto operare.
Percepivo un forte imbarazzo, mi sentivo in colpa, ci si sente sempre in colpa quando le cose vanno male. Fui invaso da un’intensa sensazione di colpa come se tutto dipendesse da ciò che avevo fatto o mancato di fare nell’assistere il paziente, mi rendo conto che è una specie di delirio di onnipotenza, ma è esattamente ciò che si prova.
Adesso narrando di quella notte mi viene in mente che, per la prima volta da quando avevo 18 anni, mi ritrovavo in un contatto fortemente sentito con un bambino.
Fino a 18 anni avevo sempre avuto una grande intesa con i bambini, se ne incontravo uno ero contento e loro in genere erano entusiasti di me, poi improvvisamente persi questa capacità, era come se inspiegabilmente fossi diventato indifferente nei loro confronti. Questa sensazione di distanza emotiva dai bimbi era sorta in coincidenza con i primi rapporti sessuali quando, sperimentai il terrore di poter avere un figlio.
Ricordo che dopo una delle mie prime esperienze la ragazza con cui stavo ebbe un ritardo e fui colto dall’angoscia fortissima di averla messa incinta. Avevo un pensiero ossessivo che mi martellava la testa: “oddio è incinta, oddio aspetto un figlio”.
L’intensità di quell’angoscia a mio avviso anormale, mi riporta ad una sensazione simile che sperimentai intorno ai 9 anni, quando ci fu il forte rischio di una guerra atomica: era la crisi di Cuba … La televisione bombardava di informazioni ed io ricordo quell’angoscia; delle volte mi dondolavo e dicevo; “Ho paura della radioattività. Ho paura della radioattività”.
Questa stessa sensazione la provavo anche a 4-5 anni, la stessa età di Federico, quando passavo le mie giornate nel grande armadio di legno della nonna; dentro c’era la biancheria, un profumo di lavanda ed io guardavo il mondo sbirciando dalle ante.
Il giorno in cui mi ritrovai a rianimare Federico, ritrovai l’intenso trasporto fisico ed emotivo che provavo per i bambini ma questa volta non stavamo giocando; tenevo tra le mani il suo cuore e provavo a non farlo morire.
L’energia che si è mobilizzata in termini di quantità era la stessa di quando ero giovane solo che questa volta la qualità dell’energia era diversa.
Come dicevo non ricordo l’aspetto fisico di Federico, mentre ricordo bene che quando una settimana dopo lui morì, il primario mi chiamò a casa per dirmi che il padre mi voleva parlare. Sebbene fossi di riposo andai dai genitori, rimasi del tempo con loro e poi per la prima volta da quando ero in rianimazione andai al funerale di un malato morto.
Era giugno, quell’estate andai in montagna, ma i giorni passavano ed io mi sentivo incapace di godermeli, mi sentivo scombinato, aleggiava in me un intenso senso di tristezza che si rischiarò quando tornando giù da cima Tosa, pensai che potevo dedicare una via di ascesa a Federico.
Mi misi d’accordo con Demis la mia guida di Tione di Trento e ad ottobre tornai in montagna e aprii questa via, 150 metri di parete rocciosa, del 5° grado.
Fu una scalata impegnativa, che richiese sforzo, attenzione e molta concentrazione. Dopo 5 ore di scalata mi ritrovai in cima, era stupendo e pensai che quello era il posto adatto dove seppellire Federico, lì poteva riposare e guardare il magnifico panorama che lo circondava.
L’Adamello, la Presanella e giù giù monti fino al massiccio dell’Ortles.
Non ero riuscito a salvarlo, mi sentivo in colpa, mi domandavo se c’era qualcosa di più o di diverso che avrei potuto fare per garantirgli la vita e alla fine era importante per me accompagnarlo alla morte e seppellirlo simbolicamente.
La discesa in corda doppia durò solo 30 minuti e fu estremamente piacevole.
Si era compiuto un cerchio, si era chiuso un ciclo della mia esperienza professionale, da giovane medico a maturo signore che fa il medico. Una vera rivoluzione.
Dopo l’incontro con Federico ho perso una visione un po’ ideale della professione o forse posso dire che ho perso una corazza che mi permetteva di mantenere una distanza dal dolore che mi circondava quotidianamente.
Prima di Federico non avevo mai avvertito così intensamente la sofferenza, come se la vita mi avesse fatto capire attraverso quel bambino che cosa significa caricarsi sulle spalle un essere umano e portarlo verso la vita.
Oggi “sento” la malattia che devasta il corpo dei malati… una lastra, una TAC, un referto degli esami ematochimici, non sono più per me solo parole o numeri… “vedo” il disfacimento dell’organismo.
Questa percezione della malattia mi fa dolore e questo dolore mi fa sentire debole.
Via via nei miei 30 anni di pratica clinica la medicina è molto cambiata divenendo sempre più complessa. La malattia di un essere umano nasce appunto dall’incontro tra uno specifico essere umano con una specifica entità nosologica e questo incontro è unico per cui al medico è sempre richiesto di fare la spola tra quello specifico individuo malato e ciò che scientificamente si conosce di quella malattia.
Ci si muove quindi nell’incertezza di ciò che è meglio fare per quel singolo essere umano che hai davanti alla luce dell'”evidenza scientifica”.
Federico mi è morto
Non sono riuscito a salvarlo
Sono andato a dargli una degna sepoltura

Folfox4

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